8 Settembre 2020 | Strumenti e approcci

La stimolazione cognitiva a domicilio per pazienti con deterioramento cognitivo lieve-moderato: tra esperienza personale e professionale

“Esercizi semplici, familiari, divertenti, con lo scopo di non fare dimenticare al malato i nomi dei suoi familiari, la sua casa, la sua identità, utilizzando i quali il malato si senta gratificato perché conosce la maggior parte delle risposte”. L’autrice presenta nell’articolo una strategia pratica e personalizzata di stimolazione cognitiva dei malati con deficit cognitivo lieve moderato. Uno strumento che nasce dall’incrocio tra esperienza familiare ed esperienza professionale.


La malattia di Alzheimer l’ho conosciuta, per la prima volta, a casa, in famiglia. Quando ancora se ne parlava poco e solo tra specialisti del settore, ancora troppo ridotti in rapporto al numero sempre crescente di malati. Quando incontrai la demenza nella mia vita familiare ero già un medico specializzato in Medicina Interna, assunta in Geriatria all’ospedale di Reggio Emilia. Quel reparto non trattava specificatamente pazienti con demenza, di conseguenza ero molto impreparata di fronte ad essa.

 

 

L’incontro con la demenza

I primi comportamenti inadeguati di mia madre ho iniziato ad osservarli nel 2001. Aveva 64 anni. Era appena stata operata di neoplasia mammaria e faceva la chemioterapia. Credo che quest’ultima abbia fatto precipitare una condizione preesistente che era stata diagnosticata come “depressione”. Vedova da 5 anni; con il senno e l’esperienza di poi aveva già i primi sintomi da qualche anno. Mia madre però non aveva mai manifestato una inclinazione alla depressione. Lei era quella “forte” in famiglia. Eppure piccoli segnali li aveva mandati; sbagliando a fare la lavatrice, salando troppo il cibo, perdendo oggetti… iniziali deficit della memoria a breve termine.

 

Accadde però un giorno che, nell’accompagnarla a comprare un regalo alla sua nipotina di 2 anni, scelse una ciotola di ceramica. Non poteva trattarsi di depressione. Di lì a poco la diagnosi di “demenza fronto- temporale” e, in base ai suoi comportamenti, già in stadio lieve- moderato. Fu un colpo al cuore. Era troppo giovane. Noi figlie eravamo troppo giovani. Il neurologo che fece la diagnosi e prescrisse la terapia (IACHE) mi disse “cercate di gestirla in più persone e in bocca al lupo”).  Ero disperata, come figlia e come medico. Avevo 35 anni e nessuna esperienza pratica. Sistemata la parte assistenziale di base (l’abbiamo tenuta a casa con assistenza 24 h), era fondamentale intervenire in qualche modo nel decorso della sua malattia.

 

Un’attività pratica: il “suo” quaderno di esercizi

Ho cercato aiuto ovunque dai geriatri, psicologi, neuropsicologi. Mi hanno riempito di materiale per la “stimolazione cognitiva” che era, allora, ancora opinabile e poco praticata. Essa aveva però dei suoi fondamenti di cui se ne sarebbe parlato molto con negli anni successivi, in particolare “la plasticità neuronale”.

 

La plasticità neuronale1è quella capacità neuronale nell’adattarsi in quanto le connessioni neuronali sono soggette a continui cambiamenti. Prima si pensava che la plasticità neuronale fosse limitata al periodo prenatale e ai primi anni di vita ma gli studi (Pascual-Leone e al., 2005; Sasmita et al., 2008) hanno dimostrato il perdurare di questo fenomeno per tutto l’arco della vita. In effetti la stimolazione cognitiva è un intervento non farmacologico, che mira a rallentare il decorso progressivo per effetto della plasticità neuronale, indotta dall’esercizio delle funzioni residue.

 

Tutto il materiale che avevo reperito era troppo difficile, noioso, tecnico. Mia madre aveva fatto la V elementare. In più erano iniziati i primi disturbi del comportamento, il più comune il “wandering”. Difficile tenerla ferma e seduta.  Questo senso di impotenza e disperazione non mi ha fatto arrendere anzi, mi ha stimolato a trovare una modalità per stimolarla che fosse adatta a lei. Ed è così che nasce il suo “quaderno di esercizi” personalizzato, prendendo spunto da tutto quello che avevo letto (Gollin et al., 2007; Mazzucchi, 2006; Quaia, 2001) e dall’ inventiva e pragmatismo americano essendo cresciuta a New York).

 

Esercizi semplici, familiari, divertenti, con lo scopo di non farle dimenticare i nostri nomi, la sua casa, la sua identità e che stimolassero la sua memoria e la obbligassero a ragionare con un po’ di sforzo. Un modo per stimolarla, cercando di mantenere le sue capacità residue il più lungo possibile. Nell’usarlo lei si sentiva gratificata perché conosceva la maggior parte delle risposte. Un quaderno classico, di quelli che si comprano in cartoleria. Scritto a mano. A quadretti per facilitare i disegni a chi proprio non sa disegnare.

I punti di forza del Quaderno di stimolazione cognitiva
Tabella 1 – I punti di forza del Quaderno di stimolazione cognitiva

C’erano proverbi da completare, il suo albero genealogico. Avevo ritagliato immagini di alimenti ed incollati e lei doveva fare la spesa. Le “sue “canzoni erano il nostro punto forte; si cominciava con una frase e poi lei continuava a cantare (io conoscevo solo il ritornello). Sin dal primo giorno capii che questa era diventata la chiave per poter comunicare con lei. Quando diventava irrequieta e ricominciava a girare per casa le facevo proposte divertenti: disegnare, ballare, leggere barzellette (adorava ridere).

Quel quaderno che custodisco con tanto amore, l’ha avvicinata anche alle mie sorelle e ai suoi nipotini ormai abituati ad una nonna apatica, amimica, anaffettiva che aveva l’effetto di allontanarli per paura. Si sa che la demenza è una patologia degenerativa e progressiva e, ad un certo punto il “quaderno”, è stato messo da parte. Lei non c’è più ma la sua patologia mi ha insegnato che si può amare anche con il cuore spezzato, che si può sorridere per una semplice carezza rubata, che l’amore per un genitore non ha confini. Lei non c’è più ma il quaderno, con un disegno colorato distrattamente che mi ha dedicato, è la cosa più importante per me.

 

Quando sono rientrata a Bologna, nel reparto di Geriatria, ad esso era annesso il Centro Esperto per le Demenze. Per due anni mi sono rifiutata di andarci; troppo forte il ricordo e il dolore.  Il tempo, si sa, è un gran alleato e, in punta di piedi, con il tempo entrai a far parte dei medici degli ambulatori per persone affette da demenza. La parte scientifica l’avevo imparata per “forza” sui libri, ma la parte umana, empatica ormai faceva parte del mio DNA. Ero certa che avevo qualcosa in più da dare rispetto ai miei colleghi: la mia esperienza personale. Ogni volta che vedevo un paziente con demenza riconoscevo nei suoi occhi lo stesso vuoto di mia madre e, in ogni famigliare, riconoscevo tutte le emozioni che avevo passato: impotenza, rabbia, tristezza, dolore, disperazione, sensazione di isolamento.

 

 

Fare tesoro dell’esperienza: i quaderni di stimolazione cognitiva

Ad oggi non esistono farmaci che guariscono o che rallentino in modo decisivo la demenza. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i centri diagnostici, di ascolto, di volontariato, i centri diurni (questi ultimi si sono modernizzati).  Ma nel territorio esiste, oggi come ieri, tutta una popolazione di pazienti affetti da deterioramento cognitivo lieve/moderato, “troppo avanti” nella malattia per frequentare i corsi di stimolazione cognitiva offerti dall’azienda2o da altre agenzie e che, al contempo, non vogliono andare ai centri diurni. Non vogliono fare “compiti”, sono già stati a scuola”.

 

Pazienti i cui famigliari faticano nell’assistenza, sono disperati nel vedere il proprio caro mutacico, con lo sguardo fisso alla Tv, senza vedere o comprendere niente; oppure che gironzolano per casa in continuazione, irrequieti.

 Obiettivi della stimolazione cognitiva
Tabella 2 – Obiettivi della stimolazione cognitiva

Di fronte a questa realtà sentivo che dovevo fare di più. Impostai il mio ambulatorio in modo diverso. Oltre alla visita tradizionale, rispondevo a domande, incoraggiavo, ascoltavo e davo consigli su come intrattenere il paziente. A volte mi è capitato di raccontare la mia esperienza personale; volevo che mi sentissero vicina, che sapessero di essere compresi, che avevamo qualcosa in comune, che io ero stata come loro. Ma spesso mi rendevo conto che non bastavano i consigli sulla gestione, ci voleva qualcosa di esemplare, di pratico.

 

Il passaggio dal “quaderno di mia madre” all’idea di fornire uno strumento di supporto per pazienti e famigliari è stato breve. Ma come fare un “quaderno” rivolto alla popolazione generale? Di testi per la stimolazione cognitiva ce n’erano diversi, io volevo creare un testo divertente, che non desse l’idea di “studiare” ma che unisse la stimolazione cognitiva al “gioco”. Il “gioco” è di solito ben accetto da tutti se svolto senza essere giudicati. Impariamo a giocare da bambini e questo diventa il primo passo per socializzare e confrontarsi. Il gioco può diventare un sano passatempo e, a volte, istruire.

 

Sulla base di queste premesse ho iniziato a formulare esercizi diversi strutturati a forma di gioco. Accanto ad esercizi classici nell’ambito della stimolazione cognitiva (attenzione visiva, ROT, immaginazione, memoria, reclutamento associativo; ecc) ho aggiunto esercizi che mimassero programmi televisivi o vecchi giochi dell’infanzia. Canzoni a tutti note ed esercizi che rievocano personaggi famosi (tipicamente della loro gioventù). Il testo poteva essere auto-compilato o utilizzato con un famigliare/caregiver. La popolazione target era pazienti con demenza lieve-moderata (MMSE tra 22 e 15/30), di età compresa tra i 75 e gli 85 anni e scolarità da 0 a 8 anni.

 

Il primo testo fu pubblicato nel 2013(Gueli, 2013). Ha avuto molto successo. Alcuni pazienti me lo riportavano compilato, orgogliosi. Mi piace immaginare che si siano divertiti come facevo io con mia madre. Con il passar degli anni iniziarono le richieste di altro materiale simile. Chiesi consigli su cosa avevano gradito, cosa era stato troppo difficile o troppo facile, cosa non era piaciuto. Così a distanza di cinque anni ne scrissi un altro. Non più un testo, ma un quaderno con soli esercizi (Gueli, 2019).

 

Conclusioni

Le esperienze personali, anche le più brutte, ci insegnano qualcosa. L’importante è riconoscere questi insegnamenti e utilizzarli per qualcosa di costruttivo. Io, dalla mia, ho colto l’importanza dei bisogni dei pazienti e dei loro famigliari e, nel mio piccolo, ho fornito loro un canale comunicativo: uno strumento versatile per poter affrontare leggermente meglio questa patologia devastante.

 

Spero che questa condivisione tra me e loro sia stata utile. Di certo era necessaria per molti. Per me è stata anche un po’ terapeutica. Non cambierei questo lavoro per nessun motivo al mondo. Questa, però, è un’altra storia.

Note

  1. La plasticità neuronale è generalmente definita come la capacità del cervello di modificare la sua struttura e/o funzione in risposta a fattori interni e esterni.
  2. L’azienda USL di Bologna organizza alcuni corsi, tenuti da neuropsicologi, di stimolazione cognitiva per pazienti affetti da MCI (mild cognitive impairment). Ciò viene svolto anche da molte associazioni di volontariato della città.

Bibliografia

Gollin D., Ferrari A., Peruzzi A., (2007), Una Palestra per la mente, Trento, Ed. Erickson.

Gueli C., (2013), Ginnastica Mentale, Santarcangelo di Romagna, Ed. Maggioli.

Gueli C., (2019), Ginnastica Mentale Quaderno di esercizi, Santarcangelo di Romagna, Ed. Maggioli.

Mazzucchi A., (2006), La riabilitazione neuropsicologica, Milano, Ed. Masson.

Pascual-Leone A., Amedi A., Fregni F., Merabet L.B.., (2005), The plastic human brain cortex, in Annual Review of Neuroscience, Vol. 28, pp 377-401.

Quaia L., (2001), Mnemosine, Esercizi per la memoria. Manuale per operatori, Como, Ed. Nodolibri.

Sasmita A.O., Kuruvilla J., Pick Kiong Ling A., (2008), Harnessing neuroplasticity: modern approaches and clinical future, in International Journal of Neuroscience, Vol. 128, Issue 11, pp 1061-1077.

 

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