17 Dicembre 2021 | Professioni

La nuova normalità: lavoro ibrido e tecnologia agile

Con la pandemia da Covid-19 il mondo del lavoro, nel nostro Paese, ha dovuto riorganizzarsi facendo ricorso, ove possibile, al lavoro da remoto. In ambito sanitario e sociosanitario, dove per molti lavoratori la presenza fisica sul luogo di lavoro e il contatto umano sono imprescindibili, si registra la più alta percentuale di denunce per infortunio e decesso a causa del virus. Le restrizioni legate al Covid-19, tuttavia, hanno portato a sviluppare forme innovative di assistenza sanitaria a distanza.

la-nuova-normalità-lavoro-ibrido-e-tecnologia-agile

Al momento in cui scrivo, qui in Italia siamo nella fase definibile di sub picco pandemico. Non si registrano, infatti, le punte elevate d’incidenza del contagio ma la situazione è ondivaga e sicuramente non è ancora chiaramente riportabile a livelli di ordinarietà endemica. C’è però una sufficiente chiarezza per esaminare l’efficacia delle misure utilizzate e così aggiornare linee guida, protocolli e procedure e per impostare, nel corso del perdurante stress-test del Covid-19, nuovi modelli organizzativi. Benché – va certamente sottolineato! – con valutazioni e proposte in revisione costante alla luce dell’emergere di nuovi dati ed evidenze.

 

A me preme concentrarmi sulla costatazione che s’intendono mantenere diverse misure cautelative, di certo per molto tempo a venire e in certi ambiti sanitari e sociosanitari con alta probabilità permanentemente e quindi con la necessità di rivedere i classificatori tariffari di servizi e prestazioni. Tra tali misure, in caso di virus trasmissibili per via aerea, anche solo respirando oltre che con le micro-gocce espulse con tosse e starnuti, acquista speciale rilievo il mantenimento di distanze tra più individui che per ragioni diverse condividono contemporaneamente spazi vicini, in particolare nei luoghi ove si incontrano soggetti fragili. Questi sono da annoverare essenzialmente nelle fasce d’età più elevate (> 55 anni) nonché tra coloro che presentano comorbilità tali (ad es. patologie cardiovascolari, respiratorie, dismetaboliche e cerebro-degenerative) da essere esposti a maggiori rischi per la loro salute in caso di infezione sovrapposta (vedi ‘Circolare congiunta del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministero della Salute del 04/09/2020’).

 

Proprio l’inevitabilità di criteri comportamentali e procedurali preventivi ha condotto a una forzosa ed emergenziale applicazione del lavoro in remoto (smart working), che è stata oggetto di un’indagine da parte dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano e i cui risultati sono stati resi disponibili a novembre 2020.

 

Il lavoro ibrido

Il numero di lavoratori che hanno sperimentato il lavoro agile è stato influenzato dalla dimensione e tipologia di organizzazione aziendale. Sono stati 2,11 milioni (il 54% dei dipendenti) nelle grandi imprese, che nel 97% dei casi hanno dato questa possibilità a una parte dei propri collaboratori. Le imprese che prima dell’emergenza avevano progetti in atto di smart working hanno avuto maggior facilità a svilupparsi in tal senso e mediamente il numero dei dipendenti in remoto è stato pari al 59%, nelle altre, senza esperienza pregressa, si è fermato al 36%.

 

Riguardo le pubbliche amministrazioni, dai dati emersi dalla ricerca presentata in giugno 2021 al FORUM PA 2021 emerge che prima della pandemia il ricorso a forme di lavoro agile era sostanzialmente irrilevante, circa l’1% nel 2019 secondo l’ISTAT. I provvedimenti del Governo hanno portato in smart working un dipendente della PA su tre (il 33%) nel secondo trimestre 2020. Il che viene considerato positivamente, anche se avrebbero potuto essere più del doppio, visto che il 64,9% delle professioni della PA si potrebbe svolgere anche a distanza.

 

Tornando allo studio dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, esso prospetta che al termine dell’emergenza le persone che lavoreranno almeno in parte da remoto saranno complessivamente 5,35 milioni, di cui 1,72 milioni nelle grandi imprese, 920 mila nelle PMI, 1,23 milioni nelle microimprese e 1,48 milioni nelle PA. Ne viene che il 70% delle grandi imprese aumenterà le giornate di lavoro da remoto, portandole in media da uno a 2,7 giorni alla settimana, di conseguenza una su due modificherà i propri spazi fisici.

 

È, pertanto, iniziata una ‘nuova normalità’ caratterizzata da un’attività ibrida, che alterna la presenza sul luogo di lavoro al collegamento da remoto.

 

In altri termini, molte aziende private si stanno orientando verso questa composita modalità lavorativa e stanno disegnando un modello che non si può semplicisticamente risolvere in una formula di proficuo bilanciamento tra l’“office-first”, dove l’ufficio è il segna-ritmo dell’attività lavorativa, e il “remote-first”, in cui il dipendente/collaboratore sceglie il luogo dove adempiere gli obblighi contrattuali ed è presente in ufficio solo se davvero necessario. Si tratta, infatti, di dar luogo a un clima organizzativo in cui trovino predominanza responsabilità e fiducia e uno stile di leadership incline alla delega, al fine di rafforzare la resilienza aziendale, ossia il mantenimento di performance costanti nel tempo (business continuity) di fronte a un periodo tuttora contrassegnato da incertezza su rischi, minacce e stabilità di riassetto.

 

Rischi e minacce che non investono esclusivamente l’interno degli ambiti lavorativi ma sono il presente e il futuro prossimo delle famiglie, sicché lo smart working si mostra ad alcune organizzazioni sia come modalità per meglio fronteggiare situazioni imprevedibili e le circostanze che ne conseguono, ma anche come work-life balance, ovvero un più governabile equilibrio tra lavoro e vita privata, che ha sempre un impatto su produttività e appagamento.

 

Sul versante pubblico, “lo smart working sarà totalmente implementabile dal 31 gennaio da parte delle 32.000 PA che ci sono in Italia, sulla base del contratto”, ha spiegato il ministro di riferimento Brunetta, aggiungendo: “Se tutto va bene lo rendiamo strutturale”. Lo smart working, quindi, sarà una “forma di lavoro non più obbligata”, ha proseguito Brunetta, ma sarà “decisa in ragione dell’efficienza e della soddisfazione.”

In pratica, non è consentito al personale della PA di lavorare sempre e solo in smart working: questa tipologia di lavoro deve dunque essere alternata con la presenza in ufficio.

 

Quanto è in elaborazione per gli accordi contrattuali sul lavoro ibrido svolto dai dipendenti della PA si riproporrà certamente anche nel settore privato, soprattutto saranno oggetto di discussione e negoziazione i seguenti punti:

  • fasce temporali;
  • piattaforma digitale condivisa;
  • diritto alla disconnessione;
  • rispetto della privacy e della policy aziendali.

 

Compresenza obbligata nei compiti di assistenza e cura

Non per tutti lo smart working è stato ed è possibile. Ci sono, infatti, compiti che richiedono necessariamente la compresenza con contatto fisico o almeno visivo.

 

In sanità e sociosanità non è sempre possibile svolgere compiti di assistenza e cura senza intervenire con le mani sul corpo dell’assistito/paziente, né si può a fare a meno di una qualità fondamentale, ossia quella relazionale interumana diretta, che è supplementare dell’efficacia terapeutica ed umanizza i rapporti professionali.

 

Nel Dpcm del 17 maggio 2020, con cui l’Italia usciva ufficialmente dal lockdown, al comma 2 dell’articolo 9 su “Ulteriori disposizioni specifiche per la disabilità” si legge: “Le persone con disabilità motorie o con disturbi dello spettro autistico, disabilità intellettiva o sensoriale o problematiche psichiatriche e comportamentali o non autosufficienti con necessità di supporto, possono ridurre il distanziamento sociale con i propri accompagnatori o operatori di assistenza, operanti a qualsiasi titolo, al di sotto della distanza prevista.”

 

Ciò rende conto del perché una grande frazione della Pubblica amministrazione, il 58% del totale che lavora nell’istruzione e nella sanità, si sia trovata a dover mantenere posizioni lavorative sul fronte pandemico. Il settore della sanità e assistenza sociale registra il 66,5% di tutte le denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19 all’Inail nel comparto industria e servizi da inizio epidemia al 30 aprile 2021, seguito dall’amministrazione pubblica (tra cui Asl, regioni, province e comuni) con il 9,2%. Ed è la sanità a esibire la maggioranza (26%) di denunce di infortunio con esito mortale da Covid-19. L’analisi per professione dell’infortunato evidenzia la categoria dei tecnici della salute come quella più coinvolta da contagi con il 38,7% delle denunce (in tre casi su quattro sono donne), l’82,2% delle quali relative a infermieri. Seguono gli operatori sociosanitari con il 19,2% (l’80,9% sono donne), i medici con il 9,2% (il 48,0% sono donne), gli operatori socioassistenziali con il 7,4% (l’85,1% donne) e il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere) con il 4,7% (3 su 4 sono donne).

 

Tecnologia agile ed amica

L’obbligo di conciliare rapporti umani necessari con gli altrettanto necessari provvedimenti preventivi ha costretto i sistemi sanitari a offrire forme innovative di assistenza sanitaria e il concetto di “lavoro ibrido” qui si configura con una sua specifica e valida alternativa rispetto al modello tradizionale, ossia come ‘agilità tecnologica’.

 

Le restrizioni legate al Covid-19 hanno portato a una rinascita della visita a domicilio, anche se in una sua versione modernizzata, grazie cioè alle piattaforme virtuali. L’adozione diffusa di queste piattaforme per effettuare prime visite, consulenze, follow up, monitoraggio dei parametri fondamentali e cure virtuali è un esempio di un cambiamento di sistema, imprescindibile da tempo e la cui implementazione allargata è stata spinta dalla pandemia.

 

L’infrastruttura di telemedicina esistente è stata in grado di soddisfare alcune delle esigenze di salute durante la pandemia, ma manca ancora della flessibilità e della capacità di soddisfare le crescenti richieste e impone comunque una formazione adeguata degli operatori sanitari, del personale amministrativo, ma anche dei pazienti e delle loro famiglie essendo il loro ruolo attivo.

 

Il digitale costituisce la leva principale della trasformazione del SSN ma la transizione digitale in sanità è un salto culturale collettivo. Non è da paragonare, ad esempio, alla introduzione di una TAC di ultima generazione, che obbliga solo il medico e il tecnico di radiologia ad un aggiornamento, ma non il paziente. Nella fattispecie da porre in essere, sarebbe anche pensabile l’introduzione di una professionalità a se stante o di una competenza associata a professionalità esistenti con la funzione di ‘mediazione culturale’, che possiamo chiamare ‘mediazione digitale’, cui affidare il compito di riempire il divario digitale (digital divide) tra l’utente dei servizi digitalizzati e la piena maneggevolezza di questi ultimi, facilitando l’accesso a internet, la comprensione delle applicazioni e addestrando al loro utilizzo abituale.

 

All’interno dell’Unione europea il divario digitale tra le generazioni è molto significativo. E tende ad aumentare con l’età. È la stessa Agenzia Europea per i Diritti Umani a dirlo. La conferma arriva dai dati rilevati in occasione della conferenza internazionale Rafforzare i diritti delle persone anziane in tempi di digitalizzazione – Lezioni apprese da Covid-19, organizzata da Age Europe, assieme alla BAGSO, l’associazione nazionale tedesca delle organizzazioni degli anziani.

 

L’uso della Rete è cresciuto anche tra la popolazione anziana, ma resta il fatto che solo 1 persona su 5 (il 20%) utilizza Internet occasionalmente rispetto al 98% dei giovani tra i 16 e i 29 anni. Inoltre, solo il 10% del totale degli utenti della Rete ha un’età tra i 65 e i 74 anni e il 2% ha più di 75 anni.

 

Conclusione

Siamo in una situazione di transizione multidimensionale che, come ho detto, si assesta sempre più in termini di normalità nuova. Al momento però le circostanze complesse si trovano ancora in fase di decantazione ed emergono all’attenzione soprattutto le novità e le turbolenze. Ciò mette sotto pressione sia le competenze di gestione del cambiamento (change management) degli enti gestori pubblici e privati del sistema sociosanitario sia, qui il tema diventa molto delicato, dei governi nazionali e regionali, che debbono saper cogliere i nuovi paradigmi su cui impostare la programmazione dei servizi e della spesa, così da assicurare la salute dei cittadini nel prossimo futuro, ma senza sfilacciare il presente.

 

Risulta emblematico a riguardo il frequente utilizzo da parte dell’Istituto Superiore della Sanità nei suoi rapporti della locuzione latina ad interim, ossia le indicazioni riportate sono transitorie e saranno ripensate alla luce di possibili imprevisti. Gli scenari provvisori costringono, però, alla costante revisione dei processi di pianificazione con rielaborazione delle strutture organizzative, degli obiettivi e delle procedure vigenti per incanalare la transizione da un assetto corrente e critico verso un assetto sempre meno problematico.

Bibliografia

FPA Data Insight (2021), Lavoro Pubblico 2021, Giugno.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Ministero della Salute (2020), Circolare congiunta del 04/09/2020, Oggetto: indicazioni operative relative all’attività del medico competente nel contesto delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus sars-cov-2 negli ambienti di lavoro e nella collettività.

Osservatori.net Digital Innovation (2020), Dallo smart working d’emergenza al “New normal”: nuove abitudini e nuovi approcci al lavoro, 3 Novembre.

Wittmeier KDM., Protudjer JLP., Wicklow BA. (2021), Reflections on Virtual Care for Chronic Conditions during the COVID-19, Can J Diabetes 45,1-2 Elsevier.

P.I. 00777910159 - © Copyright I luoghi della cura online - Preferenze sulla privacy - Privacy Policy - Cookie Policy

Realizzato da: LO Studio