1 Settembre 2010 | Cultura e società

Diversità e servizi di cura

Diversità e servizi di cura

Diversità e familiarità

La familiarità ha a che fare con il conoscere, e consiste nell’atteggiamento di dare per scontato qualcosa o qualcuno, anche se ciò che è noto non è, per questo, conosciuto.

 

La diversità, l’estraneità, l’alterità, invece, ha in sé qualcosa che ci inquieta, che forse ci infastidisce e che spesso ci appare pericoloso così da portarci ad assumere atteggiamenti di intolleranza e di discriminazione nei confronti di chi non appartiene al nostro ambito familiare, e che qualifichiamo come diverso da noi: i neri, gli omosessuali, gli immigrati, gli arabi, gli “handicappati”, i mendicanti, gli “zingari”, “i matti”, i clandestini; figure concrete di “altri” da noi, che abbiamo interiorizzato come dei doppi malevoli. Solo riconoscendo la nostra inquietante estraneità cesseremo di proiettarla all’esterno per non farne un doppio demoniaco. Così, quando avremo paura che i fantasmi degli “estranei” ci possano assalire, la scelta non sarà tra ucciderli e morire, ma quella di vivere tirandoli fuori. L’estraneo è dentro di noi, e quando lo fuggiamo o lo combattiamo, in realtà combattiamo contro il nostro inconscio che si rivela essere un paese di frontiere e di alterità costruite e decostruite. In realtà, scoprire l’estraneità che è in noi significa riuscire ad accoglierla attraverso un percorso complesso e articolato, spesso non tracciato a sufficienza e che, comunque, deve essere sempre richiamato alla nostra esperienza, se si vuole che ne rimanga memoria.

 

Uno sguardo agli avvenimenti contemporanei mostra una società dove sono venute meno ideologie forti e sistemi valoriali aggreganti, e stanno emergendo situazioni di denazionalizzazione che destabilizzano le forme e i contenuti delle società, delle economie e dei governi: è una situazione caotica dove le diversità aumentano e si fanno più complesse e dove, quindi, per orientarsi diventa cruciale una sorta di mediazione tra le rispettive culture di riferimento che, a loro volta, rimandano alla questione delle scelte etiche.

 

Ecco, allora, che la comunicazione interculturale appare come una possibile strategia attraverso la quale riuscire a riconoscere le diversità in modo che diventino valore aggiunto, e non elemento di freno alle dinamiche trasformative delle società e delle organizzazioni. Infatti, l’aspetto più importante della comunicazione interculturale, ma anche quello che porta all’adattamento tra culture, è dato dal fatto che gli individui possono avere consapevolezza della loro esperienza culturale e, al tempo stesso, possono modificare la loro esperienza in contesti culturali differenti tenendo presente che le trasformazioni avvengono comunque gradualmente e, se non adeguatamente accompagnate nel tempo, possono dare effetti indesiderati o addirittura controproducenti. Accettare la diversità è un percorso che spesso contrasta con il senso comune delle persone, che sono portate a riconoscere i propri simili e non gli estranei, ma gestire la diversità sta anche diventando la sfida cruciale attraverso la quale organizzazioni, servizi e istituzioni potranno crescere e svilupparsi creativamente, se saranno in grado di non rinchiudersi nei propri confini.

 

Gestire la diversità

Per approfondire il tema della diversità, si fa qui riferimento ai risultati di una ricerca che abbiamo di recente condotto, la prima realizzata in Italia, e che ha inteso verificare il grado di preparazione delle organizzazioni dei servizi sociali e sanitari nel gestire la diversità, e la possibilità di miglioramento, attraverso una formazione adeguata. L’assunto di base è che la competenza interculturale sia proporzionale alla capacità di fare esperienza della differenza: più gli individui e, di conseguenza, le organizzazioni in cui sono inseriti, hanno una visione del mondo articolata, maggiore è la loro possibilità di essere competenti interculturalmente e, quindi, di riuscire a gestire meglio il cambiamento. Per competenza intendiamo la capacità di adottare in modo intenzionale la worldview (la visione del mondo) di una persona che fa riferimento a un contesto culturale altro dal nostro.

 

La ricerca empirica ha utilizzato come riferimento il Modello Dinamico di Sensibilità Interculturale (MDSI) di Milton J. Bennett, che teorizza come individui e, per estensione, organizzazioni, fanno esperienza della differenza culturale; il continuum del MDSI descrive come le persone costruiscono l’esperienza della differenza in modo sempre più articolato, sulla base della capacità di rielaborare le proprie esperienze quotidiane. L’incapacità di fare esperienza della differenza culturale è definita “etnocentrica” in quanto un individuo è in grado di costruire l’esperienza solo della propria cultura. In questi stadi le altre culture non esistono (negazione), sono una minaccia (difesa) o sono differenti solo in superficie (minimizzazione).

 

Nel momento in cui le persone acquisiscono una visione del mondo capace di supportare l’esperienza interculturale, diventano “etnorelative”: sono allora capaci di riconoscere il valore delle altre culture (accettazione), di cambiare la loro prospettiva e modificare il comportamento per tenere in considerazione l’altra cultura (adattamento), di incorporare la competenza interculturale nella loro identità (integrazione).

 

Il MDSI si distingue da altri modelli di competenza interculturale in quanto assume che la competenza non sia solo un insieme di saperi e di abilità o che sia sufficiente avere un’attitudine positiva. Ciò che è necessario è una visione del mondo sottostante che permetta agli individui di fare esperienza appropriata della propria e delle altre culture in modo etnorelativo. Gli individui possono così progredire dall’etnocentrismo all’etnorelativismo: i sistemi percettivi dell’individuo nelle fasi etnocentriche sono meno sensibili alle differenze culturali, mentre nelle fasi etnorelative le persone sono capaci di fare più distinzioni significative all’interno del fenomeno. Uno strumento utile per misurare come gli individui costruiscono la loro visione della differenza è il test psicometrico (Intercultural Devolpment Inventory, IDI),costruito da Hammer e da Milton Bennett, che misura le posizioni del MDSI (dalla negazione all’adattamento).

 

La Ricerca-Azione nella Provincia di Milano

La ricerca-azione ha interessato le organizzazioni e gli operatori di cinque differenti servizi sociali e sanitari situati in Milano e Provincia, e precisamente: un Ospedale a Milano, una RSA della Provincia Sud, un’Azienda con sortile della Brianza, un Comune dell’hinterland Ovest milanese, un Distretto sociale dell’hinterland Sud-Est, il settore Formazione della Provincia. Sono state condotte novanta interviste qualitative ed è stato somministrato l’IDI a 296 operatori, mentre i test completati in maniera valida sono stati 239. Successivamente, all’interno delle cinque organizzazioni sono state selezionate delle persone in base al loro profilo personale emerso dal test. Il criterio è stato quello di selezionare soggetti che rappresentassero tutte le posizioni misurate dall’IDI. Cinquanta, dei soggetti selezionati, hanno dato la disponibilità a partecipare ad un corso di formazione di comunicazione interculturale e a venire nuovamente testati alla fine del corso, insieme ad un gruppo di controllo che non aveva partecipato al corso.

 

Dall’analisi dei risultati emerge come la maggioranza degli operatori sia in minimizzazione, mentre il 26% si trova in negazione, in difesa o in difesa al contrario (loro sono migliori di noi),e solo il 10% si trova in una posizione di accettazione e di adattamento. Gli individui in minimizzazione sono in una situazione di superficiale tolleranza della differenza, come viene bene espresso da un operatore intervistato: “La gente deve pensare agli altri come pensano a loro stessi: non devono fare questa differenza tra quello e questo, devono trattare la gente uguale”. Tale affermazione rispecchia il paradosso nel quale si trovano gli operatori, costretti da un mandato universalistico, quello del servizio pubblico di libero accesso per tutti, e nella necessità di lavorare spesso in modo particolaristico, laddove i casi di utenti e pazienti richiedono trattamenti diversificati.

 

Uscire dalle fasi etnocentriche è senza dubbio l’aspetto più difficile nella costruzione della sensibilità interculturale, anche tenendo conto del fatto che la condizione etnorelativa non è correlata ad un livello di istruzione superiore, contrariamente a quanto si possa pensare. Basti considerare che le organizzazioni sanitarie, in cui sono presenti il maggior numero di persone con un livello di istruzione superiore, come ad esempio i medici, sono risultate mediamente più caratterizzate da worldview di difesa e di minimizzazione; in alcune organizzazioni dei servizi sociali invece, con particolare riferimento al distretto di Milano Sud, sono emerse percentuali piuttosto elevate di individui in accettazione e adattamento (31%) ad indicare una migliore capacità di adattamento, anche dell’organizzazione, a un territorio in forte cambiamento. e all’adattamento).

 

Il cambiamento attraverso la formazione mirata

A seguito di una formazione mirata che tenesse quindi conto delle diverse sensibilità presenti, nel loro pieno rispetto, le persone sono state sottoposte nuovamente al test psicometrico IDI con risultati molto positivi.

 

Complessivamente, il gruppo sperimentale di 50 persone provenienti da tutte le realtà considerate, che rispecchiava per professionalità e posizioni sul MDSI il gruppo iniziale, mostra come le posizioni in negazione, in difesa e in difesa al contrario siano passate dal 24% al 12%, mentre la minimizzazione sia diminuita del 16% e lo stadio di accettazione e adattamento sia aumentato sino a raggiungere il 34%. Il t-test conferma come i cambiamenti siano effettivamente avvenuti grazie alla formazione, e che non ci sono stati eventi o situazioni esterne tali da modificare la “visione del mondo” dei partecipanti. Il dato viene avvalorato dall’analisi sul gruppo di controllo. È quindi il lavoro individuale e collettivo sul significato che la diversità riveste nella vita delle persone e nel lavoro che può cambiare la visione del mondo; se ne deduce che essere aperti a ciò che appare ed è diverso significa anche essere pronti al cambiamento.

Un risultato certamente utile per una discussione con le organizzazioni e gli operatori riguardo alla necessità di attrezzarsi in maniera adeguata ad un’utenza in trasformazione, ma anche a realtà, istituzionali e non, in rapido cambiamento.

 

L’auspicio è quello di cominciare ad identificare, nell’area della competenza interculturale, standard professionali per chi opera nell’ambito dei servizi sociali e sanitari nell’idea di costruire indicatori certificabili di qualità, ma anche di una riflessione sul fatto che i cambiamenti nelle organizzazioni, in una prospettiva dinamica come quella che propone Milton Bennett, sono correlati a:

  • un’analisi dello stato dell’arte (nel nostro caso attraverso la misurazione della sensibilità interculturale);
  • l’introduzione di uno stimolo virtuoso per la creazione di massa critica (mediante un corso di formazione);
  • l’introduzione di attività mirate alla visibilità delle diversità interne;
  • il procedere ad una istituzionalizzazione aperta a fluttuazioni e a cambiamenti.

 

In questo modo, il valore della diversità nell’organizzazione dei servizi risiede sempre più nel saper sviluppare le proprie capacità nel cambiamento del contesto.

Bibliografia

Castiglioni I. La differenza c’è. Gestire la diversità nell’organizzazione dei servizi, FrancoAngeli, Milano 2009

Kristeva J. Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990.

Sassen S. Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2008.

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