1 Gennaio 2004 | Cultura e società

Editoriale
Gli anziani aumentano, ma non esiste più la “terza età”: deve esistere ancora il “pensionato”?


Il pensionamento è oggi all’attenzione di molte istituzioni, e in particolare lo è l’età di pensionamento. Semplificando, il ragionamento che viene fatto è: poiché viviamo più a lungo e meglio, dobbiamo anche allungare l’età lavorativa e andare in pensione più tardi. Il vero obiettivo, per altro dichiarato, non è il benessere del cittadino adulto e anziano, ma contenere il costo eccessivo delle pensioni dovuto all’invecchiamento della popolazione italiana e occidentale in genere. Questo merita però anche alcune considerazioni dal punto di vista gerontologico e geriatrico, che ci aiutino ad inquadrare la discussione nel più ampio e utile quadro della vecchiaia di oggi e di domani, per come la possiamo conoscere e della qualità di vita che ci aspetta.

 

Intanto vi è da sottolineare che identificare i problemi del pensionamento con quelli della vecchiaia è stato a lungo ed è tutt’oggi un errore, vista l’età media di pensionamento, attorno ai 60 anni. In realtà quello che colpisce dell’attuale macro organizzazione sociale è la non corrispondenza fra cicli vitali, per cui la scansione del ciclo biologico, sociale, lavorativo e culturale non avviene secondo gli stessi tempi. Infatti smettiamo di lavorare ad una età in cui non siamo ancora vecchi, ma la proposta sociale da quel momento si rivolge a noi in termini senili (al massimo di “tempo libero”, quando non di tempo vuoto). Oppure la dinamica famigliare , che si sta modificando, costringe a vivere una “sandwich generation” schiacciata fra figli che non acquistano autonomia e genitori sempre più dipendenti. Davvero la soluzione a tutto questo è posporre l’età di pensionamento? O non è il concetto stesso di pensionamento che va in crisi di fronte ai mutamenti della nostra epoca ?

 

Il “pensionamento” è solo una delle modalità con cui si garantisce un reddito indipendente dalla attività lavorativa, con sue precise caratteristiche; in particolare è una modalità che stabilisce in modo netto un prima e un dopo, una specie di legge del tutto o del nulla rispetto al lavoro retribuito. E’ in piena armonia con il modello complessivo della rivoluzione industriale del secolo scorso e della divisione del tempo di vita da cui nasce la “terza età”: una prima età in cui si impara, una seconda in cui si lavora, una terza in cui si riposa ( ed ora una quarta in cui ci si cura). Nella società attuale, delle tecnologie biologiche e dell’informazione, non è in crisi il pensionamento, è in crisi tutto questo modello. La maggior parte delle nozioni imparate nel giro di pochi anni ( alle volte di pochi mesi!) non è più valida o comunque da aggiornare: si può identificare l’apprendimento con la “prima età?” Il riposo in realtà è un tempo necessario sia alla prima che alla seconda età; anzi, il dibattito sindacale sul lavoro oggi è molto più sul tempo di lavoro ( a partire dalle battaglie d’inizio secolo sulle 8 ore, alle 35 ore settimanali della Francia) che non sul solo salario. Della impossibilità di identificare pensionamento, vecchiaia e riposo abbiamo già detto ( passare 20 anni davanti alla televisione ? E’ questa la nostra proposta sociale ? ). In realtà quindi, e sempre di più, lavoro, apprendimento e tempo libero sono contemporaneamente presenti nella vita di tutti, ma con differenti livelli di importanza in ogni età e fanno parte della soddisfazione di vita, e quindi della salute.

 

Secondo i dati di due surveys americane ( the 1995 Aging, Status, and Sense of Control and the 1987-1988 National Survey of Families and Households) due aspetti soggettivi del pensionamento coesistono in modo contradditorio nei pensionati seguiti in queste coorti: senso di liberazione dagli eccessivi impegni formali con diminuzione di ansia e di stress, ma anche minor senso di controllo e di potere, senza per altro arrivare alla depressione,.(Drentea P Retirement and mental health. J Aging Health 2002;14:167-94 ) . Riuscire ad avere il primo senza dover per forza sperimentare anche il secondo aspetto sarebbe certamente auspicabile, ma implica abbandonare l’idea di un pensionamento totale e irreversibile. Insomma, a parere dei gerontologi, è venuta l’ora di abbandonare questa figura del pensionato, vero simbolo delle inutilità della vecchiaia nella nostra epoca, per introdurre una vasta gamma di opzioni che valorizzino le scelte, le differenze, le vocazioni delle persone, senza gravare sulle casse dello stato.

 

Ci poniamo alcune domande: E’ possibile un’analisi dell’uso del tempo, del suo valore personale e sociale, per cui va previsto non solo un tempo occupato e uno “libero”, ma anche un tempo “disponibile” che fa capo alla libertà di scelta della persona, ma su cui ci può essere un’opzione sociale e non solo un’opzione di consumo? È possibile prevedere periodi di pensionamento “ad interim”, ad esempio? E’ possibile che si contratti un pensionamento posticipato a fronte di una piccola parte di pensione goduta prima ( ad esempio un mese o due di pensione all’anno a partire dai 55 anni, e pensionamento dopo i 65 anni )? E’ possibile che la cassa pensioni intervenga a finanziare orari part time di vario altro tipo a fronte di un contratto di posticipo del pensionamento totale? Se qualche esperto del settore vorrà rispondere sulla possibilità e compatibilità di queste domande ingenue, ne saremmo molto felici.

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