1 Dicembre 2009 | Editoriali

Editoriale
Poveri vecchi! O no?

Poveri vecchi! O no?

Questo numero dei “luoghi” rivolge lo sguardo alle condizioni socio economiche degli anziani italiani, con qualche conferma, ma anche con non poche sorprese.

 

Sorprendente è l’articolo di analisi dello status economico delle classi di età adulte ed anziane, di Carla Facchini e David Benassi. Secondo una idea diffusa, e in passato ben fondata, il maggior numero di poveri si trova nelle età estreme; i dati riportati, invece, mostrano che le classi di età con più alta percentuale di poveri sono quelle con capofamiglia 60-69enne, seguite da quelle con 50-59enni. Che cosa è successo? Gli autori attribuiscono questa situazione ad un effetto inaspettato dell’assegno di accompagnamento, molto più diffuso dopo gli 80 anni, capace di ridurre il numero dei poveri calcolati rispetto al reddito medio dell’età. Non si ha motivo per non sottoscrivere questa interpretazione: l’indennità di accompagnamento, infatti, riguarda meno del 2% dei minori di 70 anni ma ben il 30% degli 80-89enni. Un ulteriore elemento inaspettato riguarda le disparità di reddito territoriale tra Nord e Sud, che sono maggiori fra gli adulti rispetto agli anziani, come minori sono le differenze donne-uomini rispetto ad altre fasce di età; la crescita media relativa del loro reddito, invece, è stata maggiore rispetto, ad esempio, ai giovani.

 

Possiamo, con ciò, considerare la dipendenza in famiglia più una fonte di reddito che una disgrazia? In certi casi, paradossalmente, sì, ma solo laddove non ci si trovi di fronte effettivamente ad un bisogno assistenziale a cui la famiglia non riesce a rispondere in proprio, e che quindi comporta la spesa del reddito per garantirsi l’assistenza. Oggi, il vero problema economico della vecchiaia è la non autosufficienza, che può di colpo trasformare un equilibrio raggiunto in una tragedia, non solo della propria salute fisica, ma anche delle condizioni economiche: in questo caso, quindi, il rapporto reddito e necessità di spesa sfavorisce le famiglie del nord, e il rapporto reale Nord-Sud può addirittura invertirsi, con le famiglie settentrionali più in affanno, nonostante l’assegno.

 

La povertà e la vecchiaia si sono sempre intrecciate in passato, così come è successo per le minoranze e i gruppi sociali di minor potere (donne, minoranze etniche). L’articolo di Frustaglia fa un ampio escursus storico, che ci comunica il messaggio che la povertà non è un fatto meramente economico, ma anche sociale e culturale: la presenza dei poveri e dei disperati disegna con precisione il livello di maturità e la possibilità di futuro di una nazione.

 

Questa visione emergente di anziani super protetti e di giovani in difficoltà (a causa degli anziani? Certo che no, ma il suggerimento esiste) fa correre parecchi rischi di rinnovato e futile “ageismo”. È il rischio di disinvestimento sugli aspetti difficili e diffusi della condizione degli anziani, una tendenza a denunciare la cura di queste persone come inutile e costosa, come nel caso delle persone affette da demenza. Il rischio di spendere molto e in modo sbagliato esiste, ma esiste anche un modo corretto e utile di rispondere, sempre che si sappiano attivare le risposte giuste. La stessa difficoltà viene segnalata dallo studio del gruppo EOLO-Psodec sulle fasi terminali dei ricoverati in casa di riposo, dove le difficoltà organizzative si intrecciano con una reale carenza culturale della medicina palliativa tradizionale di fronte a condizioni terminali che perdurano nel tempo, come avviene, ancora una volta, per le demenze.

 

I problemi economici e di peso assistenziale posti dagli anziani sono reali, non immaginari e ci dicono che qualche scelta importante e condivisa dovrebbe essere presa, specie di fronte al prossimo invecchiamento dei baby boomers. Che fare allora? Fare quello che ci propone Veneziani, parlando dell’esperienza dell’AUSER. Infatti, se la tragedia economica e sociale della vecchiaia è la perdita della salute, non ci sono alternative alla prevenzione e alla promozione della salute di chi invecchia e invecchierà. Troppo facile? Al contrario, troppo difficile. Oggi abbiamo evidenze sufficienti per sapere che gli stili di vita positivi, il mantenersi attivi fisicamente e mentalmente costituiscono un potente riduttore del rischio di ammalarsi di demenza e di perdere l’autonomia. Purtroppo, non sarà la tecnologia né la genetica a salvare le prossime generazioni che invecchieranno, ma cose semplici, quasi umili: muoversi di più, leggere, ballare, impegnarsi socialmente. Come dice Simone De Beauvoir a chiusura del suo libro “La terza età”: quando si conosce da vicino la realtà della vecchiaia non basta chiedere che cambino le pensioni o i servizi sociali, occorre che cambi la vita. La nostra vita.

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