1 Dicembre 2009 | Finanziamento e spesa

Condizioni economiche e rischio sociale degli anziani in Italia

Condizioni economiche e rischio sociale degli anziani in Italia

Pluralità delle condizioni economiche e linee di tendenza

Le caratteristiche della povertà (Fig. 1) in Italia riflettono la struttura della distribuzione del reddito, caratterizzato, rispetto agli altri Paesi europei, da un grado piuttosto elevato di disuguaglianza1. Nel 2006, la diffusione della povertà è stata pari al 18%: quasi una famiglia su cinque disponeva di un reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano 2, in miglioramento rispetto al 1995.

Diffusione della povertà per classe d’età del capofamiglia, 1995 e 2006. Fonte: nostre elaborazioni su “Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane, 1995 e 2006
Figura 1 – Diffusione della povertà per classe d’età del capofamiglia, 1995 e 2006. Fonte: nostre elaborazioni su “Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane, 1995 e 2006”

 

Per quanto riguarda il rischio di povertà nelle diverse classi d’età, le famiglie più protette sono quelle che vedono come principale percettore di reddito un 6069enne, seguite da quelle che hanno come capofamiglia un 50-59enne3. Ciò che è maggiormente interessante, è la condizione dei più anziani, che rappresentavano le famiglie nettamente più a rischio nel 1995 (25,1%), ma che, nel 2006, appaiono più protette delle famiglie più giovani e anche di quelle guidate da 7079enni. La ragione di questa apparente anomalia è la notevole importanza che riveste l’indennità di accompagnamento tra gli ultra80enni, producendo un effetto di riduzione delle disuguaglianze di reddito all’interno di questa fascia d’età.

 

I dati (Benassi e Facchini, 2008) mettono inoltre in evidenza forti differenze sia tra uomini e donne, sia a seconda delle macro-aree di residenza. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre considerare, da un lato, che mentre gli uomini sono di norma titolari di pensioni di anzianità e di vecchiaia, le donne sono spesso titolari di pensioni di tipo assistenziale (l’80% circa delle pensioni sociali o di reversibilità vede, infatti, come titolare una donna); dall’altro, che anche nei casi in cui le donne sono titolari di pensioni di anzianità o di vecchiaia, esse percepiscono mediamente importi pari al 70-80% di quelli degli uomini. Tali andamenti rimandano al fatto che mentre gli uomini hanno avuto, generalmente, una presenza continuativa in collocazioni professionali strutturate, le donne sono state meno presenti nel mercato del lavoro e più frequentemente occupate in settori caratterizzati da una minor tutela previdenziale (come l’agricoltura) e da retribuzioni più modeste (come il settore tessile). Inoltre, anche a causa di una minore scolarizzazione, l’occupazione femminile è stata segnata da un minor accesso alle posizioni più qualificate e retribuite. In sostanza, specie per le donne più anziane, il minor inserimento lavorativo e la minore presenza nelle posizioni professionali elevate si sono tradotte sia in una minore titolarità di pensioni di anzianità e/o di vecchiaia, sia in un loro minor importo.

 

Consideriamo ora le variazioni territoriali, riconducibili alle profonde differenze che hanno storicamente segnato le regioni d’Italia, non solo in termini di settori economici, ma anche di tutela contrattuale (Benassi e Colombini, 2007). Come noto, l’economia italiana è caratterizzata da un forte dualismo tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, che ha visto le prime coinvolte in misura ben più accentuata sia nei processi di industrializzazione verificatisi a cavallo del ‘900, sia nello sviluppo economico del secondo dopoguerra. A fronte della forte occupazione operaia e impiegatizia delle regioni settentrionali, le regioni del Sud hanno evidenziato da un lato una più lunga permanenza dell’occupazione agricola, dall’altro una forte incidenza di disoccupazione e sottoccupazione, specie per quanto riguarda la popolazione femminile (Brandolini e Saraceno, 2007). Di conseguenza, mentre gli adulti degli anni ’50 e ’60 (ovvero gli attuali anziani) residenti nelle regioni settentrionali hanno avuto, di norma, storie lavorative contrassegnate da un’elevata tutela previdenziale, tipica del lavoro operaio e impiegatizio, quelli residenti nelle regioni meridionali hanno più spesso avuto storie lavorative non tutelate in termini previdenziali.

 

 

A queste differenze, che hanno prodotto nelle regioni meridionali pensioni individuali più modeste, si somma un altro fattore, il ‘tradizionale’ minore tasso di occupazione femminile, che si è tradotto in una minore presenza di coppie a doppio reddito. Ne deriva che, nelle regioni del Nord, in buona parte delle coppie sono presenti due redditi, mentre nelle regioni del Sud le coppie possono più spesso contare su un’unica entrata, oltretutto di importo minore4. Se le differenze tra gli anziani rimandano alle diverse storie lavorative, è opportuno ora soffermarsi sulla loro attenuazione, almeno rispetto alle differenze che si riscontrano tra la popolazione adulta. È possibile che, su questi dati, giochi anche una sottorappresentazione delle fasce più modeste della popolazione anziana nel campione dell’indagine Banca d’Italia; tuttavia, è ipotizzabile che sia effettivamente in atto un processo di attenuazione delle differenze economiche, alla cui base possono porsi diversi fattori.

 

Il primo attiene alla struttura del sistema pensionistico, che tende a comportare una minor copertura dei redditi più elevati ed una speculare maggior copertura, attraverso i minimi pensionistici, dei redditi più modesti, attenuando, quindi, le differenze che si riscontrano tra i redditi da lavoro. Il secondo fattore riguarda la diffusione di politiche di sostegno rivolte a soggetti non autosufficienti. Il riferimento è all’indennità di accompagnamento che, pur non essendo destinata specificamente alla popolazione anziana, vede come titolari soprattutto gli anziani o, più correttamente, i ‘grandi anziani’. Il tasso di fruizione di questa indennità è infatti decisamente modesto tra quanti hanno meno di 75 anni (meno del 2%), ma consistente tra quanti hanno 75-84 anni (attorno al 6-10%) e ancor più per quelli appartenenti a classi di età superiori (quasi il 30% di chi ha 85-89 anni, oltre la metà di chi ha un’età superiore) (Facchini, 2009). Si può quindi ipotizzare che la fruizione dell’indennità funga, proprio per i soggetti più anziani, come una sorta di compensazione rispetto al reddito pensionistico e, in particolare, che da essa derivi, dato l’importo non esiguo (si tratta di oltre 470 euro mensili), un ridimensionamento della percentuale di soggetti che hanno un reddito molto modesto e versano in condizioni di povertà. Nello stesso tempo, poiché tali sostegni (così come le pensioni sociali) sono più diffusi nelle regioni meridionali e tra la popolazione femminile (che a parità di età versa in condizioni di salute più precarie), ne consegue una attenuazione delle differenze di reddito sia tra le macro-aree del paese, che tra uomini e donne5.

 

Ma la diffusione degli assegni di accompagnamento è presumibilmente anche uno degli elementi più rilevanti alla base dell’altro importante fenomeno evidenziato dal confronto tra la condizione economica attuale degli anziani e quella del decennio precedente, ovvero il relativo miglioramento delle loro condizioni economiche rispetto alle altre fasce d’età. Sembra testimoniare questa relazione l’impennata di tali indennità verificatasi a partire dalla metà degli anni ’906.

 

Se il miglioramento delle condizioni dei ‘grandi anziani’ può essere attribuito alla diffusione di sostegni economici alla non-autosufficienza, tutt’altro che secondario è il ruolo svolto dalla diversa storia generazionale degli anziani attuali rispetto a quella che aveva contraddistinto le precedenti generazioni. Con questo ci riferiamo al fatto che, tra gli anziani, esistono ‘generazioni’ diverse (Facchini e Rampazi, 2008). I più giovani, ovvero i nati a partire dalla seconda metà degli anni ’30, non solo hanno conosciuto l’alfabetizzazione di base, ma hanno anche avuto più frequente accesso all’istruzione superiore e universitaria e sono stati occupati prevalentemente nell’industria e nel terziario, con collocazioni professionali sia operaie che impiegatizie. Più modesta la scolarizzazione delle coorti precedenti, nate a cavallo degli anni ’30: diminuisce l’incidenza di diplomati e laureati, aumenta quella di chi ha una scolarità limitata. A livello economico-professionale queste sono le generazioni dei lavoratori semi-qualificati dell’industria e del terziario, che però hanno presto conosciuto una stabilità occupazionale in un mercato del lavoro progressivamente più tutelato contrattualmente e garantito previdenzialmente.

 

Ancora più modesta la condizione dei nati negli anni ’20 o, ancor più, precedentemente: nella maggior parte dei casi, queste coorti hanno frequentato al massimo la scuola elementare e hanno cominciato a lavorare attorno ai 10-14 anni, specie nell’agricoltura, per inserirsi poi, come operai, nell’industria o come lavoratori poco qualificati nei servizi: la storia lavorativa di queste generazioni è avvenuta, in buona parte, ‘prima’ dell’industrializzazione e dello sviluppo economico degli anni 50 e ’60, in settori che non prevedevano alcuna tutela previdenziale7.

 

Togliere ai nonni per dare ai nipoti?

Il complesso dei dati fin qui presentati indica una situazione economica degli anziani (e anche dei grandi anziani) italiani in miglioramento negli ultimi anni. Questo viene inoltre indirettamente confermato dal fatto che, rispetto agli altri paesi europei, in Italia gli anziani sono sì una delle fasce in cui maggiore è la diffusione della povertà, ma in modo meno marcato rispetto ai minori, o rispetto a quanto si verifica in altri paesi (specie Regno Unito, Spagna, Portogallo e Grecia, nei quali il tasso di povertà tra gli anziani supera quello ‘medio’ di 5-8 punti percentuali).

 

Un altro segnale del miglioramento della condizione anziana può essere ricavato dal grado di indebitamento delle famiglie, che vede quelle anziane sistematicamente meno esposte ai rischi legati all’indebitamento, anche se va chiarito che questo dato è legato soprattutto alla minore propensione al consumo da parte degli anziani, formatasi nel corso di biografie contraddistinte da una tenace tendenza al risparmio. In realtà, questa interpretazione sarebbe parziale. Occorre, infatti, sottolineare che gli ultimi decenni hanno visto una crescente diffusione della non-autosufficienza. Tale rischio assume attualmente dimensioni del tutto nuove rispetto al passato in quanto i forti progressi del sistema sanitario (sia sul fronte diagnostico e terapeutico, sia su quello dell’assetto organizzativo) si sono tradotti, oltre che nella possibilità di guarigione di tutta una serie di patologie precedentemente letali, nella possibilità da un lato di ‘cronicizzare’ alcune di tali patologie, dall’altro di prolungare la speranza di vita dei soggetti affetti da patologie invalidanti. Il duplice passaggio dall’acuzie alla cronicità e dalle patologie “esogene” alle trasformazioni fisiologiche di tipo involutivo ha comportato un rilievo crescente delle patologie croniche che, in non pochi casi, si accompagnano, specie nell’età anziana, ad una non autosufficienza (Trabucchi e Vanara, 2005).

Tasso di famiglie indebitate per tipo di indebitamento per classe di età del capofamiglia.
Tabella 1 – Tasso di famiglie indebitate per tipo di indebitamento per classe di età del capofamiglia.

Per cogliere la portata di questo fenomeno, basti considerare che l’Istat stima la quota di popolazione affetta da una qualche disabilità pari al 6% tra i 60 e i 64 anni, al 14% tra i 70 e i 74, di poco inferiore al 50% tra gli ultraottantenni; e la quota di soggetti in cattive condizioni di salute pari, per le stesse classi di età, al 14%, al 21% e al 40% (Istat, 2008). Questi dati implicano che, nella fase di vita anziana, i soggetti possano sia aver più frequentemente la necessità di ricorrere al sistema di cure sanitarie, sia aver bisogno di essere assistiti nelle incombenze quotidiane di cura della propria persona e della propria abitazione, in quanto non più in grado di provvedervi direttamente. Ne consegue che, a causa di tali condizioni, si debba da un lato fare un maggior ricorso a farmaci, ad analisi o a ricoveri ospedalieri; dall’altro ricorrere non solo agli aiuti ‘informali’ prestati dai familiari (Sgritta, 2007), ma anche ad aiuti retribuiti che ‘drenano’ una parte più o meno consistente del proprio reddito, incidendo quindi negativamente sulle proprie condizioni economiche.

 

Se la diffusione di situazioni di non-autosufficienza, e la necessità di ricorrere ad un’assistenza nelle diverse incombenze della quotidianità, è un tratto comune alla condizione anziana in tutti i paesi europei, occorre però rimarcare che la situazione italiana si presenta come meno connotata (come del resto gli altri paesi del Sud Europa) dalla presenza di politiche sociali, sia domiciliari che residenziali: usufruisce di servizi di assistenza domiciliare circa il 3% – contro il 5-7% dei paesi centro e nord europei; è inserito in strutture residenziali circa il 2% – contro valori medi attorno al 515% (Gori e Pesaresi, 2005).

 

Vale a dire che, mentre per quanto riguarda le cure propriamente sanitarie, il modello italiano non si discosta da quello universalistico degli altri paesi europei, il cui costo è a carico della collettività, l’assistenza agli anziani non autosufficienti è molto più a carico della famiglia (Naldini, 2002), sia che ciò si traduca in un lavoro di ‘cura’ svolto dagli stessi familiari, sia che comporti il ricorso a sostegni esterni retribuiti (Gori e Pesaresi, 2005; Glendinning e Kemp, 2006). Se fino ad una decina di anni fa la prima soluzione era di gran lunga prevalente, negli ultimi anni ad essa si è affiancato, in misura crescente, il ricorso a persone retribuite, di norma immigrate, disponibili a vivere ‘a tempo pieno’ presso l’anziano da assistere. Tale fenomeno, che non a caso riguarda anche gli altri paesi del sud Europa (Grecia, Spagna e Portogallo) che non hanno sviluppato politiche pubbliche di sostegno alla non autosufficienza, ha assunto, negli ultimi anni, dimensioni del tutto rilevanti, che portano a stimare la presenza di ‘badanti’ in Italia a circa 700.000 unità, spesso senza un regolare permesso di soggiorno (Da Roit e Castegnaro, 2005).

 

Nonostante l’estrema varietà di condizioni retributive e contrattuali delle badanti (gli stipendi oscillano tra i 600 e gli oltre 1.000 euro mensili), il costo complessivo che il ricorso a tale assistenza comporta per le famiglie è elevato. Anche se in parte può essere coperto (per circa la metà) dall’assegno di accompagnamento, il reddito degli anziani effettivamente disponibile per le ‘normali’ incombenze della vita quotidiana può scendere in modo considerevole, dando luogo a problematicità economiche anche pesanti. Per gli anziani, dunque, un rischio specifico di povertà permane, ma non più, come nelle società pre-industriali, come conseguenza dell’invecchiamento in sé, ma della specifica vulnerabilità legata alla non autosufficienza. Nello stesso tempo, si deve considerare che, poiché le condizioni contrattuali sono più legate al contesto territoriale che alla gravità della non autosufficienza e quindi alle necessità di cure dell’anziano accudito, il costo di tale assistenza risulta fortemente differenziato nelle diverse realtà territoriali: più oneroso nelle regioni settentrionali (specie nelle grandi città), nelle quali maggiore è la diffusione di copertura previdenziale e maggiori gli importi salariali, meno oneroso nelle regioni del Sud nelle quali minori sono i salari erogati e minore la tutela previdenziale. Poiché analogo scarto si rileva nel costo delle strutture residenziali, l’effetto è che la non autosufficienza sembra accompagnarsi maggiormente a situazioni di disagio economico tra gli anziani e le loro famiglie delle regioni settentrionali, specie se si considera che in tali regioni è più elevato anche il costo della vita.

Note

  1. Si veda, per esempio, il rapporto OECD, Growing unequal. Income distribution and poverty in OECD countries, 2008
  2. Il reddito mediano è quello posseduto dalla famiglia che occupa esattamente la posizione centrale nell’ordinamento delle famiglie dalla più ricca alla più povera
  3. Questi dati sono riconducibili alla notevole importanza delle progressioni economiche basate sull’anzianità, che comportano redditi maggiori alla fine della carriera lavorativa
  4. Escludendo i single, che ovviamente hanno un unico reddito, le famiglie con almeno due componenti che dispongono di un solo reddito sono il 22,8% al nord e ben il 44,8% al sud (nostre elaborazioni su dati Banca d’Italia, 2006)
  5. Tra i 50-59enni le donne hanno mediamente un reddito pari al 62% di quello dei coetanei maschi, tra gli ultra80enni tale rapporto sale all’83%. Per le stesse fasce d’età il rapporto tra i redditi nel centro-nord e quelli nel mezzogiorno passa dal 58% tra i più giovani al 74% tra i più anziani (nostre elaborazioni su dati Banca d’Italia, 2006)
  6. Le domande accolte sono passate da poco più di 50.000 nel 1994 ad oltre 200.000 nel 2003
  7. Del resto, è a questa minor tutela contributiva delle generazioni nate ‘prima’ degli anni ’20 che è riconducibile la minor incidenza, tra gli ultraottantenni, di titolari di pensioni di vecchiaia, non solo tra le donne, ma anche tra gli uomini

Bibliografia

Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane, nell’anno 1995 (http://www. bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait/boll_stat). Banca d’Italia, I bilanci delle famiglie italiane, nell’anno 2006 (http://www. bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait/boll_stat).
Benassi D, Colombini S. Caratteristiche e distribuzione territoriale della povertà e della disuguaglianza sulla base dei dati dell’archivio Disrel. In: Brandolini A, Saraceno C. (a cura di) Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze in Italia, Il Mulino, Bologna 2007.

Benassi D, Facchini C. La povertà degli anziani. In: Politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, Commissione di indagine sull’esclusione sociale, 2008.

Brandolini A, Saraceno C. (a cura di) Povertà e benessere. Una geografia delle disuguaglianze in Italia, Il Mulino, Bologna 2007.

Da Roit B, Castegnaro C. Chi cura gli anziani non autosufficienti?, Angeli, Milano 2005. Facchini C. Gli assegni di accompagnamento nel contesto delle politiche per gli anziani non autosufficienti, Politiche locali e servizi sociali 2009;1.

Facchini C, Rampazi M. Generazioni ad un passaggio d’epoca. Certezze e precarietà nei racconti degli ultrasessantenni. In: Ruggeri F. (a cura di) La memoria del futuro. Soggetti fragili e possibilità di azione, Angeli, Milano 2008.

Glendinning C, Kemp P. (a cura di) Cash and Care: Policy Challenges in the Welfare State. The Policy Press, Bristol 2006.

Gori C, Pesaresi F. L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia e in Europa. In: Facchini C. (a cura di) Anziani e sistemi di Welfare. Lombardia, Italia, Europa, 2005. Istat, Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari anno 2005, Roma 2008.

Naldini M. The Family in the Mediterranean Welfare States, Frank Cass, London 2002. Sgritta GB. Le famiglie possibili, Reti di aiuto e solidarietà in età anziana, Edizioni Lavoro, Roma, 2007.

Trabucchi M, Vanara F. (a cura di) Rapporto Sanità 2005 – Invecchiamento della popolazione e servizi sanitari, Collana Fondazione Smith Kline, Il Mulino, Bologna 2005.

 

Bibliografia consigliata

Istat. Condizioni di salute della popolazione. Anni 1999-2000, Roma 2001. Istat. I beneficiari delle prestazioni pensionistiche – anno 2005, Roma 2007.

Saraceno C. Politiche familiari e contrasto alla povertà, Prospettive sociali e sanitarie 2006;36(4).

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