31 Luglio 2019 | Strumenti e approcci

La permanenza della persona con Alzheimer presso la propria abitazione: le buone pratiche dell’educatore professionale nei servizi domiciliari

L’Alzheimer è una patologia che colpisce non solo la persona, ma anche chi se ne prende cura. L’educatore professionale potenzia le capacità residue e “mantiene viva la parola” per ridurre il suo isolamento sociale e suggerisce al caregiver strategie per facilitare la gestione della quotidianità del proprio caro. La casa, luogo sicuro e ricco di stimoli, è una grande risorsa per la persona, il suo caregiver e l’educatore professionale.

Anziana che sfoglia un album di foto

L’educatore professionale nell’intervento domiciliare a favore di persone con Alzheimer attua azioni di stimolazione, riabilitazione e inclusione, finalizzate a rallentare il declino cognitivo ed a mantenere e potenziare le capacità residue. Componente essenziale della relazione d’aiuto è la comunicazione: facilitare l’uso della parola per accogliere la persona nella sua totalità, in quel luogo unico che è l’ambiente familiare. L’intervento domiciliare percorre contemporaneamente due binari che si incrociano continuamente: la persona e il suo caregiver, entrambi con le proprie capacità, bisogni e vissuti che necessitano di un ascolto attivo e partecipe.

 

L’ambiente familiare

L’ambiente familiare rappresenta quasi sempre la soluzione di assistenza più adeguata, grazie alla ricchezza di contenuti umani e relazionali. La casa, luogo privilegiato, in cui ognuno di noi si sente al sicuro e ha la possibilità di dare il meglio di sé, è una grande risorsa per la persona che vi abita e per l’educatore professionale che attua interventi domiciliari.

L’ambiente è inteso nella sua accezione più ampia di ambiente fisico e di ambiente umano.

Il primo comprende gli interni e l’esterno della casa, le luci i suoni e i colori. Esso, se adattato correttamente alla nuova condizione della persona, può assumere una valenza terapeutica importante nella sua quotidianità. La casa, in ogni fase della malattia, può compensare o, al contrario, accentuare le conseguenze del deficit cognitivo e pertanto condizionare sia lo stato funzionale che il comportamento della persona (SSR Regione Emilia-Romagna, 2013).
È quindi necessario porre molta attenzione nell’apportare modifiche all’ambiente domestico, in quanto esso deve permettere alla persona di muoversi in modo sicuro e di non perdere l’orientamento.

Vi è poi l’ambiente umano, che comprende le persone che ruotano intorno alla persona con demenza, le attività e la scansione dei tempi della giornata. Colui che si prende cura della persona, il caregiver, deve gestire una malattia che comporta un radicale cambiamento della personalità del proprio caro, ma ha anche la necessità di riorganizzare abitudini e ritmi della quotidianità, in funzione del benessere della persona da accudire.

Qualunque intervento si voglia programmare ed attuare dovrà avere un’azione combinata su entrambe le componenti, con scelte operative il più possibile personalizzate.

 

Migliorare la qualità della vita della persona e del suo caregiver

Ricevuta la diagnosi di Alzheimer, inizia una fase organizzativa che spesso dura per lungo tempo, durante la quale colui che si prende cura della persona con demenza, prova sentimenti contrastanti: senso di impotenza di fronte alle difficoltà, bisogno di parlare, di condividere e di consigli per risolvere i problemi quotidiani.
L’obiettivo principale di un intervento educativo domiciliare è migliorare la qualità della vita della persona e del suo caregiver. L’educatore può aiutare il caregiver suggerendo indicazioni pratiche sull’organizzazione dell’ambiente domestico, strategie e strumenti per la gestione della quotidianità e fornire informazioni sulla rete dei servizi nel territorio,  quali ad esempio Caffè Alzheimer, Centri Diurni, Gruppi di sostegno per i caregiver, Incontri informativi, Assistenza Domiciliare, Servizio di Sollievo, Strutture residenziali  (v. box 1 e 2 relativi all’Ambito Senior della Cooperativa sociale Polo9 di Ancona1).
Condizione irrinunciabile è porre al centro la Persona per ridurre il suo isolamento sociale: ridurre i momenti di passività durante l’arco della giornata, favorire il mantenimento e l’espressione del linguaggio, l’esplicitazione di emozioni e stati d’animo, favorire l’incremento dell’autostima e contenere i disturbi comportamentali.

Il Caffè Alzheimer di Senigallia e Valcesano
Box 1 – Il Caffè Alzheimer di Senigallia e Valcesano
Il progetto “Resto in famiglia” della cooperativa sociale Polo9 di Ancona
Box 2 – Il progetto “Resto in famiglia” dell’Ambito Senior – Polo9 Cooperativa Sociale – Ancona

 

La Metodologia

L’assessment, processo di raccolta delle informazioni e di valutazione delle stesse, prevede una riunione di équipe (coordinatore del progetto, educatore professionale e psicologo), alla quale segue un colloquio con il caregiver in un ambiente protetto. Successivamente viene attivata la visita preliminare presso il domicilio, seguita da una fase di osservazione e analisi dei livelli di funzionalità globale (fisica, cognitiva, emotiva-relazionale ed espressiva) da parte degli operatori coinvolti.

 

Il colloquio con il Caregiver
Avviene in un ambiente protetto, fuori dal domicilio e in assenza della persona con Alzheimer. Ciò permette al caregiver di parlare liberamente e di compilare una cartella personale che verrà poi utilizzata per la stesura del PEI.
Essa si compone di una scheda anagrafica e di test di valutazione funzionale.
Per la compilazione della Scheda Anagrafica vengono richieste informazioni in merito: diagnosi e data della stessa, dati anagrafici, terapia farmacologica, storia famigliare, attività lavorativa, interessi, criticità, bisogni.
Vengono poi chieste al familiare informazioni in merito alle attività di vita quotidiana e alla capacità di utilizzo di strumenti di uso comune. Per queste informazioni si può far riferimento a Test di Valutazione Funzionale (Crisafulli, 2016) che permettono di valutare cosa l’anziano è capace di svolgere autonomamente, quali aree sono compromesse e in quale grado. I test maggiormente utilizzati sono Activities of Daily Living (ADLs), che valuta le attività quotidiane fondamentali, che si possono svolgere nell’ambiente di vita (casa), oppure fuori, o in entrambe le situazioni e l’Instrumental ADLs (IADLs), che fa riferimento alle attività legate al “prendersi cura di sé” che consentono ad un individuo di vivere in modo autonomo nell’ambito di una comunità.

 

La visita domiciliare
In seguito al colloquio avviene il primo contatto con la persona; in seguito ad un primo momento conoscitivo, viene chiesto se è gradita una visita successiva. Solitamente le persone accolgono volentieri gli ospiti nella propria casa e sono generalmente disponibili ad incontrare nuovamente gli operatori.
Durante la prima visita domiciliare, che avviene in presenza del caregiver, educatore e psicologo conoscono la persona e raccolgono informazioni in merito a fattori di protezione (disponibilità e collaborazione) e fattori di rischio (comorbilità e stato mentale).
Viene inoltre svolta una valutazione dell’ambiente domestico con suggerimenti specifici per alcune aree dell’abitazione al fine di rendere l’ambiente di vita più sicuro per la persona. E’ importante creare un ambiente che sia inclusivo, che favorisca l’orientamento della persona, la sua sicurezza, ne conservi la capacità residue, contenga elementi di identità personali e favorisca il contenimento dei disturbi comportamentali (box 3).

La valutazione dell'ambiente domestico dove vive una persona affetta dal morbo di Alzheimer
Box 3 – La valutazione dell’ambiente domestico

 

Servizi domiciliari e interventi psicosociali

 

Gli incontri domiciliari

Avvengono con cadenza settimanale. Due incontri di circa un’ora, nei quali è richiesta la presenza in casa del caregiver che, se non previsto dal PEI, non partecipa alle attività proposte.
L’obiettivo più grande da raggiungere durante l’intervento domiciliare è il benessere psicofisico della persona: restituire alla persona la fiducia in se stessa, nel momento in cui ha la consapevolezza che qualcosa non funziona più come prima, e ridurre il rischio di isolamento: evitare che la persona smetta di fare per non sbagliare nel dire e nel fare o perché i tempi del dire e del fare, ora, sono più lunghi. Ciò è possibile solo apportando un cambiamento nell’atteggiamento e nei vissuti della persona, cercando di sfruttarne le potenzialità creative ed emozionali. Gli interventi psico-sociali sono un valido strumento di socializzazione, di stimolo per la memoria e di conservazione delle capacità residue: permettono una migliore accettazione della malattia e spingono la persona e il suo caregiver a concentrarsi su quello che si può ancora fare rispetto a quello che non si ha più.

 

Terapia della reminiscenza

La terapia della reminiscenza consiste in un intervento riabilitativo psicosociale in cui grande importanza assumono “i ricordi”, considerati spunto per stimolare le risorse mnesiche residue e per recuperare esperienze emotivamente piacevoli. Fondandosi sulla naturale propensione dell’anziano a rievocare il proprio passato, tale intervento utilizza il ricordo come strumento indispensabile per gettare un ponte tra passato, presente e futuro, al fine di interpretare e vivere meglio la realtà quotidiana. Tale processo si sviluppa potenziando le capacità mnesiche remote.
La casa racchiude numerosi stimoli, oggetti di affezione, spesso diventati “invisibili” per chi li ha sotto gli occhi ogni giorno, ma che, se usati nel modo opportuno, possono diventare fonte di reminiscenza non soltanto per l’anziano, ma per tutti coloro che gli stanno vicino (Bruce et al., 2003). Numerosi e vari elementi in questi anni sono stati utili per attivare il processo di reminiscenza, alcuni erano più graditi di altri, ma tutti hanno riportato alla luce ricordi e stati d’animo. Tra essi:

  • Album fotografici, diapositive e filmini. La raccolta di foto di famiglia con aggiunta di didascalie per realizzare un Album dei Ricordi è un valido strumento per esercitare la scrittura e favorire il mantenimento di questa capacità cognitiva, se la malattia è ancora in fase lieve. La didascalia, letta ad alta voce dall’educatore, permetterà di attenuare l’ansia che potrebbe provare la persona nel caso in cui non riesca a riconoscere prontamente luoghi e persone che vede rappresentati nelle foto. È possibile anche realizzare un Album semplice con poche foto, le più significative della vita della persona, da riproporre anche quando la malattia sarà avanzata. Nell’attività di raccolta di materiale fotografico viene spesso coinvolto il caregiver.
  • Odori e profumi. I fiori freschi oppure l’odore di certe piante medicinali, come l’eucalipto, possono suscitare forti emozioni e forti ricordi. Con l’avanzare della malattia, l’aspetto sensoriale assume grande importanza.
  • Materiali tattili. Per le persone che hanno difficoltà di comunicazione, toccare tessuti, un abito da sera o del velluto può essere un’esperienza piacevole ed evocatrice di ricordi ben precisi.
  • Il gusto. Il sapore del cibo o i certe bevande, quando non vi sono problemi di deglutizione, può essere fortemente associato a dei ricordi, soprattutto se non si prova da molto tempo.
  • Suoni, rumori. Il rumore del mare, del vento, le campane della chiesa, associati a immagini e oggetti, sono una forte fonte di reminiscenza anche nelle fasi più avanzate della malattia.
  • La musica. Dopo aver raccolto informazioni su interessi e gusti musicali, far ascoltare musica, può evocare luoghi, epoche, volti.
  • Le filastrocche. Cantare e recitare le filastrocche che si ripetevano da bambini può far emergere ricordi e hanno importante funzione di mantenimento delle capacità cognitive come la lettura e la memoria.
  • Gesti, movimenti, danza. Il ballo, appreso in gioventù, è memoria del corpo che continuerà a ricordarsene anche quando la parola verrà meno.

 

Attività Occupazionale di tipo manuale-operativa ed espressivo-creativa
Una delle richieste più frequenti dei caregiver è come poter impegnare la giornata del proprio caro che è diventato sedentario oppure, al contrario, che è sempre in movimento. Gratificare la persona con qualcosa di realizzato con le proprie mani, favorisce l’incremento dell’autostima e contiene i disturbi comportamentali. Ricercare sempre nelle passioni di un tempo, come il lavoro ai ferri, uncinetto, ricamo per le signore e semina o cura dell’orto per gli uomini possono essere un abile aiuto nella quotidianità. Attività più strutturate come pittura, decoupage, disegno, bricolage, traforo, possono essere anche esse inserite nel PEI, ma necessitano di progettazione di tempi, luoghi e obiettivi, nonché di una valutazione finale per verificare che siano state attività gradite.

 

Azioni quotidiane a casa
Lasciare che la persona svolga attività domestiche finché ne è in grado, è anche una grande gratificazione oltre ad essere espressione di un atteggiamento inclusivo da parte del caregiver. Ad esempio, in un caso la figlia di una Signora aveva creato quella che si può definire una “piccola comunità amichevole”. La mamma tutte le mattine si recava a fare la spesa nel negozio sotto casa, poi andava in pescheria e infine dal fruttivendolo. Terminate queste commissioni, si dirigeva sotto l’ufficio della figlia per prendere un caffè insieme. Bevuto il caffè, la mamma tornava al domicilio per preparare il pranzo, cucinava solo pesce (era una cuoca da ragazza), e poi iniziava a sistemare la biancheria in attesa dell’arrivo della figlia per l’ora di pranzo. Nel tragitto dall’ufficio all’abitazione, la figlia faceva lo stesso percorso della mamma, passava nel negozio sotto casa, in pescheria e dal fruttivendolo per “aggiustare i conti”. La mamma infatti, sebbene avesse ancora un buon orientamento spaziale e una buona produzione del linguaggio, aveva grandi difficoltà nel gestire il denaro. La figlia si adoperava per lasciare alla mamma piccole autonomie, monitorandola costantemente. Lasciare che la persona possa ancora occuparsi di fare la spesa, lavare le stoviglie, stendere biancheria, stirare, rifare il letto, cucinare un dolce e rassettare gli ambienti, può essere un valido strumento per contenere i disturbi comportamentali e per ridurre lo stato di passività.

 

“Curare” e facilitare la comunicazione

Per comunicare con qualcuno che soffre di demenza bisogna mettersi in ascolto del suo modo di vivere la malattia, cercare di comprendere le difficoltà che sta affrontando, trovare i mezzi per attenuarne l’impatto e fare in modo che possa sentirsi il più possibile a proprio agio (Bruce et al., 2003). Bisogna adottare una comunicazione che sia inclusiva.
La persona con Alzheimer manifesta difficoltà di comunicazione, che tendono col tempo a diventare sempre più gravi. Il termine “afasia” si usa spesso per indicare la difficoltà o la perdita della facoltà di capire la lingua parlata e scritta, come conseguenza del deterioramento del corrispondente centro nervoso.

 

Con il graduale peggioramento del linguaggio, possono sorgere difficoltà di comunicazione che portano a frustrazione, confusione e talvolta persino a reazioni di rabbia. Se i bisogni e i desideri del malato non vengono soddisfatti, se gli altri interpretano male il suo comportamento, egli può cominciare a provare un senso crescente di isolamento. L’incapacità di comunicare in modo adeguato può essere causa di imbarazzo, specialmente se gli errori vengono rimarcati. In realtà, non è raro che il malato di demenza cominci ad usare un linguaggio meno complesso (frasi più corte e/o un vocabolario limitato), prenda meno parte alla conversazione, si rinchiuda progressivamente in se stesso fino al punto di smettere completamente di parlare. Il rischio più grande è che la persona rinunci a parlare nel momento in cui potrebbe ancora farlo.

 

E’ necessario un cambio di atteggiamento, bisogna diventare attivi e efficaci nel prendersi cura del proprio caro. Questo non significa far coltivare speranza illusorie al caregiver, ma aiutarlo a dotarsi degli strumenti adatti per “tener vivo l’uso della parola, fare in modo che il malato possa ancora parlare così come può, senza sentirsi in errore” (Vigorelli, 2008).
Come afferma Vigorelli: “Bisogna creare un ambiente nel quale la persona può svolgere le attività di cui è capace, così come è capace, senza sentirsi in errore, con il solo scopo di essere felice, per quanto possibile, di fare quello che fa, così come lo fa, nel contesto in cui si trova. Creare un ambiente capacitante che utilizza due strumenti fondamentali, l’ascolto e la parola, per restituire alla persona il riconoscimento delle sue competenze”.

 

E’ possibile facilitare la comunicazione verbale impiegando delle strategie che siano rivolte a far sentire accolta la persona, la facciano sentire apprezzata e accettata. Adottare un approccio positivo, stabilire un contatto con lo sguardo, sedersi di fronte alla persona e incoraggiarla a parlare, cercare di cogliere l’emozione che esprime, evitare di sottolinearne gli errori. Adattare il proprio stile di linguaggio, assicurarsi che la comunicazione non sia ostacolata da problemi fisici, come problemi di udito, chiamare la persona con il proprio nome.
Adottare alcuni accorgimenti possono rendere più facile la comprensione di quello che vogliamo dire. Parlare lentamente e con chiarezza, preferire l’utilizzo di parole e frasi molto brevi, semplici e concrete. Accompagnare le parole con una gestualità coerente, che aiuti a trasmettere meglio il significato di quello che viene detto, agganciando la persona con lo sguardo. E’ preferibile usare frasi affermative ed esprimere un solo concetto, evitando di porre domande aperte che generano ansia. Con l’avanzare della malattia poi, è importante ricordare di essere disponibili ad accettare la comunicazione così come viene, rispettando il tempo della persona. La conversazione diviene più lenta e la persona ha bisogno di più tempo per organizzare il pensiero e trovare le parole.

 

Man mano che la comunicazione verbale diventa più difficile, è possibile fare maggiore affidamento sulla comunicazione non verbale, come ad esempio l’inflessione e il tono della voce, lo sguardo, l’espressione del viso, il gesto, il linguaggio dei segni e il contatto fisico (Vigorelli, 2008).
È essenziale non dare messaggi tra loro contrastanti e cercare di interpretare il “linguaggio del corpo” della persona, comprendere se qualcosa lo mette a disagio.
Per facilitare la persona a prendere la parola quando è il suo turno, cercare di mantenere il contatto visivo mentre le parliamo e se necessario toccarle una mano, dando sicurezza e sostegno mediante il contatto fisico. In alcuni casi invece quando la comunicazione è lenta, anche solo tenere la mano, è il modo per tenere viva la relazione, per esserci nel momento in cui gli occhi si illuminano nell’ascoltare una poesia che parla del mare.

 

Prendersi cura della Persona e del suo caregiver

I caregiver che in questi anni hanno accolto gli educatori nella propria casa e nella propria quotidianità, hanno permesso al loro familiare di ritrovare il piacere di ricevere visite e gli hanno restituito la possibilità di dare ancora il meglio di sé, in quel luogo privilegiato che è la propria abitazione.
L’educatore, adottando una comunicazione che facilita la produzione della parola e attuando interventi psicosociali di riabilitazione e stimolazione delle capacità residue della persona, può aiutare il caregiver a vivere più serenamente la quotidianità con il proprio caro. Lasciare al malato l’autonomia di fare piccole mansioni, che ha sempre svolto, e se questa è in difficoltà proporre di “farle insieme” senza sostituirsi, finché è possibile, può rendere preziosi questi momenti per chi ha bisogno di aiuto e per chi ne ha cura.
L’approccio vincente è sicuramente quello che si prende cura in modo adeguato della persona e della sua famiglia che va supportata nel difficile e faticoso lavoro di cura.

 

Conclusioni

L’educatore professionale domiciliare dispone di una grande risorsa: la persona nell’intimità della propria casa. Una ricchezza di stimoli e contenuti che, se usati nel modo opportuno, divengono strumenti dell’intervento educativo. L’Alzheimer però mette a nudo paure e ansie del caregiver, che spesso si ripercuotono sulla persona creando un circolo vizioso di stress.
In queste situazioni pertanto, è compito dell’educatore lavorare affinché la famiglia, in particolare il caregiver, possa ritrovare un nuovo equilibrio in seguito allo sviluppo della malattia di Alzheimer, che favorisca da un lato, il mantenimento delle capacità residue del malato e, dall’altro, evitare il burn out dei familiari.

 

Foto di Aline Dassel da Pixabay

Note

  1. Polo9 è un’impresa sociale. Opera nella Regione Marche, in reti sia locali che nazionali. Si occupa di minori, dipendenze, disagio adulto, donne, migrazioni, anziani. Persegue la sostenibilità sociale, economica e ambientale del territorio dando risposta a bisogni complessi quali il lavoro, l’accesso e l’equa distribuzione dei diritti, la salute, l’educazione, la tutela delle differenze.

Bibliografia

Bruce E., Hodgson S., Schweitzer P. (2003), I ricordi che curano. Pratiche di reminiscenza nella malattia di Alzheimer, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Crisafulli F. (2016), E.P. Educatore Professionale, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore.

SSR Regione Emilia-Romagna (2013), “Non so cosa avrei fatto oggi senza di te”. Manuale per i familiari delle persone con demenza, 3°edizione, Verucchio, Pazzini stampatore editore.

Vigorelli P. (2008), Alzheimer senza paura. Manuale di aiuto per i familiari: perché parlare, come parlare, Milano, Rizzoli.

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