26 Novembre 2019 | Editoriali

Piano nazionale non autosufficienza: un giudizio ambivalente, in attesa della riforma

Quale valutazione dare del “Piano per la non autosufficienza 2019-2021” recentemente emanato dal Ministero del Welfare? Gli autori rispondono a questo interrogativo, mettendo in luce i punti di forza e di debolezza del Piano. La discussione di tale atto programmatorio, inoltre, viene condotta con uno sguardo alle complessive esigenze di riforma delle politiche per la non autosufficienza in Italia.


A confondere è il titolo. Contrariamente a quanto lascia intendere, infatti, non si tratta di un piano nazionale sulle politiche rivolte alle persone non autosufficienti in Italia, bensì esclusivamente di un atto contenente nuovi obiettivi e modalità di utilizzo del Fondo Nazionale per la Non Autosufficienza (FNA)1. Quest’ultimo trasferisce dallo Stato ai Comuni risorse per interventi sociali rivolti ad individui in tale condizione, di ogni età, pari a 621 milioni di Euro a partire dal 202o. Tali stanziamenti equivalgono al 2% della spesa pubblica complessiva del settore.

 

Il Fondo finanzia il 20% della spesa per i non autosufficienti dei Comuni (l’attore pubblico che vi dedica meno stanziamenti). Il testo riguarda, dunque, una parte minoritaria delle risorse comunali dedicate e non tocca né il Servizio Sanitario Nazionale né l’Indennità di Accompagnamento, cioè le principali filiere delle politiche pubbliche per la non autosufficienza. La necessaria azione di revisione del sistema nel suo insieme – cioè la riforma nazionale attesa da decenni – rimane, ad oggi, lontana.

 

Chiarito il perimetro ristretto del quale si occupa, il “Piano nazionale per la non autosufficienza 2019-2021” contiene alcune indicazioni da esaminare con attenzione. Rappresentano, infatti, spunti d’interesse da considerare in prospettiva dell’agognata riforma: è con questo spirito che sono qui commentate.

 

Il metodo: un impianto programmatorio da riproporre

Dal punto di vista metodologico, il Piano costituisce uno strumento di programmazione ben disegnato. Questi i punti chiave:

  • obiettivi graduali e sostenibili di sviluppo degli interventi – su base triennale – definiti in modo puntuale e accompagnati da indicatori quantitativi per verificarli;
  • progressiva estensione dei destinatari, con l’identificazione dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali loro destinati2;
  • predisposizione di uno strumento nazionale per classificare la disabilità e misurare il bisogno assistenziale, nel quale le Regioni che intendono mantenere i propri strumenti già in uso possono “tradurne” i relativi dati3;
  • redazione da parte delle Regioni di propri piani, coerenti con quello nazionale. Per assicurare la tempestività dell’iter, le Regioni ricevono i fondi dallo Stato dopo la loro predisposizione.

 

La lettura del Piano trasmette un messaggio di prospettiva. Molti ritengono che l’elevata frammentazione delle politiche per la non autosufficienza in Italia – tanto tra i livelli di governo (Stato, Regioni e Comuni) quanto tra i molteplici attori presenti nei territori – renda impossibile l’introduzione di una programmazione nazionale riguardante il sistema nel suo insieme. La risposta a questa posizione si trova nel Piano: la complessità del sistema non impedisce la programmazione nazionale, bensì richiede di costruirla in modo coerente ad un siffatto contesto.

 

Bisognerebbe, dunque, ricorrere su più larga scala al metodo qui impiegato, fondato su pochi e misurabili obiettivi, da legare puntualmente alle risorse rese disponibili, raggiungere con gradualità e monitorare con attenzione. La programmazione nazionale, inoltre, dovrebbe riconoscere l’eterogeneità dei contesti locali, delimitando di conseguenza le proprie finalità. Si tratta di un metodo assai diverso da quello utilizzato in varie occasioni precedenti, ad esempio il Piano Nazionale Demenze del 2014 , tanto ampio e dettagliato nella descrizione dei molteplici obiettivi proposti quanto generico nella loro definizione e privo di indicazioni operative per tradurli in pratica4. E che, non a caso, non ha lasciato tracce di rilievo.

 

Gli interventi: il rischio di legittimare lo status quo

Lo scopo dichiarato del “Piano per la non autosufficienza 2019-2021” consiste nel giungere progressivamente alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni per la non autosufficienza. Si parte dalle gravissime disabilità, con l’obiettivo di raggiungere successivamente quelle gravi. I tempi, però, non sono ben definiti e, soprattutto, i Livelli sono finanziati esclusivamente attraverso il FNA.

 

Il Piano prevede di sperimentare nel triennio un Livello essenziale riguardante l’erogazione di un assegno di cura e per l’autonomia di 400 euro mensili da erogare ai disabili gravissimi assistiti al domicilio o che frequentano i centri diurni. Le ridotte risorse del FNA limitano evidentemente l’ampiezza dell’intervento, rivolto a meno di 60mila persone.

 

Se l’impatto concreto di questa novità è contenuto, maggiore rischia di esserne la portata simbolica. Non si tratta, infatti, di una misura qualunque bensì del primo intervento riconosciuto come Livello essenziale per la non autosufficienza nel nostro Paese. I Livelli rappresentano lo strumento a disposizione dello Stato al fine di indirizzare il sistema verso gli obiettivi ritenuti prioritari. La diagnosi sulle politiche per la non autosufficienza in Italia è ampiamente condivisa: un problema cruciale risiede nell’eccessivo sbilanciamento sulle prestazioni monetarie a scapito dei servizi alla persona, la cui offerta andrebbe decisamente potenziata. Tuttavia, il primo livello essenziale è una prestazione monetaria: si rischia così di legittimare lo status quo.

 

Verso la legittimazione dell’esistente punta anche il ragionamento proposto nel Piano per motivare la scelta a favore dei trasferimenti monetari: dato che a questi è attualmente destinato il 90% delle risorse del FNA destinate ai disabili gravissimi, “non sembra pertanto possano esserci dubbi su quale debba essere il primo passo verso una prestazione che costituisca un livello essenziale: un assegno di cura e per l’autonomia” (pag. 10). In altre parole, le scelte per il futuro non possono che porsi in continuità con quelle del passato, argomentazione evidentemente antitetica ad una prospettiva riformatrice.

 

Aspettando la riforma nazionale

Nella sostanza, dunque, il “Piano nazionale per la non autosufficienza 2019-2021”, più che procedere nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, definisce nuove regole per la programmazione degli interventi regionali finanziati dal FNA. L’articolo ne ha discusso i punti di forza, riguardanti l’impianto programmatorio, e di debolezza, concernenti la definizione degli interventi.

 

Continua, invece, l’attesa del Piano vero e proprio, cioè lo strumento per l’attuazione di una riforma nazionale del settore. Per essere tale, la riforma dovrebbe prendere in considerazione il sistema nel suo insieme, comprendente la filiera dei servizi ed interventi sociali (Comuni), quella dei servizi sociosanitari (Regioni) e l’indennità di accompagnamento (Stato). Non pare necessario ricordarne l’urgenza a chi legge questo sito, e neppure il fatto che se ne discuta senza esito ormai dalla seconda metà degli anni ’90, e che da allora le proposte avanzate siano state numerose.

 

È la vicenda stessa del FNA a mostrare la persistente difficoltà a compiere passi in avanti. Questo fondo è stato introdotto nel 2007 come intervento transitorio in vista dell’introduzione, appunto, di una riforma nazionale, oggetto di un Disegno di Legge Delega presentato dal Secondo Governo Prodi nello stesso anno. La conclusione prematura della legislatura, nel 2008, ne bloccò l’iter sul nascere. Tredici anni dopo, l’intervento transitorio è divenuto strutturale e di un progetto di riforma non vi è traccia.

 

 

Foto di congerdesign da Pixabay

Note

  1. E’ la normativa che ha introdotto il Piano nazionale per la non autosufficienza ad attribuire a questo atto il solo compito di programmare l’utilizzo delle risorse del FNA (D.Lgs 147/2017, art 21, comma 6).
  2. In precedenza, sono stati individuati gli utenti classificati come disabili gravissimi e per il triennio 2019-2021 viene identificato il primo livello loro rivolto (assegno di cura e per l’autonomia). Ora s’intende avviare lo stesso iter (identificazione dell’utenza e successiva definizione dei livelli) per i disabili gravi.
  3. La nuova strumentazione riguarda i disabili gravi e misura il carico assistenziale richiesto ai caregiver; nell’arco temporale del Piano dovrà essere sperimentata ed implementata nei diversi contesti regionali. Le Regioni che vorranno mantenere il loro sistema di valutazione e classificazione attiveranno un sistema di trans-codifica in quello nazionale, come già avvenuto per gli strumenti di valutazione (RUG, SVAMA, ecc.) delle persone accolte nelle strutture residenziali.
  4. Guaita, A., Trabucchi, M., 2015, Il Piano nazionale demenze, in NNA (a cura di), Un futuro da ricostruire – Quinto rapporto sull’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, Rimini, Maggioli, pp.110-118.

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