“Il proliferare di studi neurobiologici, neuropsicologici e di neuro imaging definisce l’invecchiamento cerebrale come un fenomeno caratterizzato da una marcata variabilità inter-individuale e intra-individuale, composta da modificazioni macro e micro-scopiche a livello anatomo-strutturale, biochimico e funzionale, che si esprimono in maniera variabile tra gli individui e la cui comparsa dipende dall’interazione tra fattori genetici e ambientali, che si manifestano a livello delle funzioni cognitive, motorie, del ritmo sonno-veglia e delle funzioni psico-affettive”.
Queste parole di Patrizia Mecocci e Antonio Cherubini, scritte nel 2002, sono state riprese nelle proposte per la creazione di linee guida sulla valutazione cognitiva dell’anziano, in “Psicogeriatria” 2014, N° 3 (pag. 15). Una visione così ampia apre spazi di “neuroplasticità”, già dall’età adulta: uno stile di vita salutare nella 4a e 5a decade – con particolare attenzione alle abitudini alimentari – può favorire una buona transizione alla maturità nella 7a decade (1). In particolare, la dieta mediterranea può proteggere dalla perdita tessutale. In soggetti adulti cognitivamente normali (prevalentemente nella 6a decade), una scarsa aderenza a tale dieta si associa – a parità di altri fattori – ad un assottigliamento della corteccia nelle medesime aree interessate dalla malattia di Alzheimer: giri temporali medio e inferiore, lobulo parietale inferiore, cingolo posteriore, versante mediale della corteccia orbito-frontale (2).
In visione diacronica, alcuni fattori presenti nell’età di mezzo comportano un rischio di demenza in età avanzata: un’analisi che ha abbinato l’opinione di esperti, secondo il metodo Delphi, con la rassegna della letteratura, ha individuato l’ipertensione arteriosa e l’obesità in età adulta quali fattori di rischio modificabili per la demenza in generale, assieme a depressione, inattività fisica, diabete, iperlipidemia e fumo (senza esprimere un parere definitivo su coronaropatia, cattiva funzionalità renale e attività cognitiva) (3). Con riferimento alla demenza di Alzheimer – che peraltro condivide molti fattori di rischio collegati allo stile di vita con le malattie cardiovascolari e il diabete – un gruppo di esperti (anche italiani) ha individuato sette linee guida che sottolineano il ruolo degli oligoelementi (minimizzare gli apporti di ferro, rame e alluminio – invocando un “principio di precauzione” di stampo tossicologico) e delle vitamine (favorendo apporti alimentari per la vitamina E e supplementi e dosaggi per la B12). Accanto alle raccomandazioni dietetiche e di attività motoria già promosse altrove, sono caldeggiati – sia pure “ufficiosamente” – un riposo notturno di 7-8 ore, e un coinvolgimento per 30’, 4-5 volte la settimana, in attività che richiedano apprendimento di nuove nozioni, per accrescere la “riserva cognitiva” (4). Attività piacevolmente stimolanti – magari compiute con strumenti tecnologici di ampia diffusione, e che non richiedono particolare dimestichezza – sembrano offrire spazi di neuro protezione in situazioni di malattia e di rischio, quali il morbo di Parkinson (5) e il deterioramento cognitivo lieve (6), oltre che negli anziani in genere (7).
La stimolazione cognitiva ha prodotto un guadagno nel punteggio al test MoCA (cognitività globale) rispetto a un intervento di “controllo attivo”, in soggetti con storia familiare di demenza (8). Il detto di Giovenale “mens sana in corpore sano” trova oggi una spiegazione biologica anche nelle nuove ricerche sulle miochine e in particolare sulla irisina (9-11). Anche in persone con deterioramento cognitivo lieve di tipo amnestico l’attività fisica multicomponente, che stimoli attenzione e memoria, condotta per 90’ al giorno, due volte alla settimana, per 40 sedute in 6 mesi, si è mostrata capa ce di modificare non solo la memoria logica e le capacità cognitive globali, ma di sostenere il neurotrofismo corticale (12). Lo studio EXCEL ha confermato la capacità dell’allenamento aerobico e di resistenza nel modificare la traiettoria cognitiva delle persone con deterioramento cognitivo lieve, in particolare l’attenzione selettiva e la capacità di risolvere conflitti, abilità rappresentative delle funzioni esecutive (13).
Non sembra esservi ancora certezza che nei soggetti a maggiore rischio genetico di sviluppare la demenza di Alzheimer l’attività fisica risulti protettiva, anche se sembra capace di proteggere la memoria semantica e di stabilizzare le capacità cognitive nelle persone con deterioramento cognitivo lieve; la stessa rassegna attribuisce all’attività fisica la capacità di ridurre la deposizione di β amiloide nei portatori dell’allele APOE-ε4 e collega il condizionamento cardiorespiratorio a maggiori volumi encefalici negli stadi precoci della demenza di Alzheimer (14). Con riferimento alla citazione introduttiva, la ricerca sulla demenza negli ultimi 25 anni è senz’altro evoluta verso un “meta-paradigma” preventivo, che coinvolge scienza e società (15). Per questo sono benvenute le revisioni che hanno ridimensionato gli ambiti quantitativi di prevedibilità dal 50 al 33%, tenendo conto della non-indipendenza dei fattori di rischio modificabili (16). In fin dei conti, se in scienza il dato è tutto, Antonio Pascale ci ricorda che “cultura è capacità di conoscere e misurare”.
Bibliografia
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2. Mosconi L, Murray J, Tsui WH, Li Y, Davies M, Williams S, Pirraglia E, Spector N, Osorio RS, Glodzik L, McHugh P, de Leon MJ. Mediterranean diet and magnetic resonance imaging-assessed brain atrophy in cognitively normal individuals at risk for Alzheimer’s disease. The Journal of Prevention of Alzheimer’s Disease. 2014;1:23-32.
3. Deckers K, van Boxtel MPI, Schiepers OJG, de Vugt M, Muñoz Sanchez JL, Anstey KJ, Brayne C, Dartigues J-F, Engedal K, Kivipelto M, Ritchie K, Starr JM, Yaffe K, Irving K, Verhey FRJ, Köhler S. Target risk factors for dementia prevention: a systematic review and Delphi consensus study on the evidence from observational studies. International Journal of Geriatric Psychiatry. 2014; 2014 Dec 12. doi: 10.1002/gps.4245. [Epub ahead of print]
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