Introduzione
L’agitazione e l’aggressività sono tra i disturbi del comportamento con maggior impatto nella gestione integrata del paziente anziano. Si stima che l’agitazione, intesa come stato d’ansia che si connota con attività motorie afinalistiche, riguardi dal 24 al 61% dei pazienti affetti da Malattia di Alzheimer, e l’aggressività il 21% dei casi (La famiglia del malato di Alzheimer di fronte ai disturbi comportamentali, 2000). Coloro che svolgono l’assistenza a domicilio, oppure presso istituti residenziali o semi-residenziali, spesso chiedono aiuto mostrando quasi la necessità di poter disporre di “linee guida” di riferimento in questo ambito. Tenuto conto che non è pensabile proporre “ricette” universalmente valide, ci si è posti comunque il problema della tracciabilità di un profilo tecnico che comprendesse dei parametri di riferimento utili a prevenire o limitare i danni di un’aggressività agìta a livello fisico.
Premessa
Esistono ricerche che confermano la possibilità di uno studio tecnico del fenomeno rappresentato dall’aggressività, oltre a renderne possibile una conoscenza utile ad individuarne l’origine. Ricordiamo, fra le altre, le ricerche di Konrad Lorenz (Lorenz, 1990) che testimoniano la stretta correlazione tra l’aggressività e la difesa del territorio nel caso degli animali. Un altro studio fondamentale per la comprensione della genesi dell’aggressività e per la definizione di un protocollo di comportamento con il paziente aggressivo, è quello sulla prossemica dell’antropologo Edward T. Hall (Hall, 1966), che mette in luce il significato psicologico, sociale, affettivo ed emotivo della distanza interpersonale, giungendo a definire fasce nell’ambito delle quali la comunicazione assume specifici connotati.
La distanza intima implica un alto grado di coinvolgimento dell’individuo ed è quantificabile dai 15 ai 45 cm: sono visibili i particolari fisici dell’interlocutore e le braccia possono afferrare con facilità l’altro; la distanza personale è invece quella rispettata dai membri di una società e si ispira al non contatto, va dai 45 ai 125 cm: questa distanza rappresenta una sorta di “bolla” privata all’interno della quale è collocato l’individuo, e può essere infranta solo da un estraneo “autorizzato”; vi è poi la distanza sociale, compresa tra i 120 e i 210 cm, che non permette più ai soggetti un contatto fisico, ma viene migliorata la possibilità di visione d’insieme dell’altro e dei rapporti che intercorrono in un piccolo gruppo: si può anche considerare questa come una distanza difensiva. È questa infatti la distanza a cui si ritrae un soggetto che ha difficoltà di rapporto o che non vuole essere troppo invaso dalla presenza dell’altro. Infine, la distanza pubblica prevede un limite minimo di tre metri e mezzo circa. È noto inoltre che il deteriorarsi delle funzioni cognitive più evolute riporta in auge un funzionamento più primitivo del sistema nervoso centrale. Spesso accade, ad esempio, che non venga riconosciuto l’obiettivo di un contatto fisico che, come suggerisce Hall, coinvolge lo spazio intimo, e che ciò scateni una reazione indifferenziata di difesa attraverso l’aggressività atta a respingere la minaccia percepita.
La ricerca di Mc Lean (Mc Lean, 1984) può fornire elementi per comprendere il funzionamento psichico di un paziente con una struttura cerebrale modificata. Mc Lean ha ipotizzato l’esistenza di un’evoluzione delle strutture cerebrali che permetterebbero di riconoscere tre diversi livelli evolutivi: al livello più primitivo troviamo il cervello rettiliano, quindi il cervello di mammifero antico o primitivo (coincidente con il sistema limbico) e, infine, il più evoluto, il neocervello o cervello di mammifero recente. A carico di quest’ultimo, in particolare, sarebbero da ascrivere le lesioni che procurano un quadro di demenza. Un’altra nota importante è che nell’individuo, pur prevalendo il neocervello, sono presenti anche gli altri due, ognuno con “la sua specifica soggettività e la sua propria intelligenza, il suo senso del tempo e dello spazio, le sue funzioni mnemoniche, motorie e altre” (Mc Lean, 1968). Seguendo questa ipotesi, poiché nella demenza è il cervello più evoluto a subire i danni maggiori, il funzionamento dipenderebbe da un livello evolutivo inferiore, e dunque le funzioni cognitive, motorie e le coordinate spazio-temporali subirebbero dei cambiamenti coerenti con il livello di funzionamento del cervello meno evoluto, il quale assumerebbe il ruolo dominante. Diversi disturbi del comportamento del soggetto affetto da demenza potrebbero essere letti alla luce di questa teoria. I comportamenti ripetitivi, ad esempio, quali il wandering, l’affaccendamento improduttivo e le vocalizzazioni ripetitive, pur avendo perso una finalità riconoscibile, potrebbero essere sorretti da uno schema antico di comportamento che Mc Lean riconosce soprattutto come prerogativa del cervello rettiliano.
Il malato di Alzheimer tende infatti a seguire percorsi già sperimentati o ad agire secondo un programma rigido. Si osserva, infatti, che l’interruzione di un’attività ripetitiva o la proposta di un’attività non consueta provoca spesso una reazione aggressiva di rifiuto. L’osservazione dei comportamenti descritti ha opportunamente guidato alcune scelte ambientali nei reparti Alzheimer, a sottolineare che la ripetitività e la rigidità sono una necessità che, se rispettata, reca benessere al paziente. È interessante notare che, secondo l’ipotesi descritta di un ruolo maggiormente significativo di un cervello più arcaico, non osserviamo un deficit di funzionamento, bensì un diverso funzionamento con sue prerogative specifiche. L’osservazione, guidata dalle suddette teorie, fornisce interessanti stimoli per la comprensione del funzionamento cognitivo ed emotivo e, di conseguenza, anche dei comportamenti del demente. Non a caso, gli episodi di aggressività avvengono soprattutto quando si interferisce con un’attività ripetitiva, come già detto, o con lo spazio personale del paziente: durante le pratiche di assistenza oppure tra gli ospiti in contesti di vicinanza (a tavola, in camera o nei salottini).
Ipotesi di lavoro
Partendo dalla riflessione su queste teorie, e dall’osservazione dei comportamenti e delle reazioni di soggetti affetti da demenza, si è cercato di individuare un protocollo di comportamento che miri a salvaguardare il paziente e chi lo assiste (Tab. 1).
Conclusioni
Vorremmo insistere sull’importanza fondamentale dell’attenzione allo spazio fisico a disposizione dei pazienti e di chi presta la cura, e dell’aggressività in rapporto alla “territorialità” del paziente. Questa considerazione, unitamente a quanto finora detto, richiede, a nostro avviso, la definizione di una “psicologia della demenza”, con un approccio che rivaluti la dimensione motivazionale e inconscia del paziente. L’instaurarsi di un deficit cognitivo non implica infatti in alcun modo il contemporaneo realizzarsi della fine di una dimensione interiore del soggetto. Questa permane, aumentando semmai l’inconsapevolezza del sentire e/o la difficoltà nell’esprimerlo in modo coerente. Acquista importanza la conoscenza, il più possibile approfondita, dell’anziano, delle sue abitudini e della personalità premorbosa, accanto alla conoscenza di elementi di base di psicologia delle pulsioni elementari e del comportamento.
Il protocollo proposto nasce infatti dal considerare come l’aggressività o l’agitazione del paziente possano non avere una matrice autogena, bensì essere la conseguenza dell’interazione tra aspetti ambientali, l’atteggiamento di chi lo assiste e le modificate condizioni mentali del soggetto. Per il caregiver alcune indicazioni riportate possono apparire non intuitive e certamente richiedono uno sforzo di autocontrollo. È importante che vi sia la possibilità di svolgere una riflessione, possibilmente con personale formato, tesa a interiorizzare modalità di lettura e comportamenti che, non venendo spontanei, necessitano di una preparazione ad hoc.
Bibliografia
Hall ET. La dimensione nascosta, Bompiani, Milano 1966.
La famiglia del malato di Alzheimer di fronte ai disturbi comportamentali, Fondazione Manuli, Atti Seminario di Aggiornamento, 21.09.2000.
Lorenz K. L’aggressività, Mondadori, 1990.
Mc Lean PD. Evoluzione del cervello e comportamento umano, Einaudi, Torino 1984.
Mc Lean PD. Alternative neural pathways to violence, in: L. Ng (a cura di) Alternatives to Violence, Time Life Books, New York 1968:24-34.