1 Marzo 2006 | Reti informali

L’anziano demente e la sua famiglia: curare le relazioni familiari per curare il paziente. Un contributo integrato dalla psicoanalisi e dalle scienze cognitive

’anziano demente e la sua famiglia: curare le relazioni familiari per curare il paziente

A fronte delle recenti, importanti scoperte delle neuroscienze sul funzionamento del cervello, ci si è ancora poco interrogati su come soggettivamente si senta una persona anziana affetta da demenza e su come funzioni il suo apparato psichico. Eppure il danno a livello cerebrale comporta alterazioni significative del senso di identità portando pian piano l’interessato, i familiari e le persone care a sentire che egli non è più la stessa persona, perché è stato colpito il cuore della personalità. Per questo la paura, il disorientamento e la confusione colpiscono anche i familiari con conseguenze cariche di sofferenza; si rompono importanti equilibri personali che spesso incidono sulla stabilità dei rapporti familiari, perché “la malattia attacca e fa vacillare il sentimento di riconoscimento reciproco”.

 

Numerose ricerche in campo psicosociale evidenziano che l’assistenza ai pazienti può provocare gravi disturbi fisici e mentali sia agli operatori che ai familiari. Queste ricerche mostrano, ad esempio, che chi convive con il malato è più riluttante a chiedere aiuto, ma che ha anche più probabilità di essere depresso rispetto ai familiari che non convivono con il paziente, tanto che i familiari conviventi sono stati definiti “le vittime nascoste della demenza” (Tamanza, 1998).Tra l’altro, chi presta assistenza al malato è di solito il coniuge, anche lui anziano, o un suo figlio, più spesso una figlia, a sua volta in un’età particolare: quella involutiva del climaterio, che molti studi evidenziano come la più a rischio per la depressione, a sua volta ritenuta da più parti un fattore di rischio della demenza (Ciompi e Lai,1968;Mecocci et al., 2002). Queste osservazioni confermano che è necessario sviluppare strategie preventive a salvaguardia dei familiari e quindi a beneficio delle persone malate da loro assistite.

 

Ma c’è un secondo motivo, non meno importante, per cui vale la pena di occuparsi dei familiari: essi sono testimoni privilegiati della storia del paziente, ed hanno intrattenuto ed intrattengono con lui, per lo più inconsapevolmente, una relazione di ruolo (il termine “ruolo” si riferisce qui ad un modello di reazione psicosociale e di comportamento atteso o desiderato), da sempre caratterizzata da rispondenze reciproche (Sandler, 2002). Queste “conoscenze”, se esplicitate e rese utilizzabili, non solo possono essere di aiuto ai familiari per padroneggiare meglio la loro difficile situazione, ma possono fornire interessanti ipotesi di ricerca per comprendere la soggettività dell’anziano demente ed il funzionamento del suo apparato psichico.

 

Le note che seguono descrivono la mia esperienza con un gruppo di auto-aiuto per i familiari, promosso dal Comune di Brescia in collaborazione con l’Associazione “Don Benedini“, costituitosi circa un anno fa. Nell’esposizione distinguerò le ipotesi teoriche che hanno guidato questo lavoro dalla presentazione di alcuni casi clinici: in realtà nella conduzione dell’esperienza questi due aspetti (teorico e clinico) si sono intrecciati ed arricchiti a vicenda.

 

Le ipotesi teoriche

Le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno evidenziato diversi tipi di memoria (Tab.1).

tabella 1

La memoria dunque non è solo ciò che siamo in grado di ricordare consciamente del passato; secondo questa definizione molto più ampia, è l’insieme dei processi in base ai quali gli eventi del passato influenzano le risposte future. Gli avvenimenti passati possono influire in maniera diretta su come e che cosa impariamo, anche se di tali avvenimenti non necessariamente abbiamo un ricordo conscio: le nostre esperienze precoci modellano il nostro modo di comportarci e di avere rapporti con gli altri, anche se non siamo in grado di ricordare quando queste esperienze si sono verificate.

 

Ma che cosa succede alla memoria dell’anziano demente? Possiamo ipotizzare che alla graduale perdita della memoria esplicita, corrisponda un’emersione più consistente e visibile di quella implicita e soprattutto di quegli schemi mentali più primitivi, formatisi nei primi anni di vita, che danno una particolare forma e organizzazione alle esperienze attuali dell’anziano demente. Questa ipotesi può essere meglio approfondita ed avvalorata:

  • dal punto di vista del cognitivismo: R.B. Clyman (Clyman, 1991), rifacendosi in particolare a Piaget e alle neuroscienze, ipotizza l’esistenza, accanto alle procedure cognitive, di un’organizzazione procedurale delle emozioni che si forma molto presto nell’infanzia e che resiste agli effetti dell’amnesia infantile; le procedure cognitive sono, per così dire, colorate dalle procedure emozionali nel corso di tutta la vita (vedi anche Damasio,1995;Damasio,2003);
  • dal punto di vista della psicoanalisi: J.e A.M. Sandler (Sandler, 2002) arricchiscono la comprensione del funzionamento di queste procedure, o matrici dinamiche, come essi le chiamano. “Le matrici dinamiche dell’inconscio passato (il concetto di inconscio passato di J.e A.M.Sandler è molto simile a quello di memoria procedurale),pur formatesi nella prima infanzia, sono strutture psicologiche attualissime ed attive e costituiscono il bambino dentro (…). Sono responsabili di una tendenza persistente ed ineliminabile della persona a funzionare come se fosse un bambino piccolo di quattro, cinque anni (…). Questa tendenza provoca nel bambino più grande e nell’adulto continui conflitti disturbanti e potenzialmente patogeni, che devono essere affrontati in qualche modo all’interno dell’inconscio presente dove questo insieme di schemi, procedure, regole dei primissimi anni di vita vengono avvertite come inappropriate o minacciose per l’equilibrio della persona adulta (…) e quindi censurate e sottoposte all’azione difensiva che le inibisce o modifica per renderle più accettabili alla coscienza”, al fine di mantenere il maggiore sentimento di benessere e sicurezza possibile: criterio dominante del funzionamento dell’apparato psichico. Il bisogno di mantenere il sentimento di sicurezza è di enorme importanza per l’adattamento1(Sandler, 1981): esperienze di ansia o di  disorganizzazione abbassano il livello di sicurezza ed inducono comportamenti che a prima vista sembrano non adattivi, ma in realtà lo sono, perché mirano a ristabilire un livello minimo del sentimento di sicurezza (vedi, ad esempio, il comportamento stereotipato e bizzarro degli psicotici, teso a creare una situazione percettivamente stabile; o, ancora, le persone sofferenti di nevrosi post-traumatica che continuano “a rivivere” l’esperienza traumatica al fine di padroneggiare l’ansia e ristabilire il sentimento di sicurezza).

 

Possiamo ipotizzare che le relazioni attuali dell’anziano demente si caratterizzino per un’irruzione diretta di queste matrici dinamiche primitive, quanto più risulta indebolito il lavoro di elaborazione e mediazione della censura e delle attività difensive più evolute, condizionate dai processi del pensiero secondario che consente l’esame di realtà. L’attività di queste matrici assume una importante funzione adattiva, in quanto contribuisce a ristabilire il sentimento di sicurezza che la malattia ha fatto vacillare. Ma quali caratteristiche ha questa disinibizione delle strutture più arcaiche nell’anziano demente?

 

Se non ci accontentiamo di una risposta che si riferisca esclusivamente ad una causa organica conseguente ai danni a livello cerebrale, possiamo chiederci: se è vero che il cervello è un organo “esperienza-dipendente”(Siegel, 2001),giocano un qualche ruolo anche le vicende della vita e come ciascun individuo “le metabolizza”, plasmando quindi il suo cervello e viceversa? In particolare, quale ruolo giocano esperienze soggettivamente dolorose e traumatiche nel dare proprio quella particolare forma ai “disturbi comportamentali” di ogni persona malata? Ha un senso il fatto che molto spesso i familiari, più o meno consapevolmente, parlino “di una causa scatenante” della malattia? Si tratta solamente di un tentativo di dare un senso alla loro esperienza sconvolgente? O si può ritenere che questo tentativo sia un punto di partenza ragionevole, per cercare il filo della continuità e dell’integrazione fra la relazione passata e quella attuale con il loro congiunto malato, tale da consentire loro di riconoscersi e, in questo riconoscimento, di trovare un po’ di sollievo al dolore e alla confusione?

 

Ciò che i familiari presentano per prima cosa nel gruppo è la relazione quotidiana con il loro congiunto malato, entrata in crisi con l’avvento della malattia. Possiamo ipotizzare che questa crisi sia causata dalla irruzione di una relazione di ruolo che era da sempre caratterizzata da rispondenze reciproche (cioè strutturate per lo più sulla forma delle matrici dinamiche), mantenutasi relativamente stabile nel corso degli anni, ma mitigata dai processi del pensiero secondario e dall’esame di realtà: individuare gli elementi di continuità tra passato e presente di queste rispondenze reciproche, può consentire ai familiari di ritrovare quel filo; divenendone consapevoli, essi possono padroneggiare meglio la situazione, ristabilendo il loro sentimento di sicurezza nella relazione con il loro congiunto malato in modo più realistico ed adeguato. Su questa ipotesi si basa il lavoro nel gruppo di autoaiuto per i familiari. Ma vediamo più concretamente come questa ipotesi può essere utile con la presentazione di alcuni casi.

 

I casi clinici

Gianna e sua figlia Giulia parlano della sorella di Gianna (zia per Giulia) che ha 70 anni, in cura da quattro anni per Alzheimer. Giulia in particolare esprime una preoccupazione per la madre “esaurita” dall’accudimento della sorella “dispettosa, oppositiva” (grosso problema:le fughe).Gianna e la sorella abitano attualmente in centro in due appartamenti attigui e, nonostante il sollievo per la frequenza al centro diurno, Gianna è costantemente in allarme per i guai che la sorella combina.

 

Storia: Gianna racconta una storia familiare molto difficile. Il padre a 74 anni è stato trovato morto in un bosco (abitavano in una regione del Centro Italia) per “una fuga da Alzheimer, anche se allora non si chiamava così”. In realtà era sempre stato un uomo molto ansioso e pauroso: “dormiva sempre con la luce accesa per la paura”. Restò vedovo a 33 anni con sei figli! Tutti più o meno con storie problematiche, “con l’esaurimento nervoso”. Attualmente due sorelle sono malate di Parkinson, un’altra di demenza ed abitano in altre città. Alla morte della mamma, tre sorelle vengono mandate in collegio dalle suore, tra esse anche Gianna (tre anni) e questa sorella (cinque anni).Del collegio Gianna ricorda la durezza, i maltrattamenti, il cibo scarso, il freddo ed il rapporto molto intenso con sua sorella. Di sé ricorda le reazioni a questi disagi e le conseguenti punizioni, la sorella invece diceva sempre sì, poi magari faceva di testa sua, anche se era piena di malesseri: tachicardie, difficoltà respiratorie, ecc. (descrittivamente attacchi di panico) e Gianna, nonostante fosse più piccola, sentiva di doverla proteggere. La sorella esce dal collegio a 21 anni e per un anno vive con il padre, facendo la pendolare tutti i giorni, sobbarcandosi in treno un tragitto lunghissimo per recarsi al lavoro (come infermiera). Gianna nel frattempo si sposa e viene ad abitare a Brescia. Dopo la morte tragica del padre, anche la sorella si trasferisce a Brescia e conduce una vita molto ritirata: non sembra aver avuto rapporti affettivi né di amicizia; stava per lo più sola nella sua casa, pulita ossessivamente, e al lavoro, presso Istituzioni dirette, guarda caso, da suore! Nel lavoro si conquista la fiducia e l’affetto per la sua disponibilità, ma quando questa conquista si realizza, di punto in bianco ed inspiegabilmente cambia lavoro e ricomincia daccapo. Gianna riferisce dei malesseri ciclici della sorella (descrittivamente attacchi di panico,sintomi ossessivi).

 

Ipotesi: La personalità premorbosa sembra evidenziare una fobia estrusiva, alla cui base sta una scarsa definizione dei confini del Sé, indicativa di una intensa e dolorosa ambivalenza nei confronti dell’attaccamento, vissuto come tanto desiderabile, ma anche come confondente, annientante: da qui la necessità di difendersi, con una tacita oppositività (definisce i propri confini del Sé facendo “il contrario”) e con il distanziamento (fughe), un tempo meno evidenti, perché accompagnati da un esame di realtà più adeguato (matrice). Forse per Gianna può essere di sollievo comprendere che i “dispetti” della sorella, la sua opposività, le sue fughe, non sono tanto degli agiti contro di lei, ma l’estremo tentativo di proteggersi dal suo intenso desiderio di attaccamento, che per il suo fragile Sé (tanto più fragile adesso) è accompagnato indissolubilmente dalla paura di essere annientata. Può essere anche utile per Gianna comprendere la sua ambivalenza nei confronti della sorella: da un lato l’origine antica della sua rabbia per le aspettative deluse che la sorella più grande si occupasse di lei e, dall’altro, il suo bisogno di controllarla continuamente per la paura di perderla.

 

Lidia, 75 anni, ci parla del marito Paolo, malato di Alzheimer da più di 10 anni: ormai quasi completamente afasico, confuso, spesso agitato, benché fisicamente forte e in “forma”. La signora Lidia dice di essersi ormai “adattata” alla situazione del marito, anche se ciò che la preoccupa è ”la sua incontrollabilità”: rompe in continuazione e con molta abilità tutte le serrature delle porte che trova chiuse e fugge (una volta è stato trovato alle due di notte a venti chilometri da casa!);o, ancora, a tavola si abbuffa con la testa sul piatto e, se la signora Lidia glielo allontana per invitarlo a mangiare con calma, egli cerca di infilzarle la mano con la forchetta (“come se volessi affamarlo!”).

 

Storia: La signora Lidia racconta di un matrimonio sereno, dei loro due figli, ma anche di eventi dolorosi e traumatici: un paio d’anni prima della diagnosi della malattia, la loro famiglia è stata colpita da numerosi lutti violenti ed improvvisi. Racconta anche delle loro origini istriane, della nostalgia per il mare, per il nuoto (abilità che il sig. Paolo conserva ancora adesso!). Mi viene in mente di chiedere alla signora Lidia se la loro venuta a Brescia abbia avuto a che fare con le vicende della guerra e in che modo il marito ne fosse stato coinvolto. In effetti essa racconta che la sua famiglia d’origine e quella del marito (allora non erano ancora sposati) sono state sfollate a Brescia e che il marito non ne sapeva nulla, perché era prigioniero in Africa: solo dopo cinque anni di dura prigionia e dopo affannose ricerche, è riuscito a ricongiungersi con i suoi cari. Alla signora Lidia ora viene in mente che all’esordio della malattia (la diagnosi non c’era ancora), il marito esasperava tutti, raccontando in continuazione della sua prigionia e di come fosse stato bravo a cavarsela. Le viene anche in mente che se lei lo stimola a parlare, chiedendogli: “Paolo, come mi chiamo io?” … “mi chiamo Li…Li…”,la risposta è: “Libertà!”.

 

Ipotesi: è pensabile che il sig. Paolo “riviva” la sua esperienza della prigionia, dalla quale è uscito libero, “nella prigione” della demenza, come a ricercare, illusoriamente purtroppo, la via di fuga già sperimentata con successo. È pensabile che la matrice di “amante della libertà” sia riconducibile ad aspetti adattivi, antichi, e radicati nel carattere del sig. Paolo, ad esempio, come lavoro faceva l’autista di autobus. Per la signora Lidia “ri-conoscere” in questo modo il marito, può essere di conforto e può aiutarla ad essere meno ansiosa e confusa a beneficio anche del signor Paolo.

 

Conclusioni

Sul versante dell’esperienza soggettiva dell’anziano demente, possiamo ipotizzare che, a fronte della graduale disorganizzazione delle strutture cognitive, le strutture emozionali (o matrici dinamiche) assumano la forma di antichi e primitivi aspetti adattivi, tesi a ristabilire il sentimento di sicurezza. Se è così, vale la pena di intervenire anche con “mezzi psicoterapeutici”, quanto meno per contenere gli effetti più regressivi e disturbanti della malattia che rischiano di innescare nelle relazioni del malato, specie quelle familiari, reazioni a catena cariche di sofferenza per tutti.

 

A me sembra di poter individuare alcune aree di lavoro dove l’osservazione, la ricerca e l’intervento possono andare di pari passo ed arricchirsi a vicenda:

  • con i familiari: colloqui, gruppi di sostegno;
  • con gli operatori: gruppi di supervisione;
  • con gli anziani dementi nelle fasi iniziali, ma anche con i depressi o con persone che manifestino comunque una qualche forma di disagio psichico: colloqui, gruppi di sostegno (alcune esperienze sembrano confortanti in questa direzioni: vedi Ploton, 2003;Le Goués,1995).

 

In ogni caso l’ascolto delle esperienze dei familiari, ha messo in luce che la loro conquista di una immagine più chiara delle caratteristiche di questa patologia, tale da consentire loro di sentirsi vicini al congiunto malato, è il risultato non solo della corretta informazione fornita dai medici, ma anche e soprattutto di un prolungato e doloroso lavoro di elaborazione affettiva e di ricerca di un nuovo adattamento mentale.

Note

  1. Con il termine adattamento mi riferisco qui ancora alla teoria psicoanalitica, in particolare a J.Sandler, secondo il quale l’apparato psichico funziona, tra l’altro, “per mantenere uno stato stabile (…) di fronte alle continue alterazioni che possono sorgere sia dall’interno che dall’esterno dell’individuo (…). I processi di adattamento a loro volta producono cambiamenti nella struttura e nel modo di funzionare dell’apparato psichico. Questo modo di considerare l’adattamento è radicalmente diverso da quello che tiene conto soltanto dell’adattamento sociale. Dal punto di vista psicoanalitico perfino il comportamento autodistruttivo più vistoso, del tutto disadattivo dal punto di vista sociale, può essere ritenuto come il risultato di un adattamento psicologico”

Bibliografia

Ciompi L,Lai G. Dépression et Vieillesse.Huber,Friburgo,1968.
Clyman RB. The procedural organization of emotion: a contribution from cognitive science to the psycoanalitic theory of terapeutic action. Journal of the American Psycoanalitic Association,1991.
Damasio A. L’errore di Cartesio. Raffaello Cortina,Milano,1995.
Damasio A. Alla ricerca di Spinoza. Raffaello Cortina,Milano,2003.
Le Gouès G. La psicoanalisi e la vecchiaia.Borla,1995.
Mecocci P, Cherubini A, Senin U. Invecchiamento cerebrale, declino cognitivo, demenza: un continuum? Critical Medicine Publishing,Roma,2002.
Ploton L. La persona anziana. Raffaello Cortina,Milano,2003.
Sandler J e AM. Gli oggetti interni. Franco Angeli,Milano,2002.
Siegel D. La mente relazionale. Raffaello Cortina,Milano,2001.
Tamanza G.C. La malattia del riconoscimento. L’Alzheimer, le relazioni familiari, il processo di cura. UNICOPLI,Milano,1998.

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