21 Marzo 2023 | Operatori

Progettare percorsi di cura e assistenza: il confine tra autodeterminazione e protezione

L’articolo tratta il tema delle funzioni di supporto degli operatori sociali nei confronti degli anziani e delle loro famiglie. Il punto di vista a partire dal quale si articola la riflessione è quello dell’assistente sociale, capace di portare alla luce i principali nodi critici nonché i possibili spazi di intervento e miglioramento della progettazione dell’assistenza.

Progettare percorsi di cura e assistenza: il confine tra autodeterminazione e protezione

Nel presente contributo si proporrà una riflessione in merito ai percorsi di cura e assistenza, in particolare sulle funzioni di supporto degli operatori sociali nei confronti delle persone anziane e delle loro famiglie. Il supporto è inteso non tanto come un insieme di azioni, ma come un percorso di accompagnamento, che si snoda nel tempo e che non si esaurisce con l’attivazione di una specifica prestazione o di un servizio. Sono tanti i professionisti che le persone incontrano e che possono contribuire a semplificare o, al contrario, a rendere più complessi i percorsi di cura. In questa sede, l’attenzione si concentrerà, in particolare, sulle funzioni degli assistenti sociali che, soprattutto nei servizi territoriali di base, si interfacciano con questi compiti tanto articolati. Si tratta indubbiamente di un punto di vista parziale, soprattutto pensando a quanto sia difficoltoso per le persone affrontare gli aspetti sanitari. Tuttavia, capire cosa significa per un professionista del sociale accompagnare le persone anziane nella pianificazione di cura e assistenza costituisce uno snodo importante.

 

La progettazione dell’assistenza, infatti, è un intervento che si muove sul confine tra la sfera privata e intima delle persone, il loro diritto a ricevere aiuto dalle istituzioni del welfare e il dovere dei professionisti di tutelare le persone fragili. Le componenti che entrano in gioco sono molteplici ed è inevitabile che, nella costruzione di un puzzle con molti pezzi, qualcosa non si incastri perfettamente. All’interno di questo quadro, si cercherà di evidenziare quali sono i principali nodi critici, sia dal punto di vista delle persone che dei professionisti, e quali i possibili spazi di intervento e sostegno. Le riflessioni che si proporranno derivano principalmente da alcune ricerche in merito ai bisogni e ai percorsi di cura rivolti alle persone anziane e adulte non autosufficienti, condotte negli ultimi anni in Lombardia dall’équipe del Centro di ricerca Relational Social Work dell’Università Cattolica di Milano (Corradini et al., 2019; Corradini, 2021; Corradini et al., 2021).

 

Progettare l’assistenza: un compito complesso e delicato

Osservando i diversi ambiti del lavoro sociale, accade frequentemente che il concetto di complessità sia associato al lavoro con i minori e le famiglie, mentre l’attività di supporto alle persone anziane viene vista come più semplice, connessa a compiti predeterminati e meno coinvolgente sul piano emotivo per coloro che se ne occupano. Si tratta di un’immagine stereotipata, che, tuttavia, viene confermata da ricerche effettuate in diversi Paesi europei (Chonody et al., 2014; Webb et al., 2016), oltre che dall’esperienza diretta dei professionisti. Agli addetti ai lavori è evidente, al contrario, quanto sia complesso e delicato il compito di chi accompagna le persone e le famiglie nella pianificazione dei percorsi di cura rivolti a chi non è più autosufficiente.

 

Dal punto di vista delle persone anziane e dei loro caregiver, si possono sottolineare due aspetti, distinti ma strettamente intrecciati. Il primo aspetto è connesso al faticoso portato emotivo e ai vissuti e sentimenti di chi si vede costretto in una condizione di crescente fragilità e dipendenza dagli altri e, specularmente, di chi si trova a dover fronteggiare il peggioramento delle condizioni di salute di un proprio familiare. Progettare l’assistenza in età anziana significa progettare la vita stessa, o aspetti fondamentali della vita; significa, ad esempio, capire se è necessario lasciare la propria casa per trasferirsi in una struttura protetta lasciando quanto si è costruito nel corso del tempo, significa accettare di svelare le proprie fragilità – e spesso anche la propria intimità – a persone sconosciute, con tutte le incognite e le paure presenti, a volte si traduce anche nel dover scegliere la persona che chiuderà gli occhi al proprio padre o alla propria madre per l’ultima volta.

 

Alcuni studi si occupano di delineare i diversi aspetti connessi alle molteplici transizioni che le persone devono affrontare in età anziana (Fabbre et al., 2011; Fitzpatrick et al., 2019). Un elemento che emerge è quanto, nei vari passaggi, venga messa in discussione l’identità stessa delle persone e quanto sia delicato l’equilibrio che di volta in volta si costruisce. Il secondo aspetto è connesso alla difficoltà nella scelta e nella gestione delle prestazioni e dei servizi, data dalla presenza contestuale di bisogni di diversa natura (clinica, psicologica, sociale, relazionale…). Per le persone anziane e le loro famiglie, orientarsi tra le competenze di differenti operatori, all’interno di percorsi disomogenei nei vari territori, risulta molto faticoso, una vera e propria “giungla” (Corradini et al., 2019), col risultato di un generale disorientamento, proprio nel momento in cui ci si trova di fronte a esigenze delicatissime e spesso urgenti.

 

Chiedere aiuto è difficile

Il primo elemento con cui gli operatori si trovano a dover fare i conti è la difficoltà, talora la resistenza delle persone nel chiedere aiuto. Si tratta di un atteggiamento emerso da diverse ricerche, condotte in contesti differenti, relativo sia alle persone adulte e anziane in difficoltà, sia ai loro familiari. È molto difficile riconoscere di avere bisogno di aiuto, ed è difficile anche accettare di avere bisogno di sostegno, in quanto la richiesta di supporto è collegata a vissuti di vergogna, sensi di colpa, inadeguatezza, timore e confusione. Chi è nella condizione di dipendere dall’aiuto degli altri è considerato – o si sente – un peso per la famiglia e per la società.

 

Questo dato può essere interpretato attraverso differenti chiavi di lettura, la prima è quella dell’ageism, cioè l’insieme di pregiudizi e stereotipi connessi all’età, per cui le persone anziane sono viste come un gruppo omogeneo, con caratteristiche simili: fragili, debole, malate, inutili, all’interno di una società che promuove l’attivismo e colpevolizza chi non mantiene stili di vita sani (Ayalon et al., 2018). L’ageism ha una forma di internalizzazione, questo significa che le stesse persone anziane ritengono veri questi pregiudizi e si comportano di conseguenza, ad esempio essendo convinti di essere un peso per la società e quindi evitando il più possibile di chiedere aiuto. Non sempre gli operatori sono consapevoli di questo elemento che si potrebbe definire “strutturale”, faticano a riconoscerlo e quindi a contrastarlo.

 

Un’altra possibile interpretazione è legata all’organizzazione dei sistemi di welfare e alle politiche sociali. Il nostro sistema di welfare è definito familista, nel senso che la responsabilità primaria dell’assistenza alle persone non autosufficienti è in capo alle famiglie (Arlotti, 2018), mentre l’intervento dello Stato si basa principalmente su trasferimenti monetari, come l’indennità di accompagnamento. I familiari – soprattutto le donne – da un lato sono costretti a organizzare l’assistenza in autonomia, dall’altro, avvertono questo compito come un dovere. Emblematiche, in tal senso, sono le parole di una donna di 50 anni, che si occupa di entrambi i genitori non autosufficienti, raccolte durante un’intervista (Corradini et al., 2021):

 

“Non ho dei risentimenti nei confronti di mio fratello […], però il ruolo che… sono la sorella più anziana, perché ho 11 anni più di lui, sono senza famiglia, sono femmina, abito di fianco a loro; quindi, la somma delle cose ha portato naturalmente verso queste scelte…”

 

Procrastinare la richiesta di aiuto, attendere finché la situazione è ingestibile, comporta che i servizi ricevano richieste per situazioni già molto compromesse, in cui la persona da assistere presenta bisogni complessi e multidimensionali e occorre scegliere in fretta, molto spesso in condizioni di urgenza, ad esempio in prossimità di dimissioni ospedaliere. Nella maggior parte delle situazioni i familiari sono assenti, oppure non sono più in grado di far fronte alla complessità, le energie sono esaurite e sarebbe necessario strutturare anche per loro percorsi di supporto e sollievo. Questo rende davvero complicato poter avviare interventi di progettazione che avrebbero necessità di essere pensati, meditati, discussi e avviati gradualmente.

 

Essere informati è difficile

Un altro aspetto che viene evidenziato come un elemento critico dalle persone e dalle famiglie è la difficoltà nel riuscire a ottenere informazioni chiare ed esaustive sui diversi servizi e prestazioni e sui percorsi di accesso. Da un lato è evidente che, se la richiesta di aiuto viene procrastinata, quando ci si attiva prevale l’urgenza, il tempo a disposizione per informarsi è poco e l’attenzione è ridotta. Complessivamente, tuttavia, le persone descrivono un percorso “al buio”, in cui non sanno bene a chi rivolgersi, perché non esiste (non dovunque) un punto unico di accesso per tutti i servizi sociosanitari. Peraltro, il servizio sociale sconta un’identità difficilmente riconoscibile, in quanto, nell’immaginario collettivo, viene associato al lavoro con minori e famiglie, e non immediatamente alla progettazione assistenziale per le persone anziane. Come ha affermato il nipote di una persona anziana nel corso di una intervista (Corradini et al., 2021):

 

“L’assistente sociale è in grado perfettamente di dire tutto quello che si può fare, il problema più grosso è arrivare a lei, una volta che uno ci arriva poi è a posto.”

 

Spesso è il passaparola che sopperisce una carente informazione sui percorsi possibili. Percorsi, servizi, interventi che alle famiglie appaiono molto frammentati, distanti tra loro, confusi.

 

Le famiglie sono sole di fronte nell’organizzazione dell’assistenza

Un punto centrale è quello dell’integrazione tra differenti servizi e prestazioni. Come evidenziato, le famiglie cercano il più possibile di far fronte autonomamente alle difficoltà dei propri parenti, e questo è possibile finché le esigenze sono relativamente semplici e gestibili; tuttavia, accade spesso che la situazione precipiti e le persone non sappiano più come orientarsi. A quel punto si rivolgono ad amici, conoscenti o, più spesso, al web per trovare le risposte necessarie, basandosi su quello che hanno percepito e compreso in autonomia.

 

Frequentemente accade che molte persone facciano la scelta di unire prestazioni diverse: ad esempio l’inserimento in un centro diurno e un’assistenza privata, oppure il servizio domiciliare, un aiuto per le faccende domestiche e i volontari per alcuni trasporti, oltre alla presenza di familiari e amici. Non esiste una traiettoria lineare, ma è evidente come le famiglie siano alla ricerca costante di percorsi “tagliati su misura”, in cui i diversi interventi vengono combinati a seconda delle esigenze, a partire da ciò che in quel momento è disponibile. Proporre un set di prestazioni standardizzate non si rivela utile nell’andare incontro alle esigenze delle famiglie, perché, a fronte di condizioni simili, le decisioni possono essere molto differenti. Nella maggior parte dei casi, questa complessa organizzazione dei piani assistenziali resta in mano alle famiglie, che hanno il compito di fare sintesi tra le proposte, assemblare le diverse prestazioni, organizzare modalità e tempi e gestire eventuali difficoltà che man mano si presentano.

 

Consentire alle famiglie di scegliere autonomamente i percorsi di cura è indubbiamente positivo, nella misura in cui possiedono una buona consapevolezza relativa alle diverse possibilità e alle proprie esigenze. Esiste però un confine sottile tra il rispetto dell’autonomia e la solitudine in cui tante volte le persone affermano di trovarsi, a fronte di processi complessi e scelte delicate, come ad esempio quella relativa all’assistente familiare o alla struttura protetta, oppure nell’affrontare eventuali conflitti, nel fronteggiare le emergenze, o anche soltanto nel gestire gli aspetti burocratici. Un’altra conseguenza è l’assenza, in molti casi, di un progetto globale, in cui i diversi interventi si inseriscono all’interno di una pianificazione integrata, pensata e definita a partire da un’analisi dei bisogni individualizzata e multidimensionale.

 

Il difficile equilibrio tra rispetto dell’autodeterminazione e obbligo di tutela delle persone fragili

La costruzione dei percorsi di assistenza non comporta soltanto un sapiente assemblaggio di prestazioni, ma avviene all’interno di una relazione tra i professionisti, le persone e le famiglie. Non si tratta solo di rispondere ai bisogni assistenziali, ma di creare un rapporto di fiducia, in cui sia possibile esprimere dubbi, vissuti, sentimenti ed esercitare una capacità di scelta consapevole da parte dei diretti interessati. Al contempo, i professionisti hanno il dovere di cogliere i bisogni non corrisposti, le situazioni di rischio e di attivarsi per la tutela delle persone fragili. Garantire il rispetto della volontà delle persone e, parallelamente, adempiere agli obblighi di protezione e tutela costituisce spesso un nodo critico per gli operatori, collocato sul crinale tra le funzioni di aiuto e le funzioni di controllo.

 

È un tema che viene evidenziato con crescente entità dai professionisti che si occupano di persone adulte e anziane, in particolare dagli assistenti sociali. Il Codice Deontologico degli assistenti sociali, infatti, pone l’accento sulla necessità di riconoscere la persona come “soggetto capace di autodeterminarsi e agire attivamente” (art.26) e invita a rispettare l’autonomia e il diritto della persona ad assumere le proprie scelte e decisioni. Evidenzia però che la capacità di autodeterminarsi della persona può essere ridotta a causa di condizioni individuali, socioculturali, ambientali o giuridiche. Ed è proprio qui la difficoltà: da un lato individuare con sufficiente certezza la volontà dei diretti interessati, dall’altro riuscire a comprendere quale sia il confine tra il rispetto della volontà delle persone e la necessità di intervenire, anche coattivamente, perché questa volontà non sembra derivare da una piena consapevolezza delle proprie condizioni e delle proprie necessità.

 

Pensando alla pluralità di attori che partecipano alla progettazione, possono aprirsi diversi scenari critici. Innanzitutto, quando sono presenti volontà contrastanti: tra il caregiver e l’assistito (spesso questo significa tra figlio e genitore), tra i diversi caregiver (questo significa tra fratelli), tra i professionisti e i diretti interessati, o anche tra i diversi professionisti. Il rischio è quello di non rispettare o non accogliere pienamente il punto di vista delle persone, orientandole, talora in maniera inconsapevole, sui percorsi che vengono ritenuti più adeguati dagli operatori.

 

La situazione più complessa si presenta quando la persona non accetta di essere aiutata, ma vive in una condizione di rischio, ad esempio nelle situazioni in cui è presente un affievolimento delle capacità cognitive, oppure quando si presentano persone molto anziane che vivono sole e in precarie condizioni di salute, oppure a fronte di atteggiamenti aggressivi, o altro… La carenza nell’autoconsapevolezza e nella capacità di scelta non è sempre evidente, le situazioni maggiormente complesse si rivelano quelle in cui è difficile arrivare a definire con certezza le condizioni delle persone, si intravede un rischio, ma sono presenti anche risorse e capacità integre. In tali situazioni, quando le persone rifiutano il supporto dei servizi, o accettano supporti parziali, è molto difficile capire se, quando, e come intervenire.

 

Come muoversi di fronte alle situazioni più critiche?

È evidente come alcune situazioni rappresentino dei veri e propri dilemmi, in quanto, qualunque strada si scelga di percorrere, sono presenti degli aspetti critici. È noto che in una situazione dilemmatica non esiste una soluzione che accontenti tutti, è soltanto possibile pesare con attenzione i diversi elementi in gioco e scegliere la strada meno svantaggiosa. Per questo non è possibile rispondere in astratto alla domanda: cosa fare quando una persona fragile non accetta l’aiuto? Il tema è molto ampio, si propongono alcune piste di riflessione a partire da un punto di vista operativo.

 

Costruire ponti e alleanze

Una considerazione valida in senso generale, al cui interno si inseriscono le riflessioni in merito alle situazioni dilemmatiche, è l’importanza di strutturare dei percorsi di accompagnamento a familiari e caregiver in una fase precoce. Un elemento molto interessante emerso dalle ricerche è la richiesta dei caregiver familiari di essere formati e accompagnati nel percorso di assistenza ai propri parenti fin dall’inizio. Non chiedono di essere sostituiti, o almeno non sempre, non in toto. Tuttavia, si sentono inadeguati e desiderano rinforzare le proprie competenze, che andrebbero valorizzate e integrate all’interno del progetto assistenziale.

 

Il progetto “tagliato su misura” non può prescindere da un’alleanza tra la persona, la famiglia e gli operatori, in modo da garantire continuità nei percorsi di assistenza. Quest’ultimo aspetto non può essere dato per scontato: non è sufficiente collocare diversi professionisti in uno stesso luogo per costruire condivisione. Si tratta di un processo complesso, che passa attraverso la conoscenza reciproca, il dialogo e la definizione di procedure collaborative, costruite ad esempio all’interno di percorsi formativi congiunti rivolti a differenti operatori. La figura del case manager potrebbe aiutare le persone a districarsi tra i diversi servizi e prestazioni e facilitare i rapporti tra i professionisti, con la finalità di costruire un percorso il più adeguato e flessibile possibile. Questo a patto di non costituire un ulteriore passaggio burocratico da superare per ottenere l’aiuto, ma un punto di riferimento presente anche dopo che la prestazione viene erogata e, ad esempio, le condizioni peggiorano o mutano i bisogni.

 

Garantire un’analisi dei bisogni «globale»

Nelle situazioni maggiormente complesse, un primo passo per strutturare percorsi di cura adeguati consiste nel dare il giusto valore (e il giusto tempo) all’assessment. La fase di raccolta e analisi delle informazioni spesso viene sottovalutata, sull’onda dell’urgenza di risolvere la situazione, mentre riservare un congruo tempo per esplorare e raccogliere la voce di tutti, per cercare di mettere in dialogo queste voci e per trovare una chiave di lettura comune costituisce spesso l’unico modo per individuare possibili piste di intervento.

 

Talvolta nei percorsi di analisi di situazioni complesse si utilizzano anche strumenti, ad esempio scale e griglie di valutazione, che possono essere molto utili se vengono visti come un supporto alla riflessione aperta, come dei mezzi che aiutano ad essere maggiormente trasparenti e che consentono agli operatori di dialogare con i diretti interessati e con gli altri professionisti. Non è però possibile affidare agli strumenti di valutazione la scelta sui possibili interventi o la risoluzione di questioni dilemmatiche, in quanto la complessità delle situazioni di vita delle persone richiede una lettura globale e multidimensionale, in cui la discrezionalità professionale gioca un ruolo fondamentale.

 

Evitare il paternalismo

Il rispetto della volontà delle persone dovrebbe comunque essere posto al centro degli interventi di ciascuno, evitando atteggiamenti di paternalismo, in cui il professionista, sia pure in buona fede, privilegia il proprio punto di vista. Come già evidenziato, l’ageism è ben radicato nella nostra società e una delle conseguenze è un’abitudine a relazionarsi con le persone anziane non autosufficienti e con le persone adulte con disabilità come se fossero dei bambini, pensando di agire per il loro bene. La tentazione del paternalismo è molto presente e si può riscontrare, ad esempio, nel linguaggio infantilizzato che talvolta viene usato con le persone anziane. Si ritrova anche nella tendenza a orientare le persone a scegliere i percorsi e le prestazioni che hanno in mente gli operatori, pensando che questa manipolazione nascosta sia “per il loro bene”. Potrebbe anche essere effettivamente così, ma si tratterebbe comunque di un atteggiamento manipolatorio, che comporta, per le persone, l’imposizione di una scelta dall’esterno.

 

In presenza di un declino cognitivo, o di una demenza, si può pensare di raccogliere la volontà delle persone quando sono ancora abbastanza lucide e in grado di esprimersi. Sono documentate esperienze, ad esempio nei servizi di salute mentale, o all’interno di strutture protette, in cui è presente la consapevolezza che, prima o poi, sarà necessario prendere decisioni al posto di una persona che non sarà in grado di esporre lucidamente il proprio parere. Alla luce di tale consapevolezza, la volontà delle persone viene raccolta quando è ancora possibile, in linea con quanto disposto dalle Legge 219/2017 in materia di Disposizioni Anticipate di Trattamento. L’esperienza che si sta formando in ambito sanitario può fornire utili spunti di riflessione anche per i percorsi di cura assistenziale.

 

Assumere una funzione di advocacy

Nelle situazioni di incertezza, in cui sono presenti volontà contrastanti e non è chiaro come agire, gli operatori sociali, in virtù del loro mandato, sono chiamati a stare dalla parte dei più deboli e possono rendersi strumento per dare voce a chi non ha voce, assumendo una funzione di advocacy. Promuovere l’advocacy significa prevedere che nei percorsi di aiuto ci sia qualcuno con il compito esclusivo di incontrare il destinatario di un progetto, di fornirgli informazioni chiare sulla situazione, sui percorsi e sulle procedure, di illustrare le funzioni degli operatori coinvolti, le possibili alternative e di aiutarlo ad esprimere il proprio parere e a rappresentarlo ai professionisti. Se la persona non è in grado di farlo da sola, può farlo al posto suo.

 

In Italia non è presente una grande tradizione sul tema dell’advocacy, le principali esperienze sono state realizzate nell’ambito del lavoro sociale con i minori (Calcaterra, 2014), ma nel lavoro con le persone anziane non è un’esperienza documentata. Forse perché la progettazione dell’assistenza, nell’immaginario collettivo, viene considerata una questione organizzativa, che va semplicemente gestita, in tal senso la locuzione “case manager” è emblematica. Risulta più difficile pensare a questi percorsi come qualcosa che va co-costruito e dove non si può prescindere dal punto di vista dei diretti interessati. Si tratta di un tema aperto, su cui potrebbe essere utile avviare una riflessione approfondita.

Bibliografia

Arlotti, M. (2018), Governance multi-livello e stratificazione viziosa: le politiche per gli anziani non Autosufficienti nel caso italiano, in Autonomie Locali e Servizi Sociali, (1):53-69.

Ayalon, L., Tesch-Römer, C. (2018), Contemporary perspectives on ageism, Springer Nature.

Calcaterra, V. (2014), Il portavoce del minore. Manuale operativo per l’advocacy professionale, Erickson.

Chonody, J. M., Wang, D. (2014), Predicting social work students’ interest in gerontology: Results from an international sample, in Journal of Gerontological Social Work, 57(8):773-789.

Corradini, F. (a cura di) (2021), La vita (e la morte) nelle strutture per anziani durante la pandemia. Una ricerca qualitativa in Emilia-Romagna, Erickson.

Corradini, F., Avancini, G., Raineri, M.L. (2019), Il social work con le persone non autosufficienti. Una ricerca qualitativa sui “casi andati bene”, Erickson.

Corradini, F., Cacopardo, B., Pinto, L., Bertoglio, C. (2021), Invecchiare in tempo di Covid-19: voci da una comunità territoriale della Lombardia, Paper presentato alla XIV Conferenza ESPAnet Italia 2021.

Fabbre, V. D., Buffington, A., Altfeld, S. J., Shier, G. E., Golden, R. L. (2011), Social work and transitions of care: Observations from an intervention for older adults, in Journal of Gerontological Social Work, 54(6): 615-626.

Fitzpatrick, J. M., Tzouvara, V. (2019), Facilitators and inhibitors of transition for older people who have relocated to a long-term care facility: A systematic review, in Health and Social Care in the Community, 27(3):57-81.

Webb, S., Chonody, J., Ranzijn, R., Bryan, J., Owen, M. (2016), A qualitative investigation of gerontological practice: The views of social work and psychology students, faculty, and practitioners, in Gerontology & geriatrics education, 37(4):402-422.

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