30 Novembre 2019 | Professioni

La capacità di fare rete

Una narrazione di senso dell’assistenza domiciliare. Questo è il volume di Fabio Cavallari “La cura è relazione”, di cui pubblichiamo un estratto. Attraverso le parole di operatori, medici, assistenti sociali e soprattutto famiglie, si snoda il racconto di pratiche di accoglienza e di metamorfosi.


Promuove l’autonomia e la valorizzazione delle risorse personali e sociali dei cittadini in condizione di vulnerabilità o di disagio sociale, mettendo in relazione gli utenti con le risorse istituzionali e solidaristiche. L’assistente sociale deve avere tre punti fermi attorno a cui operare: l’utente, la propria organizzazione di appartenenza, il contesto sociale e territoriale in cui opera. Tramite l’analisi e la valutazione dei bisogni espressi dai cittadini, contribuisce alla programmazione delle politiche della propria organizzazione e del proprio territorio. Per esercitare le sue funzioni deve lavorare all’interno di una rete di relazioni che gli permetta di aver presenti le risorse da attivare in favore dei cittadini che ne richiedano l’intervento.

 

La definizione da manuale è quella che formalmente definisce questa professione, che ha iniziato a svilupparsi in Italia a metà circa del XX secolo, giungendo a un primo riconoscimento tra il 1980 e il 1990. Nel 1993 è stato istituito l’Albo Professionale di Stato e dal 2000 sono iniziati i corsi di laurea triennale e specialistica in Scienze del Servizio Sociale. Precisato l’aspetto storico, accademico e formale, rimane da raccontare una professione che nell’immaginario collettivo fatica a essere percepita nel modo corretto. Per svolgere questo ruolo sono necessarie conoscenze teoriche e pratiche che consentano la possibilità di affrontare le diverse realtà con determinazione e prontezza. La letteratura di settore, e con essa i sempre nuovi aggiornamenti che focalizzano l’attenzione sui mutamenti sociali in corso nella nostra società, permettono all’operatore di agire con un grado di consapevolezza sempre più preciso e determinato. L‘obiettivo ultimo dell’assistente sociale, sempre secondo i manuali, è quello di «accrescere il benessere fisico-sociale biopsichico di coloro che hanno bisogno». Se tutto ciò rappresenta il quadro di riferimento entro il quale si iscrive questa figura, appare altrettanto chiaro che accanto a queste capacità e conoscenze teoriche, così come per l’Asa o l’Oss, ciò che caratterizza l’assistente sociale come una figura imprescindibile per l’intero sistema assistenziale è la sua capacità di osservare ogni singola situazione avendo come panorama l’intera mappatura delle opportunità presenti sul territorio.

 

L’assistente sociale: interpretare il bisogno

La capacità di «farsi prossimo all’altro», di reggere le emozioni, di interpretare, richiede una combinazione di competenze che vede il fronte «umanista» come una sua componente essenziale. Ancora una volta tornano in gioco due espressioni che per l’Assistenza domiciliare appaiono ineludibili: empatia umana e vocazione professionale. Senza di esse viene a mancare quel pungolo in grado di promuovere la volontà di cambiamento che ogni situazione cronicizzata, sia sociale che sanitaria, richiede come punto qualificante.

 

L’opera di cura svolta da un assistente sociale deve andare ben oltre quelle che possono definirsi le regole «d’ingaggio», i protocolli standardizzati. La relazione è il fattore attorno a cui tutto il processo di cura ha il suo terreno di confronto. Si potrebbe dire addirittura che la professione stessa vive nel naturale ambito relazionale.

 

Del resto l’assistente sociale è il primo soggetto che la famiglia e la persona bisognosa incontrano sulla loro strada, nel momento in cui comprendono di dover chiedere aiuto.

 

Eveline afferma con particolare enfasi questo aspetto, perché il primo contatto rappresenta davvero il biglietto da visita delle Istituzioni con i propri cittadini. Un’opera di delega che, senza essere sottolineata, determina in maniera stringente anche la possibilità di intervento presso un nucleo familiare.

 

Mi occupo di tutto ciò che riguarda il «sociale» e il campo è davvero ampio e in continua evoluzione. Una cosa però è certa, da un punto di vista istituzionale i primi soggetti che incontrano le situazioni in cui intervenire siamo noi. Lì inizia il lavoro di avvicinamento e conoscenza. Spesso le famiglie che arrivano a chiedere aiuto sono spaventate, stanche, talvolta sfinite da anni in cui hanno cercato di fare tutto da sole. Altre sono inconsapevoli di ciò che stanno vivendo, sfiduciate, al limite. La maggior parte di esse sono spinte da un bisogno ancora senza nome. Comprendono che avrebbero necessità di qualcuno che si prenda carico delle loro esigenze, ma non la sanno declinare. Molte volte non conoscono i Servizi che potrebbero attivarsi, altre vorrebbero ciò che nessuno può dar loro. Non sanno bene cosa chiedere e come muoversi. Solo attraverso una serie di domande, con un tentativo anche approssimativo di conoscenza, si riesce poi a comprendere il quadro complessivo. Il nostro compito prima di tutto è quello di capire, di captare più informazioni possibili, di scardinare anche quel senso di rabbia o di vergogna che talvolta le accompagna. Non si riesce a fare tutto in un incontro, ma dal primo momento si comprende immediatamente l’entità dell’urgenza. Alcune volte mi è capitato di attivare un Servizio seduta stante. Altre volte bisogna riuscire a strutturare assieme alla famiglia un’assistenza che riesca a tener conto di tutti i fattori esposti. La prima cosa che un’assistente sociale deve fare è non dare nulla per scontato. Spesso il bisogno va interpretato proprio da noi.
La persona a colloquio ha già fatto un passo gigantesco, ossia quello di chiedere aiuto, ma la modalità di espressione varia a seconda della cultura, dell’ambito sociale, della sua biografia. Non possiamo aspettarci una richiesta precisa, didascalica e definita. L’utente, se vogliamo usare quest’espressione formale, il più delle volte ha una necessità, ma non è in grado di decodificare la richiesta. Il bisogno reale lo si comprende nel dialogo. Con il tempo poi si riescono a capire anche tutti quegli aspetti che nella prima fase rimangono nell’ombra. Ma stiamo parlando di una fase successiva. Il primo incontro si gioca sulla capacità di interpretare un’esigenza ancora confusa, ma presente. Nel momento in cui si comprende che è necessario un intervento domiciliare, allora i Comuni che hanno accreditato le cooperative con requisiti qualitativi assistenziali e amministrativi pongono il cittadino al cospetto della libera scelta. Non di rado, proprio per stabilire quel contatto, io mi occupo anche di tutto quanto concerne la modulistica indispensabile. Questo può apparire un punto secondario, ma bisogna sempre tenere presente il contesto, lo stato di difficoltà che la persona che abbiamo davanti sta manifestando o sta vivendo, senza palesarlo. Il primo incontro rappresenta il momento della conoscenza, quello in cui si aprono le porte a persone che ancora sono aliene all’intero meccanismo. È il momento del benvenuto, dove la cortesia non è una questione formale, ma sostanza pura. Esattamente come quando si invita un amico nella propria dimora. Non si può fingere che anche una pratica da compilare possa diventare un problema. Cerchiamo di assolvere anche alla burocrazia, cercando di farla gravare il meno possibile sulle spalle dei cittadini. Alla fine il Servizio non lo fanno le tabelle Ise o i protocolli, seppur siano entrambi necessari, ma le persone, gli operatori che si ritrovano vis à vis con il problema. Sono loro i Servizi.

 

Il servizio: costruire l’empatia

Gli interventi dei Comuni sono limitati e, in presenza di un decadimento repentino delle condizioni di salute, spesso non sufficienti a garantire Servizi adeguati. L’assistenza qualificata (Asa e Oss) riesce a coprire maggiormente il bisogno. In alcune situazioni l’Assistenza domiciliare è solo una parte dell’impianto di assistenza complessivo; a essa talvolta si riescono ad aggiungere inserimenti in centri diurni integrati in maniera tale da garantire soprattutto al caregiver la possibilità di staccarsi dal peso dell’assistenza quotidiana. In ogni caso l’abilità dell’assistente sociale, e delle cooperative che si attivano per il Servizio, sta nell’organizzare le presenze cercando di spalmare gli interventi lungo l’arco di una settimana, magari spezzettandoli in più tronconi.

 

Gli appuntamenti fissi sono psicologicamente molto importanti per i nostri utenti. È proprio per questo che cerchiamo sempre di sforare i protocolli e di dividere la presenza degli operatori su più fasi della giornata. Per un anziano con problematiche, ma anche per situazioni di disabilità importante, ci sono alcuni momenti che potremmo chiamare topici: l’alzata e il momento dell’igiene, il pranzo con la possibilità di promuovere un minimo di conversazione, il momento che precede la cena e il momento di andare a letto. Con gli operatori con cui lavoro, con i responsabili delle cooperative, cerco di preservare con particolare attenzione questo aspetto, perché si tratta di una maniera per costruire un legame. Non sempre le condizioni lo permettono, ma quando ci prendiamo carico di una cronicità, che perdura nel tempo ma che è in sostanza stabile, cerchiamo di garantire questa presenza. Un appuntamento fisso quotidiano rappresenta per le persone un modo per emergere da vite spesso confinate in una solitudine senza vie d’uscita, un modo per gestire la giornata, in un tempo bloccato dalla malattia. Le famiglie, anche quelle più problematiche, comprendono subito questo sforzo, perché la presenza è l’unica vera azione che permette di far percepire che qualcuno si sta prendendo cura della persona e del suo nucleo familiare. Una cura che è accoglimento. Così, l’intervento dell’operatore, al netto degli interventi prettamente assistenziali, diventa il pretesto per uno sfogo, per un consiglio, per leggere assieme la prescrizione del medico di base, per prendere un appuntamento per degli esami clinici. Tutto questo accade anche quando entriamo in quei nuclei che hanno un contorno familiare con figli che hanno la loro vita, spesso anche soddisfacente e affermata da un punto di vista professionale. I genitori però faticano sempre a chiedere a loro e quindi, senza un aiuto come quello che cerchiamo di offrire, rischiano di vivere fasi di abbandono. Ciò che è significativo, e in qualche modo anche simbolico per questa era moderna, è la solitudine in cui versano molte famiglie, anche quelle che un tempo non si sarebbero ascritte tra i casi sociali, ma che avrebbero trovato un supporto in maniera naturale. L’operatore, in qualche modo, ricostruisce questa naturalità dei rapporti, un ritorno alle origini, alla terra, a quei momenti essenziali che contraddistinguono una comunità: lo stare assieme, il condividere, il farsi carico dei problemi dell’altro. È chiaro, per costruire quell’empatia che ritorna di continuo nei discorsi ci vuole tempo e anche pazienza.

 

Il lavoro di squadra: la persona la centro

«Attendere», «aspettare», rinviano al latino ex-spectare, rafforzativo di specere, che significa «guardare». L’attesa si fa corpo nello sguardo, perché dentro lo sguardo c’è speranza. L’attesa è il futuro, la costruzione del domani, è la costruzione di una relazione, di un pensiero affettivo. Attraverso l’attesa e la relazione le famiglie riescono a rimettere radici, a ritrovare una dimensione perduta. Ma per far questo è davvero indispensabile che la giornata sia scandita da una ritmicità, da momenti di incontro. Serve insomma un tempo necessario per ambientarsi, ritrovare «casa». E ci vuole pazienza da parte di tutti. Poi non sempre la percezione dell’utente è la medesima di quella dell’operatore, rispetto anche al buon risultato del Servizio. I cambiamenti, che sono il punto di arrivo di molti degli interventi domiciliari, avvengono con lentezza, procedono per piccoli passi. Per monitorare l’andamento dei singoli Servizi periodicamente, l’assistente sociale, quindi i Comuni, e i responsabili delle cooperative fanno un intenso lavoro d’équipe. Lì, si determinano gli obiettivi di base, si pongono in luce le criticità, ci si confronta sul lavoro fatto e quello ancora da compiere. Insomma, è un momento relazionale molto importante che serve per mantenere sempre vigile la capacità di osservazione sul caso specifico. È un lavoro di squadra tra operatori delle cooperative e assistenti sociali, che ha sempre al centro la persona. Talvolta l’Assistenza domiciliare va avanti per anni, in altre situazioni è una tappa intermedia, prima di giungere a un ricovero presso una Rsa. Proprio per questo motivo è fondamentale la costruzione di un rapporto, di un gruppo di lavoro che su più fronti sappia monitorare e comprendere i cambiamenti in atto, le evoluzioni anche sociali delle persone prese in carico.

 

Ogni situazione è davvero differente dall’altra. Proprio per questo il lavoro d’équipe è fondamentale. Non abbiamo mai a che fare con una patologia, ma sempre con persone che hanno un loro vissuto, storie familiari che necessitano di essere comprese. Noi dobbiamo saper valutare e interpretare anche quello che l’assistito, chiamiamolo così, spesso non è più in grado di comunicare. Nelle riunioni con gli operatori spesso ci troviamo a disegnare alcuni percorsi o a ricordare i passi compiuti. Una cosa che non deve mai spaventare è il non riconoscimento iniziale da parte dell’utente. A volte è impossibile, perché parte integrante della patologia. Ricordo un uomo in carrozzina che viveva da solo in una villetta. Un signore distinto, benestante, che aveva occupato ruoli dirigenziali importanti, con una moglie deceduta da qualche anno, molto conosciuta per il suo impegno in ambito sanitario. Ebbene noi siamo arrivati su segnalazione. Lui non solo non riteneva di aver bisogno di aiuto, ma interpretava la nostra presenza come un’ingerenza nella sua vita. Eppure bastava varcare la soglia di casa per capire che quell’uomo viveva in condizioni igieniche deficitarie, sia personali che ambientali. Si faceva fatica a respirare. Era diventato con il tempo un accumulatore seriale. Come in una sorta di venerazione per la moglie, qualsiasi cosa la riguardasse, qualsiasi cosa avesse portato in casa, lui l’aveva trattenuta e poi con il tempo accatastata ovunque. L’abitazione ne era invasa. Lui aveva problematiche sanitarie non lievi, eppure al nostro cospetto cercò in tutti i modi di allontanarci. Ecco, in questo caso, abbiamo dovuto forzare la mano. Mangiava solo cibi surgelati, con la cucina fuori uso, il riscaldamento e la luce assenti. Eppure per lui la casa era perfetta. In questi casi si comprende davvero cosa vuole dire «rispetto per la persona». C’è poca retorica in questa affermazione, perché quando capitano situazioni simili bisogna cercare davvero di giocare d’equilibrio. L’intervento è necessario e quindi in qualche maniera bisogna essere in grado di andare contro la volontà della persona, allo stesso tempo non va mai persa di vista la necessità di preservare la dignità umana. Gli approcci di avvicinamento richiedono cautela, la capacità di accogliere ciò che non può essere accolto. In queste situazioni, visto che stiamo parlando di patologie che assumono forme psichiche, l’aiuto può essere limitato all’ambiente di vita. Poi, quando il decadimento fisico si accentua, allora l’avvicinamento diventa più semplice: anche in quel caso è avvenuto così. Solo quando lui ha percepito la necessità di un aiuto, solo quando le condizioni di salute lo hanno messo alle strette, ha allentato tutte le riserve e le protezioni. Solo in quel momento siamo riusciti a convincerlo ad andare in una Rsa per un mese al fine di bonificare l’appartamento. Ma per lui è stato come subire una ferita, come se lo avessimo depredato. Il sistema dell’accumulo rappresenta uno stato depressivo di sofferenza elevata, di abbandono. Gli oggetti sono un’estensione di lui. Nel suo caso, coincidono con la figura della moglie, che aveva amato e che cercava di preservare, come se il tempo si fosse fermato. Toccare tutta quella «roba» era come invadere la sua intimità.

 

Interventi difficili come quello raccontato fanno il paio con le numerose soddisfazioni nelle quali l’arricchimento si manifesta per entrambi le parti. Eppure anche quelli in cui il rapporto umano non si riesce a costruire e le condizioni sono talmente complicate per cui bisogna fermarsi sulla soglia, la presenza di operatori e assistenti sociali diventa l’unica possibilità anche solo per morire con dignità, come per Aurelio, un uomo anziano con problematiche di deambulazione e decadimento cognitivo. La richiesta di Assistenza domiciliare era giunta dal figlio che dovendo lavorare non riusciva più a prendersi cura del padre. Il Servizio, dopo il primo contatto, è partito subito. Gli operatori hanno iniziato a verificare le condizioni dell’uomo, cercando di costruire un percorso di cura. Come spesso accade, però, entrando in casa sono emerse in maniera evidente tutte le ambiguità della situazione, quelle storture che a prima vista nessuno di noi aveva potuto notare. Aurelio non solo aveva bisogno di un’assistenza sanitaria, ma anche di una cura per l’igiene personale, che appariva deteriorata, sino all’attenzione per l’ambiente domestico, che giaceva in una sorta di incuria. Così, mentre dall’esterno si scorgeva una bella abitazione su due piani, appena vi si entrava ci si accorgeva di una situazione la cui drammaticità è poi emersa nel giro di pochissimi giorni. Le operatrici hanno iniziato a capire che non vi erano cibi in cucina, che l’uomo stava in un letto con lenzuola non lavate da tempo e soprattutto che attorno a lui giravano persone, probabilmente amici del figlio, che paradossalmente non si erano neppure accorti della sua presenza. Aurelio viveva, di fatto, prigioniero in una casa che aveva costruito con i propri risparmi, privo di qualsiasi attenzione familiare degna di questo nome. Dopo i primi interventi delle operatrici, le segnalazioni sono aumentate sino a raggiungere la soglia di guardia. Aurelio praticamente non mangiava, nessuno si preoccupava di somministrargli le medicine o di prestargli la più piccola attenzione. In men che non si dica, quando i Servizi hanno compreso cosa stava accadendo, è stato attivato il servizio pasti, si sono allertate le associazioni di volontariato che si occupano di portare sollievo anche con beni di prima necessità, come lenzuola e prodotti per la casa. Il figlio cercava scuse di ogni tipo per giustificare le assenze imputategli, sino quando una mattina le operatrici hanno trovato Aurelio a letto con i guanti, perché anche il riscaldamento era stato staccato per morosità. A quel punto, assistente sociale e cooperativa hanno dovuto agire con imperio, contattando l’assistente sociale dell’ospedale e il suo direttore perché prendessero in carico l’uomo, seppure le sue condizioni di salute non presentassero una gravità immediata. Di fatto risultò che il figlio spendeva tutta la pensione del padre per problematiche legate alla sua dipendenza. Allora si è trovata una struttura che lo potesse accogliere, facendo in modo di assegnargli un amministratore di sostegno. Sfortuna ha voluto che proprio il giorno della sentenza Aurelio è morto, ma nel frattempo, seppur nei limiti del possibile, gli è stata riconsegnata una dignità che negli ultimi anni aveva perso. Senza quel prezioso lavoro degli operatori, anche la morte avrebbe assunto un significato e una forma differenti.

 

Non meno di altre storie, anche questa conserva un senso profondo dell’umano e al contempo pone in evidenza come in talune situazioni sia indispensabile il lavoro d’équipe, il coordinamento, la conoscenza del territorio e delle Istituzioni.

 

Estratto dal volume di Fabio Cavallari, La cura è relazione, Lindau, Torino, 2018.

Ringraziamo l’editore e l’autore per averci consentito di pubblicare questo estratto.

 

Foto di jerryzhuca da Pixabay

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