7 Dicembre 2022 | Professioni

Luoghi e spazi di cura: la storia della psichiatria può insegnarci qualcosa?

A qualunque età e in qualunque condizione, gli spazi di vita rivestono una funzione essenziale per la costruzione e il mantenimento dell’identità, il senso di sicurezza e del “sentirsi a casa”, il benessere psicofisico, l’equilibrio fra intimità e socialità, la risposta ai bisogni di protezione, crescita e cura. Il contributo di Fabrizio Asioli analizza limiti e opportunità di luoghi e spazi di cura emersi nella storia della psichiatria, proponendoli quali spunti di riflessione utili e trasversali ad altri ambiti di assistenza alle persone, specie se anziane.

Luoghi e spazi di cura: la storia della psichiatria può insegnarci qualcosa?

Il mondo abitato viene costruito per essere ospitale. Lo spazio dell’abitare si caratterizza, non solo ma soprattutto, per il dentro e per la garanzia che offre di agio e di intimità. L’abitare è finalizzato a rendere più adeguato e comodo l’ambiente di vita, anche se questa prospettiva non è priva di contraddizioni e l’uomo ha saputo costruire veri e propri mostri quali sono le megalopoli di oggi.

 

Gli spazi della cura, fra importanza e criticità

Perché lo spazio è così importante anche in sanità? (Mallgrave, 2015). “Lo è in ragione della nostra mente e del nostro corpo, di come ci siamo evoluti nei millenni. Noi ci percepiamo in uno spazio, sviluppiamo, anche rispetto agli spazi, una “empatia” che non è un sentimento lieve, ma è un evento emotivo che caratterizza il nostro rapporto con il mondo” (Geddes da Filicaia, 2020). Gli spazi della cura possono avere un potere rigenerativo e contribuire, attraverso molteplici elementi, alla salute dei pazienti, con influenze dirette e indirette (Bellini, Setola, 2020); sono fortemente caratterizzati da “ciò che si fa” al loro interno, cioè dagli scopi – quindi dalla tipologia – della cura. Sul tema non mancano dilemmi, problemi e contraddizioni. La persona ammalata è più fragile, quindi avrebbe un particolare bisogno di ospitalità. Ma di quale tipo? Dove è più opportuno curare? Dentro o fuori i luoghi della vita quotidiana? In ospedale, in strutture apposite o a casa del paziente? La medicina alle sue origini si recava a casa dell’ammalato e il medico assicurava la sua presenza al letto di chi stava male, nell’ambiente della vita normale. Data la mancanza, all’epoca, di rimedi efficaci, ciò almeno permetteva al paziente di non soffrire anche per l’espropriazione del sentimento di sicurezza garantito dalla famigliarità dei luoghi della sua vita.

 

Lo straordinario sviluppo delle opportunità terapeutiche e delle tecniche curative hanno radicalmente stravolto questa visione e in gran parte risolto il dilemma del dove sia più opportuno curare. Oggi certe cure – forse la maggioranza – possono essere offerte, obbligatoriamente, solo in un luogo ad alta complessità tecnologica qual è l’ospedale o in pochi altri luoghi, dedicati. La casa del paziente e l’ambulatorio del medico di famiglia si sono trasformati in spazi di incontro, occasionali e abbastanza diradati, sempre più connotati da aspetti burocratici e – purtroppo – anche dalla marginalità della cura. Nell’istituzione ospedaliera, e più in generale nei luoghi di ricovero, la “componente alberghiera” -come dagli addetti ai lavori viene definita, in modo riduttivo, l’ospitalità – passa in secondo piano, perché ci si concentra principalmente sulla prestazione di cura che viene offerta, e solo sull’aspetto, certo importante, dell’ospitalità formale: quella alberghiera, appunto. Tuttavia esiste un’ulteriore componente, sotterranea ma sempre più valorizzata, che riguarda la parte emotiva che caratterizza ogni forma di ospitalità, inclusa quella che viene (o dovrebbe essere) offerta al paziente ricoverato.

 

Oggi in medicina, questo aspetto del prendersi cura viene correntemente incluso nel concetto di care, in opposizione a un altro termine sempre inglese, cure, col quale ci si riferisce invece alla parte della prestazione unicamente tecnica (magari anche di alta tecnologia). Ci stiamo sempre più accorgendo che la complessità del prendersi cura passa attraverso la capacità di occuparsi non solo della malattia, ma anche della persona ammalata. Ciò vale a maggior ragione nelle situazioni in cui la cura non esiste o non è risolutiva, cioè in tutte quelle condizioni in cui il processo di malattia si caratterizza per una sua persistenza nel tempo, per una evoluzione verso la cronicità e per tempi più lunghi (a volte, senza termine) della permanenza del paziente all’interno di strutture sanitarie.

 

Contenitori o contenuti?

Se si allontana lo sguardo dall’ospedale, luogo con caratteristiche fortemente connotate verso la massima specificità, e si osserva la “periferia” del sistema sanitario1, le caratteristiche di questi contenitori dell’assistenza sono spesso dettate dalla casualità e da una certa aspecificità: ciò vale in particolare per i pazienti mentali, per gli anziani e, più in generale, per molti pazienti cronici. In realtà, se si guarda meglio alla specificità degli spazi di cura ospedalieri, si capisce che questa è molto più centrata sulle necessità della medicina che non sui bisogni dei pazienti. Un esempio abbastanza eccezionale, in passato, è stato quello dei sanatori, costruiti per contribuire a debellare la tubercolosi. Sono stati forse l’unico luogo di cura la cui tipologia ambientale (spazi ben aerati ed esposti al sole) e la cui collocazione (fuori dalla città, in ambienti salubri) è stata decisamente orientata ai bisogni dei pazienti.

 

Oggi i luoghi di cura appaiono molto centrati sull’aspetto del contenitore (e del contenere), con scarso peso rispetto ai “contenuti”, cioè a ciò che si intende realizzarvi dentro. Ciò avviene anche nell’ospedale generale, dove – almeno in apparenza – è piuttosto chiaro il peso determinante esercitato dalla funzione che viene svolta nei suoi diversi spazi di cura (praticare interventi chirurgici, valutare pazienti acuti, compiere esami radiologici, fare oculistica, etc.). In realtà questo obiettivo si realizza attraverso un “fraintendimento” dei contenuti. Appare infatti molto più chiaro come si intenda operare tecnicamente, cioè quale funzione tecnica ci si proponga di svolgere in quello spazio, piuttosto che cosa (e in che modo) si abbia intenzione di fare per il paziente, cioè quale tipo di care si intenda offrirgli e in che modo ci si proponga di prendersi cura anche di lui e della sua esistenza, oltre a garantirgli una prestazione squisitamente medico-chirurgica (Asioli, 2019). A questo proposito va segnalato il caso, che rappresenta una lodevole eccezione, degli hospice, dove l’attenzione alle esigenze del paziente risulta decisamente prevalente.

 

Antinomie, incertezze e dubbi

Questa antinomia fra contenitori (di sofferenza) versus ambienti (di cura) e il quesito su quale sia la scelta più opportuna da compiere è un reale dilemma, forse – e per più di un elemento – non facilmente componibile. Se infatti nella scelta si privilegia il primo aspetto (essere un contenitore della sofferenza), il luogo assume immediatamente un’importanza prevalente rispetto alle persone: diviene un elemento condizionante, più rigido, meno permeabile ai bisogni dei pazienti, con una netta frattura fra interno ed esterno e una separazione degli ambienti, delle persone, fra le persone, e così via. Conosciamo bene le conseguenze di questo tipo di scelta, di cui esistono molti esempi in psichiatria (il più clamoroso è stato quello dei manicomi) ma anche in campo geriatrico, soprattutto in alcuni luoghi di cura per gli anziani, le RSA. “Lo spazio fisico ben disegnato assume un connotato terapeutico di rilancio del progetto di vita; al contrario, messaggi di contenimento di uno spazio istituzionale, porta al disinteresse, alla demotivazione e alla solitudine che affollano tanti anonimi soggiorni” (Guaita, 2008).

 

Quando si intende dare valore all’aspetto del prendersi cura della persona, il luogo necessariamente si propone aperto: ai problemi, ai bisogni, alle persone e alle relazioni. Risulta pertanto molto individualizzato, in quanto centrato sui bisogni del singolo. Tuttavia in una struttura che agisca secondo questo orientamento si presentano sempre difficoltà nel suo funzionamento in una direzione sufficientemente unitaria e senza eccessive parcellizzazioni. Questa almeno la lezione che si ricava in particolare dalle esperienze antipsichiatriche, ad esempio quelle realizzate da Ronald Laing in Gran Bretagna (Forti, 1975), in piccole comunità in grado di ospitare non più di 3-4 pazienti, collocate in appartamenti residenziali, molto centrate sui bisogni degli ospiti, con una vita interna più simile a quella di una casa-famiglia che a una struttura di cura, e un funzionamento piuttosto libero, a volte senza regole precise. Tali strutture risultavano molto attrattive per i pazienti (in minor misura per il personale che vi operava) e hanno avuto vita breve per svariate ragioni, non ultime quelle di tipo gestionale ed economico.

 

Interruzione o continuità della vita normale?

Esistono alcuni elementi che possono aiutare a orientarsi in questa complessità. Un primo fattore discriminante da prendere in considerazione riguarda la gravità della malattia. L’evento di una malattia severa – quindi non una malattia modesta e intercorrente, ma una di quelle capaci di fare vivere al paziente l’insight di “essere un animale braccato” – sembra meritare, dal punto di vista della cura e nell’interesse del paziente, un distacco, una protezione e una interruzione del normale corso della vita. Sebbene queste misure tendano a sottolineare la gravità dell’evento, drammatizzandolo anche dal punto di vista relazionale e sociale, questa scelta permette una più completa care del paziente, che viene favorita proprio anche da questo suo allontanamento da attività e preoccupazioni quotidiane. Al contrario, per tutte le malattie che non abbiano la caratteristica di cui si è detto, la cura più adeguata (ed efficace) è senza dubbio quella che viene erogata nella prospettiva di “normalità”, di continuità (seppure relativa) dell’esistenza del paziente, il più possibile negli spazi della sua vita quotidiana.

 

Le malattie severe – fortunatamente non sempre – possono avere anche un andamento che si prolunga nel tempo, possono cioè diventare croniche. In queste situazioni un ulteriore problema che si pone è cosa sia più opportuno fare e come sia meglio operare per non passivizzare e far regredire il paziente (rischi insiti in qualsiasi forma di assistenza intensiva e/o prolungata), e per reintrodurre il mondo e le persone “esterne” negli spazi e nei modi della vita quotidiana e relazionale del paziente e della comunità di cura (Lang M., 1982). In questo caso non ci sono dubbi né sulla collocazione ambientale più idonea (meglio in area urbana piuttosto che in luoghi isolati), né sull’architettura più appropriata della struttura (più simile a una casa che a un ambiente sanitario). Gli spazi (interni ed esterni) di qualsiasi residenza di questo tipo non sono in grado di avere alcuna valenza terapeutica, se non consentono una prosecuzione o un rilancio di un progetto di vita del singolo paziente.

 

Un secondo criterio orientativo riguarda l’eventuale non autosufficienza del malato, ulteriore aspetto problematico che può accompagnare i pazienti con malattie croniche, in particolare se anziani. In questo caso la protezione da offrire, per risultare adeguata, deve essere in grado di vicariare la disabilità finché questa è presente. Talora questa condizione si mantiene per tutta l’esistenza del paziente e può addirittura progressivamente aggravarsi. Alti livelli di disabilità degli utenti sono una variabile in grado di condizionare in modo marcato l’assistenza residenziale agli anziani e la sua qualità.

 

Mentre i pazienti autonomi hanno soprattutto bisogno di relazioni e di spazi normali per vivere (o riprendere a vivere), coloro che non sono autosufficienti propongono non solo la necessità di specifiche tipologie di care, ma anche un personale curante in grado di offrire agli ospiti relazioni di qualità. Queste ultime sono particolarmente complesse da realizzare perché rivolte a persone che, spesso, presentano anche importanti deficit proprio sul versante relazionale. D’altronde, laddove la tecnologia medica non è ancora in grado di risolvere i problemi di cui sono affetti i pazienti (come nel caso delle persone con demenza), può essere messa in campo solo un’altra “tecnologia”, quella umana. Utilizzare questa tecnologia – che si fonda sulle capacità affettive, relazionali, di prendersi cura – richiede preparazione (attraverso processi formativi sistematici) e manutenzione. Infatti anche la tecnologia umana è soggetta a usura (in particolare di tipo emotivo) e va protetta attraverso iniziative di sostegno.

 

Una riflessione conclusiva

Alle considerazioni proposte in precedenza va infine aggiunto un ulteriore aspetto fondamentale ma troppo spesso dimenticato (o sacrificato alle necessità dei bilanci economici), che prescinde dalla tipologia della struttura, dalle sue finalità, dai bisogni e dalle caratteristiche dei pazienti, e che riguarda il numero delle persone ospitate, in rapporto con la dotazione di personale e la tipologia degli spazi.

 

Come insegna la drammatica storia degli ospedali psichiatrici prima e, in tempi successivi, anche quella delle strutture residenziali per pazienti psichiatrici gravi del dopo riforma (de Girolamo, et al., 2005), un numero eccessivo di ospiti limita o addirittura ostacola qualsiasi iniziativa di cura, al di là delle migliori intenzioni, delle finalità dichiarate e della disponibilità del personale di assistenza. Il sovraffollamento degli spazi, l’eccessiva concentrazione di pazienti, l’eterogeneità dei loro bisogni sono fattori destinati a compromettere qualsiasi lavoro rivolto alla personalizzazione dell’accoglienza e delle cure, perché l’individualizzazione degli interventi e la piena attenzione al singolo paziente risultano in queste condizioni impraticabili.

Note

  1. Periferia non intesa (si badi bene!) come luogo/luoghi meno importanti nell’assistenza dei pazienti, ma come strutture in cui la cure non è al centro dell’operatività.

Bibliografia

Asioli F. (2019), La relazione di cura. Difficoltà e crisi del rapporto medico-paziente, Franco Angeli.
Bellini E., Setola N. (2020), L’umanizzazione degli spazi ospedalieri: il ruolo dell’arte e dell’architettura, in Diana E., Geddes da Filicaia M., Setola N., a cura di, AI-Care. Arte, identità e cura. Gli spazi pubblici dell’ospedale di Santa Maria Nuova, Edizioni Polistampa.
de Girolamo G., Picardi A., Santone G., Falloon I., Morosini P., Fioritti A., Micciolo R. for the Progres Group (2005), The severely mentally ill in residential facilities: a national survey in Italy, in Psychological Medicine, 35: 421-431.
Forti L., a cura di (1975), L’altra pazzia. Mappa antologica della psichiatria alternativa, Feltrinelli.
Geddes da Filicaia M. (2020), Spazio, cura e salute. Perché lo spazio è importante in sanità, in Progetto Forward, rivista on line de Il Pensiero Scientifico Editore.
Guaita A. (2008), Costruire una RSA: uno spazio di cura e di vita dove superare la logica del posto letto, in Giumelli G., a cura di, Spazi. Materiali di approfondimento, Il Melangolo.
Lang M., a cura di (1982), Strutture intermedie in psichiatria, Raffaello Cortina Editore.
Mallgrave H.F. (2015), L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore.

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