Quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, la risposta “sono educatrice in un reparto Alzheimer” fa spesso storcere il naso e, nel tempo, mi ha permesso di registrare i commenti più svariati:
“In che senso?”
“Oddio, poverina!”
“Chi te lo fa fare?”
“Che brava, sei ‘na santa”
“Ma c’è ancora qualcosa che si può fare con queste persone?”.
E potrei andare avanti a lungo…
In realtà mi rendo conto che il “sentire comune” è abbastanza negativo rispetto al concetto di demenza. Non voglio certo dire che “avere l’Alzheimer” sia una cosa positiva, ci mancherebbe. È importante però sottolineare sempre che una diagnosi di demenza non significa per forza la fine di tutto. Lo definirei piuttosto un nuovo percorso di vita, lento, doloroso, diverso, alle volte drammatico ma sempre di vita si tratta. Ed è proprio durante questa amara deviazione che si possono incontrare anche persone che hanno la voglia, le capacità, l’entusiasmo di prenderti per mano e sussurrarti “se vuoi ti posso accompagnare per un pezzetto di strada”.
Esiste una giornata tipo in un Nucleo Demenze?
La giornata tipo in un reparto per persone affette da demenza non esiste. Nel senso che ogni giorno è diverso dall’altro, è difficile generalizzare. La cosa positiva è che non ci si annoia mai; quella negativa è legata all’incertezza, alla difficoltà di rispettare un programma. Questo non significa però che non ci siano delle routine, anzi le abitudini sono fortemente consigliate perché danno conforto e sicurezza ai pazienti. Tuttavia, è necessario armarsi di uno strumento indispensabile per chi lavora in questo settore, la flessibilità.
Quando siamo nel salone delle visite, dopo un caffè e quattro chiacchiere con il proprio caro, i familiari si apprestano a tornare alle loro vite, quelle fuori, “all’esterno” e, mentre mi riconsegnano il paziente tormentati dai sensi di colpa o arrabbiati1chiedono “Cosa avete in programma oggi?”. La risposta che mi verrebbe da dire è “non lo so, vediamo come evolve la giornata…decido al momento”, ma ho capito che questo non è quello che vogliono sentirsi dire i parenti. L’incertezza destabilizza. Invece bisogna dare certezze e rassicurare queste persone, vittime anche loro della malattia e bisognose di attenzioni. Quindi rispondo che “oggi è previsto un laboratorio creativo” anche se non sono sicura se riuscirò a farlo. Mi piacerebbe certo, ma non sempre è la giornata giusta.
Arrivare al mattino e avere una scaletta strutturata di attività da seguire sarebbe fonte di conforto per tutti gli operatori che lavorano nei nuclei Alzheimer ma in questi reparti la quotidianità è sempre imprevedibile ed è necessario rimettere continuamente in discussione il programma di lavoro. Abbiamo a disposizione uno zaino pieno di attività stimolanti o rilassanti o divertenti e ogni giorno entriamo in reparto, ci guardiamo intorno, facciamo due chiacchiere, ci mettiamo in ascolto e solo allora decidiamo di infilare le mani nel nostro zaino per “pescare” la proposta più adatta2.
La mattina in un reparto Alzheimer
Striscio il badge per entrare in nucleo alle 9.00 in punto, la porta automatica si apre e si richiude dopo pochi secondi, sul display appare il mio nome. Il lungo corridoio è ben illuminato da grandi finestre che danno su un giardino interno che, con qualche intervento (quelli che si fanno in primavera), potrebbe diventare utile per delle stimolanti attività ma è febbraio, non si può pretendere, nessuno esce da mesi tranne la signora Lucia che lo usa per fumare la sua sigaretta delle 10.00. Già a vedere quei cespugli irregolari, l’erba intorpidita, qualche stelo secco nei vasetti di terracotta mi viene una sorta di avvilimento e penso, come ogni giorno, che dovrei fare qualcosa per quel giardino. Ma è febbraio, ripeto, fa ancora freddo.
A dicembre ci avevo provato, ero uscita con la giacca pesante e i guanti da lavoro, non sono brava in giardinaggio ma ci provo, mi piace. Appena fuori mi ero messa a dare una spazzata, non mi ero accorta che dietro c’erano già due signore in pigiama, una era scalza, l’altra con le pantofole. Ho mollato tutto, spaventata e le ho riaccompagnate dentro, per fortuna non hanno opposto resistenza. Ma com’è che le persone con l’Alzheimer non sentono il freddo o il caldo? Oppure lo sentono ma non sanno come dirtelo. Ad ogni modo la scopa è ancora là, appoggiata al muro e sembra che ogni tanto mi chiami ma io non l’ascolto. Non sono più uscita. Ogni mattina soffoco i miei progetti bucolici, aspettando la primavera.
Due podiste mi vengono incontro, una energica e allegra, l’altra imbronciata. Il wandering3è un disturbo del comportamento molto frequente nella demenza. Le persone camminano all’infinito, apparentemente senza una meta. Di norma cerchiamo di dare uno spazio protetto a chi ha questa esigenza perché costringerle a fermarsi non è una buona idea. L’unica cosa che si consiglia di fare in questi casi è creare dei “distrattori” per permettano di catturare l’attenzione della persona e darle un po’ di riposo, visto che da sola non riesce a prenderselo. Nel nostro nucleo, per esempio, oltre alle grandi vetrate, c’è una galleria d’arte dove sono appese le opere più belle realizzate dagli ospiti, c’è una panchina morbida e qualche poltroncina qua e là.
Saluto le due podiste che mi accolgono quella mattina. Una l’abbraccio perché me lo permette, l’altra invece mi scansa infastidita. Non faccio nulla per loro perché sono solo le 9.00 e c’è ancora tanta strada da percorrere. Cercheremo di distrarle solo quando le vedremo stanche. Continuo ad avanzare in corridoio. A metà c’è un tavolino tondo con delle sedie addossato ad una porta finestra. Anche quello vuole essere un distrattore. La signora Galante sta facendo colazione proprio là, caffelatte in una ciotola giallo paglierino e fette biscottate con marmellata di fragole. È lenta a mangiare, le lasciano il suo tempo. Tra un boccone e l’altro guarda fuori, ci sono degli uccellini che planano sul prato e cinguettano tra loro, lei fa un cenno col mento, bofonchia qualcosa e riprende a mangiare. Non la disturbo e passo oltre.
Sento urlare “Giuseppe che stai facendo, no!”
Il signor Masiero è convinto che ogni angolo sia un buon posto per fare pipì, la fa letteralmente ovunque. Abbiamo tappezzato il reparto di cartelli e frecce ma non c’è verso. Una corpulenta operatrice lo richiama e lo accompagna in bagno. Lo sappiamo tutti che riprendere una persona malata di demenza non serve a niente ma alle volte uno ha bisogno di alzare i toni per sé stesso.
“Se non ti ricordi dov’è il bagno me lo devi chiedere e io te lo mostro” dice la donna che è in grado di ritrovare la calma in un lampo “hai capito?”. Giuseppe le risponde di sì, ha capito ma la maggior parte delle volte se lo scorda. Intanto nell’angolo a sinistra in fondo al corridoio c’è una bella chiazza gialla. La signora Toscani c’è seduta proprio di fronte e la guarda schifata.
La saluto “Buongiorno Francesca, come va stamattina?”
“È uno schifo…hai visto quello?” mi risponde.
Le dico che l’ho visto, che bisogna avere pazienza, che non lo fa apposta. Non sembra convinta.
“Certa gente bisognaria coparla da piccola” sentenzia.
Io guardo l’ora, sono già le 9.30 e non sono nemmeno arrivata in fondo al corridoio. Fuori dal nucleo c’è un programma dettagliato che ormai nessuno guarda più. È là, dove dovrebbe essere, nel caso in cui si fosse a corto di idee.
Dalle 9.00 alle 9.30: attività motoria dolce. Il fisioterapista sospira e sorride. Mi chiede come va mentre cerca di convincere Maria ad andare in palestra.
“Niente ginnastica di gruppo oggi, non è giornata” mi dice.
Intanto la signora Maria lo sta adulando.
“Che bel moretto che se”. Lo guarda con occhi languidi e lui ne approfitta per farsi seguire. Il fascino non lascia indifferenti nemmeno a 80 anni.
Dalle 9.30 alle 10.00: merenda. Un carrello pieno di tazze, tovagliolini, biscotti, yogurt, budini alla vaniglia, bricchi di tè e caffè, succhi addensati esce rumoroso dalla cucina e comincia la sua lenta risalita, fermandosi ad ogni mano tesa. L’operatore sa chi può bere cosa. Il signor Bianchi è disfagico, niente liquidi per lui. Le signore Guzzo e Beltrame hanno il diabete, solo biscotti speciali e caffè amaro. Tuttavia, la domanda è sempre la stessa.
“Cosa le posso offrire oggi?”
La trovo una richiesta tenera a chi comunque non può scegliere.
Le mie attività cominciano verso le 10.00, dopo il giro merende. Di solito a quell’ora sono già tutti lavati, vestiti, profumati e con la pancia piena. La mattina è il momento migliore per far “lavorare” gli ospiti. La sala comune è piena, qualcuno sonnecchia, probabilmente ha fatto “baldoria” stanotte. Voglio proporre un gioco stimolante che si chiama Allena…mente. L’ho copiato da un centro diurno che abbiamo visitato anni fa. Ho impiegato diversi mesi a prepararlo e adattarlo ai nostri ospiti che sono decisamente più gravi di quelli che frequentano i gruppi Alzheimer del territorio e vivono ancora a casa. In pratica è un grande pannello di compensato, cinque caselle per riga, otto righe in tutto. Ogni casella è staccabile e contiene una consegna: dimmi il tuo nome, fai una faccia arrabbiata, alza la mano destra, fai finta di lavarti i denti, cose così. E per chi ha perso l’uso della parola, c’è sempre una bella canzone. Una delle caselle più apprezzate è quella della stimolazione sensoriale. Ho preparato un sacchetto con degli oggetti dentro e la persona deve infilare la mano e dire cos’è, soltanto toccando l’oggetto. Oppure abbiamo tanti piccoli vasetti di vetro che contengono odori come caffè, menta, basilico, ecc. I concorrenti devono annusare con gli occhi chiusi e indovinare cosa c’è nel vasetto. Di solito è divertente, migliora l’umore e la socialità. Una volta, lo racconto sempre, ho fatto annusare dei chiodi di garofano e la signora si è illuminata: “Vin brulè” ha gridato contenta.
Per scegliere la casella c’è un grosso dado di gommapiuma. Le persone lo lanciano, è come una specie di gioco dell’oca. Usiamo una molletta da bucato di legno per segnare i posti nel tabellone. Faccio un lungo respiro per caricarmi e comincio a presentare l’attività. Dispongo le sedie in cerchio e intanto parlo dell’importanza di fare esercizio non solo per il corpo ma anche per la mente. Accenno a timide giustificazioni sul fatto che per alcuni il gioco potrebbe sembrare infantile o troppo facile. Chiedo di avere pazienza per le persone più in difficoltà. “Così possono giocare tutti” dico. Nel nostro gruppo ci sono vari livelli di demenza, ci sono pazienti che hanno una riserva intellettiva tale da permette loro di reagire agli stimoli in maniera sorprendente. Altre invece faticano a dire qualche parola di senso. Per far partecipare più persone possibili è importante questa premessa, si chiede comprensione a chi è ancora capace, nella speranza che non si sentano sviliti da attività troppo banali. Devo ammettere che trovo sempre una risposta molto comprensiva.
Io non ho bisogno di presentarmi al gruppo, possono rivolgermi la stessa domanda un milione di volte, succede che non si ricordano cosa hanno fatto un minuto prima ma incredibilmente sembrano sapere chi sono. Alcuni mi chiamano quella della bella musica, per altri sono la ragazza4che mette i film o quella che legge le storie. Sanno a chi chiedere quando hanno fame o se devono andare in bagno. Per il signor Marino lo psicologo del reparto è un suo collega di lavoro, per un altro è il ragazzo che lo ascolta. Mi stupiscono sempre questi riconoscimenti.
Nell’attesa che cominci l’attività metto qualche canzone. Domenico Modugno o Luciano Taglioli sono una garanzia. Nel frattempo, giro per il reparto in cerca di partecipanti. Trovo la signora Vilma accartocciata nella sua sedia a rotelle. È una socievole Vilma, so che le piacciono queste cose. La invito a partecipare. L’accompagno ma quando arrivo nella sala comune metà delle persone se n’è andata. Ricomincio a cercarle, sembro un cane da tartufo. Quando il gruppo è ricomposto, parto di nuovo con la mia solita, identica, super rodata presentazione. Raccolgo approvazioni dal mio pubblico.
“Si dai” mi dicono.
Mi guardo intorno. Qualcuno è già sparito di nuovo. Va bene cominciamo, chi c’è, c’è. Ma dov’è il dado? Eppure, sono sicura che c’era.
“Arrivo subito… qualcuno ha visto il dado? Quello rosso, grande, dai!”.
Nessuno sa niente. La signora Degasperi è un’altra podista, è più lenta delle altre ma cammina che è un piacere. Ha anche il vizio di prendere tutto quello che trova in giro. Me la vedo passare accanto, mi sorride, è una donna davvero a modo. Dalla maglia le spunta una protuberanza sospetta. La guardo e capisco che è passata dalla sala comune. Istintivamente le alzo il maglione. Lei si acciglia, si ritrae indignata, tenta di schiaffeggiarmi una mano. Come mi sono permessa? Che dilettante, dopo tanti anni faccio ancora questi errori grossolani.
La lascio andare avanti qualche passo e poi la raggiungo, la saluto con garbo, le parlo piano, le accarezzo una mano, le sorrido e lei torna ad essere la signora gentile di prima.
“Sei sempre un amore tu” mi dice.
Poi la guardo meravigliata. “Mah, che cos’hai qua?” le chiedo e lei mi permette di toccarla, per fortuna.
Le alzo di nuovo la maglia. “Ecco dov’era! Grazie infinite lo stavo proprio cercando, se vuoi lo metto a posto io così tu sei più libera” dico.
È fatta, il dado è di nuovo nelle mie mani. Vittoriosa mi precipito nella sala comune. Tengo il dado in alto, sulla testa come fosse un trofeo ma del gruppo di prima non è rimasto che qualche elemento.
Sono le 10.38. Una signora mi tira la maglia.
“Puoi chiamare mia figlia?” chiede.
Provo a distrarla, le dico che la figlia è al lavoro, le propongo di fare un gioco con noi tutti insieme.
“Tutti chi?” risponde.. “qua non c’è nessuno, sono sola, mi hanno abbandonato”, e comincia a piangere.
Allora prendo una sedia e mi siedo accanto a lei. La consolo e l’ascolto, non ha bisogno d’altro, finché non ci ritroviamo a parlare di come si prepara un ragù fatto bene. Il pensiero del suo ragù la rasserena ma sono ormai le 10.54.
I pazienti sono sparpagliati in giro per il reparto. Qualcuno brontola, qualcun altro dorme, uno mi chiede cosa facciamo adesso.
“Usciamo a prendere un caffè” rispondo. Si leva un coro di entusiasmo. Vogliono venire tutti. Guardo gli operatori con occhi supplichevoli. Da sola non ce la posso fare. Rispondono in due.
“Veniamo noi”, mi dicono. Così la ciurma parte lenta e compatta. Si esce dal nucleo, in direzione del salone centrale della RSA. Ora che non c’è più l’emergenza Covid si può fare. Prendiamo per tutti un decaffeinato macchiato alle macchinette. Lo trovano buonissimo, qualcuno ci infila le dita e se le lecca soddisfatto.
“Che bello qui” mi dice la signora Francesca, “ci venivo da piccola ma allora non c’era niente”. Annuisco complice.
C’è un’atmosfera distesa, ci sono riviste e libri e un po’ di musica di sottofondo. Facce nuove da salutare con affetto.
Alle 11.20 rientriamo. Tra poco arriverà il carrello con il pranzo. Gli ospiti cominciano ad avere fame.
“Cosa hai fatto stamattina?” mi chiede un collega.
“Niente” rispondo e sono sicura che non mi giudicherà.
Il pomeriggio in un reparto Alzheimer
Il pomeriggio in un reparto Alzheimer è più complicato. Alcuni ospiti fanno un riposino perché non riescono a stare alzati tutto il giorno. Altri invece non ne vogliono sapere di andare a letto e si innervosiscono, sono stanchi e richiestivi. E poi, molto spesso aumenta l’ansia, una irrequietezza che al mattino si fa sentire di meno. Il nostro programma prevede un caffè caldo dopo pranzo, un po’ di musica rilassante, la lettura ad alta voce. Leggere è un’attività semplice che ha un sacco di vantaggi. Quindi, a quelli che mi passano accanto, propongo un buon libro, un bel racconto. è utile leggere con i bambini, con gli anziani e anche con i malati di Alzheimer. Ogni pubblico ha le sue esigenze, ognuno ha i propri gusti che è importante conoscere e ai quali bisogna adattarsi.
Se il livello di attenzione di un anziano per questo genere di attività è di solito piuttosto basso, quello di una persona con demenza è spesso ridotto ai minimi termini. Hanno altro a cui pensare queste menti annebbiate, sono altre le preoccupazioni a cui dare ascolto. Eppure, quando si riesce a catturare la loro attenzione, la lettura può aprire mondi inimmaginabili. Leggere emoziona, diverte, commuove, può distrarre dal male di vivere. Basta un luogo tranquillo e silenzioso, una poltrona confortevole e una voce accogliente che sappia raccontare la storia giusta. La difficoltà sta tutta lì, nella giusta storia. Negli anni ho letto di tutto: classici come Pinocchio o Favole al telefono di Rodari, poesie, filastrocche in dialetto, ricette, la lista della spesa. Ho persino cominciato a scrivere racconti brevi attingendo al passato delle persone che ascoltavano le storie: ho creato storie di drammi familiari presi dai loro racconti senza avere l’attenzione che speravo. Poi un giorno, una collega psicoterapeuta mi ha suggerito di provare a raccontare la loro quotidianità.
La prima storia che ho scritto (box 1) parla di una donna che dimentica sempre le chiavi, un grande classico, quasi quanto il continuo desiderio di tornare a casa. Mentre leggevo notai cenni di approvazione tra le signore.
“Questa è come me” commentò Adele alla fine.
Mi si riempì il cuore di orgoglio, si erano riconosciute. L’attività di lettura ad alta voce può riempire il tempo di un’oretta al massimo ma mi piace pensare che abbia il potere di lasciare comunque una scia di benessere. Alle volte la vedo ed è tangibile, altre volte evapora rapidamente.
“E adesso cosa facciamo?” chiede Lucia ad ogni alito di vento.
“Cosa facciamo, cosa facciamo, cosa facciamo, cosa ci fai fare”, ripete ininterrottamente. E se non le rispondi subito ti dà della maleducata.
Alle 16.00 è prevista una merenda ma sono le 15.15 e abbiamo appena finito di leggere, devo lasciarli tranquilli, non posso stressarli con una proposta dietro l’altra. Verso le 15.30 comincia ad arrivare qualche familiare. Accompagno il sig. Marini nel salone delle visite è un po’ agitato, non capisce bene dove lo sto portando, mi rimprovera e fa resistenza mentre Adele, la signora che l’ha scelto come marito da quando è arrivata mesi fa, si arrabbia con me.
“Dove lo stai portando?”, mi chiede aggressiva “non vedi che non vuole!” In effetti il sig. Marini punta i piedi e comincia ad urlare. Gli sussurro all’orecchio che sua moglie lo sta aspettando, non voglio che Adele mi senta.
“Mia moglie?!”, risponde lui confuso e a voce altissima.
Adele naturalmente lo sente e parte alla carica. Tenta di allontanarmi aggressiva, mi schiaffeggia le mani per liberare la carrozzina del suo amato.
“Lascialo stare, lascialo”, continua a ripetere.
Poi lo accarezza protettiva e lui sembra apprezzare. Mi accascio in una sedia in attesa che si calmino le acque. Il pericolo che l’agitazione si propaghi a tutto il nucleo è in agguato. Intanto Adele spinge il suo uomo lontano da me. Li seguo con lo sguardo. Ad alcuni il siparietto non li ha lasciati indifferenti.
“Quella è cattiva” mi dice Maria.
“Per caso hai visto mia mamma?” interviene Francesca “siamo venute insieme ed ora non la vedo più”.
Sento che le cose mi stanno sfuggendo di mano. Alle volte l’ansia si diffonde come un virus, invisibile e rapidissima e i malati di demenza sembrano accoglierla a braccia aperte, senza protezioni. Nei reparti Alzheimer ci vorrebbe un vaccino anche contro l’angoscia altrui ma questo rimedio non è ancora stato inventato e, quindi, bisogna arrangiarsi con quello che si ha. E cosa abbiamo noi operatori per affrontare questa malattia? Forse la consapevolezza dell’estrema sensibilità di questi pazienti, la prontezza di intervenire prima che la situazione degeneri e ancora una volta l’autocontrollo, la calma, un sorriso… nonostante tutto.
E allora sorrido, dai. Sorrido al primo sguardo che mi capita di incrociare. È Lucia.
“Cosa facciamo? Cosa facciamo? Cosa mi fai fare?”
Passo oltre, sorrido al secondo sguardo che incontro.
“Signorina” mi dice con voce rotta “mi aiuti, voglio andare a casa”.
Ecco, penso, oggi non me l’aveva chiesto ancora nessuno.
Dal centralino arriva una chiamata.
“C’è la moglie di Marini qui che lo sta aspettando”… mi guardo intorno, la coppia è sparita.
Li trovo in fondo al corridoio che confabulano. Chiedo aiuto ad un operatore che riesce a distrarre Adele in qualche modo e io ne approfitto per rapire il suo “amore”. Non posso farli uscire insieme, la moglie, quella vera, non è ancora pronta ad accettare la situazione. Non le interessa che Adele abbia una demenza frontotemporale che avanza in modo dirompente. Non sono affari suoi. Lei è venuta a trovare suo marito, sono sposati da 40 anni, da lei non si può pretendere nient’altro.
Striscio il badge, le porte si aprono, la moglie, quella vera, è lì. Lui la riconosce e tutto passa.
“Ecco la mia bambina” le dice.
Quando rientro trovo Adele imbronciata che sgranocchia un biscotto. Le chiedo come va.
“Non c’è male, grazie” mi risponde, e per fortuna non sa dare un nome alla sua irrequietezza.
Dopo la merenda, ci raccogliamo nella sala comune. I movimenti sono più lenti adesso. Decido di proporre qualcosa che di solito apprezzano. Accendo la tv e sullo schermo appare Claudio Villa in bianco e nero che canta a squarciagola Un amore così grande. Dopo Villa arriva Pavarotti, Milva, Gigliola Cinguetti. Il gruppo si perde in dolci ricordi. Gli occhi luccicano, qualcuno canta con parole precise che chissà da dove vengono. La signora Berardi con i suoi fuseaux maculati e un’agilità invidiabile comincia a ballare. Tra una canzone e l’altra chiacchieriamo del passato. È piacevole, gli animi si distendono. La signora Lucia non la smette di chiedere che cosa facciamo mentre stiamo facendo qualcosa. Pazienza!
Il pomeriggio passa così. Quando spengo lo schermo il mio pubblico è stanco. La sindrome del tramonto è dietro l’angolo. Cerco di “farle lo sgambetto” trascinando il gruppo nelle sedie vicino allo stereo. È l’ora del Rosario. Attacco con la mia storiella che il parroco mi ha dato il solenne incarico di dire le preghiere della sera. Io non sono cattolica ma il Rosario per questa generazione di anziani è una salvezza, un porto sicuro, è come una meditazione, solo che a loro non serve un maestro. Fanno tutto da soli. Inserisco il cd e li aiuto a sedersi. Non a tutti piace ma la maggior parte apprezza. Lo facciamo quasi tutte le sere, prima della cena. Le labbra si muovono rapide e sapienti. Io mi allontano in punta dei piedi, non saluto mai prima di uscire, ho paura che mi chiedano “dove vai?” e io non saprei che rispondere. Non voglio usare la parola casa, l’innominabile, è troppo dolorosa.
Spesso mi metto a pensare a come può essere vivere h24 con un marito, un fratello, una mamma che soffre di demenza. Mi capita di dare consigli ai parenti ma non riesco nemmeno ad immaginare quanto sia difficile gestirne la quotidianità, aggiunta a una vita che nella maggior parte dei casi è già parecchio complessa di suo. Credo che i famigliari siano degli eroi dei nostri tempi di cui nessuno si accorge.
Note
- non tutti, ovviamente, perché alcuni sono gentili e comprensivi e ringraziano sempre
- In questi anni ho letto molto sulla demenza: manuali, testi pratici, punti di vista differenti, approcci innovativi, metodi sperimentali. Eppure, sento sempre il bisogno di giustificarmi perché non esiste una formula magica che funziona per tutti. Ogni volta è diverso, ogni persona è speciale e unica, ognuno ha la propria personalissima demenza e con questa incertezza dobbiamo fare i conti quotidianamente.
- vagabondaggio
- ((vorrei sottolineare che ho 47 anni)