22 Gennaio 2024 | Professioni

L’apporto specifico dell’educatore professionale nel lavoro con gli anziani

La vita negli istituti residenziali per anziani è generalmente caratterizzata da una elevata attenzione sanitaria e assistenziale, mentre rischia di rimanere sullo sfondo la premura per tutte quelle dimensioni della vita, afferenti all’autodeterminazione ed alla socialità, che hanno un ruolo importante nella percezione di una esistenza di qualità. L’articolo focalizza lo specifico apporto dell’educatore professionale in servizio presso le residenze per anziani, all’interno dell’equipe multidisciplinare.


Diversi sono i fattori, principalmente di tipo sanitario e familiare, che influenzano la qualità di vita nell’età senile. Nel corso dell’invecchiamento, la persona è chiamata ad affrontare una serie di cambiamenti generati da un corpo che degenera e spesso ha bisogno di cure, un corpo che non si riconosce come proprio, che costringe ad assumere nuove abitudini proprio quando la stessa senescenza rende difficile l’adattamento alle novità. Si tratta di una fase della vita in cui si è spesso chiamati anche ad affrontare cambiamenti nel contesto famigliare, in particolare quando muore il coniuge.

 

Giungere alla terza e alla quarta età in buona salute e con il supporto dei famigliari, può consentire di mantenere uno stile di vita con aspetti di continuità con gli anni passati, alimentando sicurezza e benessere per la persona anziana. Diversamente, la comparsa di patologie fisiche e mentali, la perdita del coniuge o una condizione di solitudine possono diventare importanti fattori di fragilità che influenzano negativamente la qualità di vita e che rendono spesso necessari interventi specialistici che, seppur contenitivi della situazione di rischio, segnano una discontinuità importante con il percorso precedente.

 

Nonostante l’attuale politica di domiciliarizzazione dei servizi tenti di arginare il ricorso alle strutture residenziali, sociosanitarie o socioassistenziali, molte sono le famiglie che devono rivolgersi alle strutture protette chiedendo l’accoglienza di un proprio familiare fragile.

 

 

L’educatore professionale nei contesti residenziali per anziani: le aspettative sul ruolo

Nei contesti residenziali per anziani, nel corso degli anni, la figura dell’educatore professionale è stata sottoposta ad una progressiva ridefinizione identitaria che ancora oggi non si è conclusa. Evoluzione della figura dell’animatore sociale (o socioeducativo) presente fin dagli anni ’90, nell’immaginario collettivo l’educatore professionale è stato qualificato come un intrattenitore, un promotore di relazioni sociali e di attività per le persone che vivono all’interno delle strutture, anziani per lo più autosufficienti che occupano le giornate a giocare a tombola e a fare lavoretti manuali. Tuttavia, le politiche sociali a sostegno della domiciliarità anche in età avanzata, la disgregazione delle reti famigliari di supporto e la diffusione di fragilità psichiche hanno mutato l’utenza dei servizi residenziali: oggi, le persone accolte negli istituti quasi sempre mostrano diversi tipi di limitazioni (fisiche, mentali e sociali), sono più anziane e meno autosufficienti di quelle presenti ad inizio secolo.

 

 

Tale mutamento ha visto contrarsi gli spazi delle “attività tradizionali” cui si dedicava l’educatore professionale, costringendolo a ripensare il proprio ruolo: difficile, però, trovare uno spazio operativo proprio tra prestazioni assistenziali e sanitarie di competenza di altre professioni (infermieri, OSS), che sono numericamente più rappresentate e più strutturate nell’immaginario collettivo. È dunque comprensibile la confusione identitaria che ne è derivata, resa manifesta in declinazioni del ruolo molto diverse a seconda dei contesti operativi: di animatore, caratterizzato dall’incessante proposta di attività ludiche come risposta ad ogni richiesta; di impiegato, ineccepibile nella rendicontazione burocratica; di assistente, “tappa buchi” delle necessità organizzative; di clinico, quasi a “ripararsi” sotto l’ombrello di altre professioni storicamente consolidate.

 

Alla definizione identitaria della professione ha dato un contributo rilevante il Regolamento recante norme per l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’educatore professionale (D.M. 8 ottobre 1998, n. 520), delineando un perimetro operativo però poco applicabile ai contesti residenziali per anziani.

 

La cura educativa

Una categoria utile a definire lo specifico apporto degli educatori professionali nei contesti residenziali per anziani è quello della cura pedagogicamente intesa. Mortari (2017) spiega questa declinazione della cura come “dedizione all’essere dell’altro”, caratterizzata dall’intenzione di procurare beneficio e di favorire il “poter divenire” delle persone a cui ci si rivolge.

 

Ci sono tempi della vita, come l’infanzia, la malattia, la vecchiaia, in cui l’essere umano è particolarmente fragile perché non è nella condizione di aver cura di sé e, perciò, è vulnerabile in quanto esposto all’azione degli altri che possono decidere al suo posto (Mortari, 2017). È in quei momenti, quando la cura sanitaria ed assistenziale rischia di perdere di vista la globalità della persona e di ridurla ad un “oggetto da curare”, che si attualizza in tutta la sua pregnanza il contributo degli educatori: aver cura educativa è prendere a cuore, preoccuparsi, avere premura (Mortari, 2006). Si tratta di una cura che si esplica in una pluralità di modi, da quelli più relazionali (ascolto attivo ed empatico, sostegno emotivo, essere presenti in una “distante prossimità”, dosando delicatezza e fermezza) ad altri più materiali come l’attenzione agli elementi che interessano e danno gratificazione all’anziano, che rendono più accogliente ed accessibile il contesto residenziale, anche attraverso le tecnologie di comunicazione.

 

In questa prospettiva, è possibile inscrivere l’apporto degli educatori nell’ambito delle medical humanities, cioè all’interno di quell’approccio interdisciplinare attento all’umanizzazione delle cure, a partire dai vissuti che accompagnano l’esperienza di malattia e la perdita di autonomia (Tesauro, 2012; Cole et al, 2015).

 

La cura educativa richiede l’esercizio di alcune virtù etiche che Mortari analizza approfonditamente nei suoi scritti. Ai fini di questo articolo, è utile richiamarne due. La prima è “avere rispetto” in modo da consentire all’anziano di «esser-ci a partire da sé e secondo il suo modo di essere. In altre parole: tenere l’altro trascendente rispetto a me, conservare l’altro irriducibile rispetto al mio modo di essere e di pensare» (Mortari, 2017). Il rispetto si declina operativamente attraverso due modalità: comprendere i pensieri e le emozioni, i timori e i desideri dell’altro, e da questa alterità lasciarsi interrogare; l’altra è impedire che le categorie sanitarie, usate per definire la condizione clinica, siano l’unico elemento di rappresentazione della persona.

 

La seconda istanza deontologica mutuata da Mortari è quella del coraggio: la cura educativa richiede il coraggio di fronteggiare le situazioni che provocano inutili sofferenze o trascuratezza; questo potrebbe verificarsi sia nei confronti del personale che assiste l’anziano, oppure con i famigliari. Si è capaci di parresia, cioè di franchezza, quando «si è optato per una postura responsabile nei confronti dell’altro e coraggiosa verso chi ha il potere di decidere la qualità della vita» (Mortari, 2017).

 

Gli aspetti di valore da presidiare

Un gruppo di ricerca, costituito su iniziativa del Comitato Tecnico Scientifico dell’Associazione Nazionale Educatori Professionali (ANEP), si è recentemente confrontato su quali siano gli elementi di valore da presidiare educativamente nei contesti residenziali per anziani, in particolare quelli che rischiano di essere disattesi dall’elevato impegno assistenziale (Pasqualotto et al, 2023). È stato condiviso che anche una vita avviata alla sua conclusione abbia un “valore esistenziale” che deve essere riconosciuto e coltivato: si tratta di un tema etico, politico ed educativo insieme.

 

La cura delle persone anziane accolte in istituto è questione etica perché incrocia uno degli elementi qualificanti dei diritti umani: l’autodeterminazione, fondamentale per una vita dignitosa (Baratella, Littamè, 2009). La ricerca della massima autonomia possibile, anche in presenza di demenza, implica consentire ai residenti di prendere decisioni riguardo la propria vita, a partire dalle piccole cose della quotidianità, di rispettare le loro scelte, anche se potrebbero essere diverse da quelle che gli operatori o i familiari ritengono essere nel loro miglior interesse (fatta salva l’incolumità). Non secondariamente, è rilevante sotto il profilo etico il rispetto della privacy e dell’intimità, quando il corpo rischia di diventare un oggetto del minutaggio assistenziale.

 

Il valore dell’ultima parte dell’esistenza è pure tema politico, perché riguarda quella visione di società tollerante e solidale ben delineata dall’art. 3 della Costituzione Italiana; infine, è di interesse educativo nel momento in cui si afferma la necessità di “coltivare” sempre la persona nella sua evoluzione biografica, tanto sugli aspetti operativi (apprendimenti, abilità), quanto su quelli immateriali come la connessione tra il proprio passato ed il presente, tra il mondo interno (cognitivo ed emotivo) e quello della struttura residenziale, con propri ritmi, vincoli e persone. Anche per coloro che rinunciano volontariamente alla vita indipendente, si tratta di operare sul piano psicoeducativo affinché la percezione della propria esistenza non si frammenti in relazioni e luoghi privi di continuità tra loro. A questo riguardo, l’apporto dell’educatore professionale può essere efficacemente rappresentato come azione di tessitura, che raccoglie, riconosce, riconnette i fili dell’esistenza della persona anziana e li compone in un tessuto narrativo che accoglie la differenza dal vero non come bugia, ma come tentativo di dare significato esistenziale coerente ai propri ricordi (Tesauro, 2013; Demetrio, 1996).

 

La qualità della vita secondo la prospettiva educativa

La qualità della vita (QoL) è un tema molto esibito a tutti i livelli del sistema socioassistenziale e sociosanitario, ma è così ampio da rischiare di essere facilmente interpretato. Si può fare riferimento ai servizi alberghieri delle strutture residenziali (es. confort degli spazi, qualità del vitto), ma anche all’assistenza fornita, oppure si possono considerare aspetti più immateriali, come l’attenzione all’anziano e la qualità delle relazioni interpersonali. Di certo la QoL non può essere ridotta alla salute fisica e mentale, sebbene concorra a determinarla, come ha chiarito l’Organizzazione Mondiale della Sanità offrendo una più ampia definizione della salute, in chiave biopsicosociale. La stessa OMS ha definito un modello di Quality of Life (WHOQOL, 1995), che però ha il limite di enfatizzare la percezione soggettiva del benessere, a scapito di elementi oggettivi che consentirebbero di definire interventi atti a promuoverla.

 

Partendo da una rassegna della letteratura internazionale e incrociando le esperienze professionali attraverso il metodo del consenso (Jones, 1995), il gruppo di ricerca ANEP ha individuato cinque elementi di valore per una vita di qualità in istituto, che possono essere oggetto di valutazione e progettazione finalizzata al loro miglioramento (Pasqualotto et al, 2023). Di seguito sono brevemente riassunti:

  1. Autodeterminazione: libertà e autonomia sono elementi qualificanti la vita di ogni persona, che si esprimono nella quotidianità come manifestazioni della propria volontà. Per coloro che dispongono di bassi livelli di capacità nell’autodeterminazione di ciò che vogliono essere e fare, è necessario trovare ogni modalità organizzativo-gestionale che eviti di innescare processi di istituzionalizzazione spersonalizzante;
  2. Comunicazione: La possibilità di comunicare, per esercitare l’autodeterminazione e per entrare in relazione con gli altri e con l’ambiente di vita, è una priorità da coltivare in ogni modo, anche attraverso dispositivi di comunicazione non verbale;
  3. Relazioni e Inclusione sociale: ogni persona è un essere sociale, che si nutre di relazioni di appartenenza fin dalla nascita; tale bisogno non viene meno con il passare dell’età e neppure in presenza di gravi deficit cognitivi. Occorre impegno affinché i luoghi della cura non diventino “luoghi speciali”, chiusi al territorio, possibilmente valorizzando ciò che anche le persone fragili possono portare alla società;
  4. Benessere fisico: l’essere in vita ed in salute sono condizioni necessarie ma non sufficienti per una vita di qualità. L’attenzione si rivolge pertanto a quei determinanti del benessere fisico che sono non solo riconducibili ai bisogni di base, cui provvedono gli operatori sociosanitari, ma anche dall’esperienza del sé corporeo costituita da motricità e pulsioni;
  5. Benessere emotivo e spirituale: l’esistenza si qualifica sul piano biografico, nel suo svolgersi nel tempo, attraverso esperienze gratificanti durante le quali esercitare le abilità disponibili o apprendendone di nuove, attraverso piccole azioni di cura, dei propri spazi di vita e degli altri: si tratta di elementi che alimentano autostima e motivazione. Anche la possibilità di coltivare la dimensione spirituale contribuisce a questa esperienza di benessere.

 

Conclusioni

In questo breve contributo si è proposto un modello che individua cinque elementi di valore da garantire per una vita di qualità degli anziani accolti nelle strutture residenziali. Nell’esercizio della sua professione e del ruolo specifico all’interno delle residenze per anziani, l’educatore è chiamato a presidiare tali aspetti, secondo una postura che è stata definita come “cura educativa” e che si inscrive nel più ampio ambito delle Medical Humanities.

 

Infatti, non è sufficiente la dedizione ai bisogni assistenziali e sanitari per accompagnare in modo dignitoso la persona verso la conclusione della sua esistenza, ma occorre aver a cuore la persona nella sua globalità. Tale impegno, però, non può essere riconosciuto soltanto dagli educatori professionali, ma richiede di essere condiviso da tutte le professioni dell’équipe, secondo uno stile operativo che trova la sua emblematica espressione nelle modalità di relazione quotidiana con gli anziani e tra gli stessi operatori.

Bibliografia

Baratella P., Littamè E. (2009), I diritti delle persone con disabilità. Dalla Convenzione Internazionale ONU alle buone pratiche, ed Erickson.

Cole T.N., Carlin R.S., Carson R.A. (2015), Medical Humanities: an introduction, Cambridge University Press.

Demetrio D. (1996), Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Milano: Raffaello Cortina.

Jones, J. (1995), Qualitative Research: Consensus methods for medical and health services research, in BMJ, 311-376. doi:https://doi.org/10.1136/bmj.311.7001.376

Mortari L. (2006), La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori.

Mortari L. (2017). Educatori e lavoro di cura, in Pedagogia Oggi, 91-105.

Pasqualotto L., Salvatore E., Tassi N., Scarpetta M., Mignani E., Valenta M.L. (2023), ICF-VR: uno strumento di valutazione e progettazione educativa per persone anziane o con disabilità accolte in residenze sociosanitarie e socioassistenziali, in Educare.it, 23(7), 20-33.

Tesauro (2013), La narrazione come pratica di attivazione nelle strutture residenziali, ARACNE Editrice.

WHOQOL (1995), The world health organization quality of life assessment, in Social science and medicine, 41(10).

 

 

Riferimenti normativi

Ministero della Sanità (1998), Decreto 8 ottobre n. 520, Regolamento recante norme per l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’educatore professionale, ai sensi dell’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502.

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