1 Agosto 2004 | Strumenti e approcci

L’arte di conversare col paziente afasico

L'arte di conversare con il paziente afasico

In questo articolo affronto il problema dei pazienti afasici ricoverati in fase postacuta dopo un ictus. Il personale sanitario e assistenziale spesso non è specificamente preparato a relazionarsi con loro e ne consegue che le interazioni sono gestite in modo spontaneistico, senza un modello di riferimento. L’obiettivo del presente articolo è di fornire uno strumento pratico e un riferimento teorico che permettano agli operatori di arricchire ogni interazione della vita quotidiana di una valenza terapeutica: lo strumento è l’Approccio Conversazionale (AC), il riferimento teorico è il Conversazionalismo.

 

Gli obiettivi e i risultati

L’obiettivo cui tende l’AC è la felicità conversazionale. A seconda della gravità del danno, una conversazione felice potrà essere più o meno comunicativa, cioè le parole del paziente saranno più o meno in grado di trasmettere un messaggio comprensibile dal punto di vista semantico e le parole dell’interlocutore saranno più o meno comprese dal paziente nel loro significato. In ogni caso in una conversazione felice avviene un regolare alternarsi dei turni di parola, dal paziente al conversante, poi dal conversante al paziente e così via. Dapprima uno parla, così come riesce, e l’altro tace e ascolta, poi parla il secondo e il primo tace. La conversazione è comunque ordinata, senza sovrapposizioni, senza imposizioni né giudizi.

 

Lo scopo è di stare uno di fronte all’altro, uno in presenza dell’altro, uno insieme all’altro, a scambiare delle parole, accettandole così come vengono prodotte. In questo modo il paziente afasico si sente accettato nonostante il grave deficit e incoraggiato a parlare senza timore di sbagliare. Si sente riconosciuto come un interlocutore ancora valido e valorizzato come persona. Nella mia esperienza questo risultato si accompagna ad altri risultati aggiuntivi non trascurabili: il paziente aumenta la produzione verbale, riscopre il piacere dell’uso della parola (anche se la parola è malata) e ottiene migliori risultati dalle sedute di logopedia. Inoltre le reazioni depressive, molto frequenti dopo un ictus, diventano meno frequenti e si risolvono più rapidamente.

 

L’Approccio Conversazionale (AC)

L’approccio che propongo è concepito in modo che possa essere utilizzato da tutti gli operatori (li chiamerò “conversanti”) che incontrano i pazienti afasici nelle istituzioni geriatriche o sul territorio. Penso ai medici e, soprattutto, agli infermieri che hanno continue occasioni d’incontro con i pazienti durante il giorno e la notte, ma anche agli altri operatori, come i terapisti della riabilitazione e gli assistenti sociali che, pur svolgendo attività specifiche con altre finalità, si trovano nella condizione di interagire verbalmente con persone che hanno disturbi del linguaggio.

 

Quando utilizzare l’AC

Durante lo svolgimento delle attività assistenziali e durante gli incontri occasionali che capitano nella vita quotidiana si potranno verificare le situazioni più varie, dall’aiuto nelle pratiche di igiene personale, alla somministrazione di farmaci, alle sedute di fisioterapia, fino all’incontro fortuito in corridoio. In ogni caso l’operatore adeguatamente formato potrà utilizzare l’AC.

 

Il riferimento teorico dell’AC

Il problema da cui sono partito è: come si possono trasformare tutte le occasioni di incontro e di possibile scambio verbale col paziente afasico in occasione terapeutica? Come è possibile fare in modo che le parole del medico, dell’infermiere, del terapista della riabilitazione, diventino uno strumento terapeutico? Ovviamente non è sufficiente fare attenzione solo alle parole (malate o assenti) del paziente afasico. Bisogna porre attenzione anche alle parole del conversante.
Per risolvere questo problema mi è stato utile fare riferimento al Conversazionalismo di Giampaolo Lai, che già ho utilizzato per un approccio conversazionale con altri pazienti con difficoltà di linguaggio, i malati Alzheimer.

 

Le tre fasi della conversazione

La conversazione si può scomporre idealmente in tre fasi, così come ogni incontro tra due persone: la fase sociale di apertura, la fase centrale, la fase sociale di conclusione. Si tratta evidentemente di uno schematismo che serve a scopo descrittivo, ma la realizzazione pratica deve invece essere flessibile e adattarsi alla situazione del momento. È comunque sempre importante fare attenzione ai primi momenti e alle prime parole di ogni incontro.

La fase sociale di apertura

Quando l’operatore incontra il paziente afasico per la prima volta, lo saluta e si presenta secondo le comuni regole di cortesia. Guardare negli occhi il paziente e allungare la mano in segno di saluto sono di solito i primi gesti che permettono di stabilire il contatto e di manifestare la disponibilità alla conversazione in modo comprensibile anche ai pazienti con grave deficit di comprensione. I pazienti afasici post-ictus, però, hanno spesso un’emiparesi destra che ostacola la comune stretta di mano. In questi casi è necessario adattare l’abituale gesto del saluto alla situazione concreta, calibrandolo in base alle effettive possibilità di risposta del paziente. Di volta in volta si potrà scegliere se utilizzare comunque la mano destra, stringendo con la propria quella paretica del paziente, oppure salutare incrociando le mani di sinistra, oppure aiutarsi nel gesto utilizzando entrambe le mani.

 

Questa prima fase è importante per la buona riuscita dell’incontro. Nelle relazioni normali della vita quotidiana siamo abituati a effettuarla in modo automatico, praticamente al di fuori del campo della consapevolezza. Con i pazienti afasici invece, se non si pone particolare attenzione a questa fase, essa viene saltata o effettuata in modo inadeguato, con la conseguenza che la relazione viene impostata in modo improprio fin dall’inizio e il successivo svolgimento dell’incontro risulta meno soddisfacente. Gli obblighi frenetici della vita quotidiana tendono ad ostacolare questo primo e fondamentale momento. Ciascuno cercherà di adattarsi al meglio, sapendo che un minuto perso per una buona presentazione ne farà risparmiare molti di più nel seguito delle attività assistenziali.

 

La fase centrale

La fase centrale della conversazione si basa su due principi che ho già citato:

  • far leva sulle capacità residue di comprensione ed espressione verbale del paziente
  • avere come obiettivo la felicità conversazionale piuttosto che il recupero delle funzioni deficitarie.

 

Per adeguarmi a questi principi conduco le conversazioni seguendo cinque regole pratiche:

  1. Aprire la conversazione in modo che il paziente parli e parli in modo felice: Nella mia esperienza spesso il paziente si sente rassicurato e parla più volentieri se fin dall’inizio faccio un chiaro cenno alla sua difficoltà di parola. Se il paziente è in grado di capire gli dico qualcosa del tipo: “So che lei ha difficoltà a parlare, ma proviamo lo stesso, cercheremo di cavarcela il meglio possibile”. Oppure: “Se lei non riesce a parlare parlerò io. Se lei ci riesce solo in parte mi sforzerò di capire quello che mi vuole dire”. Se il paziente ha un deficit grave di comprensione verbale cerco di farmi capire anche con i gesti. Per esempio alludo alla difficoltà di parola avvicinando il mio dito indice alla bocca e facendo cenno di no col capo.
  2. Rispettare l’alternanza dei turni: Talvolta, presi dalla foga di comunicare o impazienti per le difficoltà incontrate dal paziente ad esprimersi, siamo tentati a interromperlo e a sovrapporre le nostre parole ai suoi tentativi di espressione verbale. È invece molto importante attendere che il paziente abbia finito di parlare o di tentare di parlare, prima di prendere a nostra volta la parola. Chi proverà a far propria questa regola si accorgerà di quanto sia utile per favorire una buona conversazione. D’altra parte se ci addestriamo a condurre la conversazione in modo consapevole, tenendo presente questa regola fondamentale, possiamo imparare a capire quando è il momento di parlare e quando è invece il momento di ascoltare. Da parte sua anche l’afasico grave conserva questa capacità di riconoscere e rispettare l’alternanza dei turni di parola
  3. Rispettare il silenzio: La conversazione con i pazienti afasici è speso punteggiata da pause. Il paziente fa fatica a parlare, ha bisogno di tempo (qualche secondo) per cercare e trovare le parole, ha bisogno di tempo per riposarsi dallo sforzo mentale. Ho constatato che rispettando queste pause la conversazione poi prosegue meglio, più a lungo e in modo più felice. Naturalmente queste pause non devono essere troppo lunghe perché possono creare imbarazzo. Il conversante può di volta in volta scegliere quando prendere, o riprendere, la parola in modo da favorire un buon clima conversazionale
  4. Non occuparsi degli errori linguistici: Ogni errore comporta una frustrazione. Il doverlo ammettere rattrista il paziente e tende a ridurre la sua iniziativa. Il paziente spesso per paura di sbagliare evita completamente di parlare, rinuncia addirittura a fare dei tentativi di utilizzare il linguaggio verbale e si rifugia nel linguaggio non verbale o rinuncia completamente a comunicare. Il mio scopo invece è di tenere comunque viva la conversazione, indipendentemente dagli errori. La conversazione può diventare un gioco fine a se stesso, purché resti viva e felice
  5. Restituire un feed-back: Quando riusciamo a capire le parole del paziente è facile restituirgli con le nostre parole, mediante una frase semplice, sintetica e ben costruita, quello che abbiamo capito del suo dire. Qualche volta, se il disturbo espressivo è più grave, può essere difficile. In questi casi possiamo procedere per tentativi, provando a dire quello che ci sembra di aver capito e chiedendo conferma al paziente. Se il paziente ci fa intendere di non essere stato compreso faremo un altro tentativo. Realizzeremo così un clima di alleanza terapeutica in cui noi cercheremo di capire e il paziente cercherà di dirci se ci siamo riusciti oppure no. In questo modo siamo noi a sbagliare o a riuscire, non il paziente. Nei casi più complicati e deficitari, di fronte a un reiterato fallimento, questa situazione talvolta si conclude con una risata di entrambi gli interolocutori. Paziente e conversante si trovano alla pari nel riconoscere una incompetenza comunicativa e in questa parità ritrovata si minimizza la frustrazione provocata dal disturbo afasico.

 

La fase sociale di congedo

È molto importante concludere la conversazione con un successo piuttosto che con un fallimento. Cerco di evitare di spingere la conversazione fin dove il paziente non riesce a capirla o ad esprimersi. Faccio in modo di concluderla in un momento in cui tra i due interlocutori c’è un’intesa attraverso le parole, se possibile riassumendo quanto è stato detto con quelle parole che già sono state comprese. Il congedo vero e proprio, infine, è costituito dal saluto. Esso avviene, come all’inizio, utilizzando i modi della consuetudine sociale.

 

L’approccio conversazionale e i familiari

La storia naturale del paziente afasico post-ictus è costituita da tre fasi: la fase acuta in ospedale, quella postacuta in ambiente riabilitativo e quella del reinserimento (quando possibile) nella vita familiare e sociale con la stabilizzazione dell’handicap. Mentre le prime due durano alcune settimane, la terza è la più lunga, dura anni e coincide con la durata stessa della vita. Quasi tutti gli sforzi della ricerca si concentrano sulle prime due fasi. Ne consegue che pazienti, familiari e caregiver si trovano a dover affrontare in solitudine i problemi cronici che derivano dal disturbo afasico. Per tale motivo ho sperimentato, a partire dal 1998, un gruppo educazionale rivolto ai pazienti colpiti da ictus ed ai loro parenti di riferimento per preparare e accompagnare il reinserimento al domicilio. Utilizzando l’AC con i pazienti afasici presenti, essi hanno potuto partecipare utilmente al lavoro di gruppo. Partendo da quella esperienza mi sono reso conto che l’AC, tramite un’adeguata formazione dei familiari e dei caregiver, può risultare utile per migliorare la qualità di vita sia dei familiari che dei pazienti.

 

Considerazioni conclusive

In questo articolo ho descritto un nuovo approccio al paziente afasico post-ictus: l’Approccio Conversazionale (AC). Il metodo fa leva sulle capacità residue di comprensione ed espressione verbale del paziente ed ha come obiettivo la felicità conversazionale piuttosto che il recupero delle funzioni deficitarie. Può essere utilizzato da tutti gli operatori e dai familiari durante gli abituali incontri della vita quotidiana. I risultati attesi sono diversi dal recupero delle funzioni linguistiche e di comunicazione verbale, essi hanno piuttosto a che vedere con la qualità della vita e con la qualità delle relazioni tra i pazienti e i caregiver. Un eventuale vantaggio riguardo al recupero delle funzioni del linguaggio verbale è da considerare un vantaggio aggiuntivo.

Bibliografia

Sulle afasie

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Marangolo P., Basso A. (1986), La valutazione dei disturbi del linguaggio. In: Carlomagno S. a cura di (1986), La valutazione del deficit neuropsicologico nell’adulto cerebroleso. Masson, Milano.

Mazzucchi A. (a cura di) (1999), La riabilitazione neuropsicologica. Masson, Milano.

 

Sul Conversazionalismo
Lai G. (1985), La conversazione felice. Il Saggiatore, Milano.

Lai G. (1993), Conversazionalismo. Bollati Boringhieri, Torino.

Lai G. (1995), La conversazione immateriale. Bollati Boringhieri, Torino.

Lai G. (2003), Postulati, definizioni, algoritmi, teoremi del conversazionalismo. Fondamenti dimostrativi o assiomi condizionali?, Rivista italiana di gruppoanalisi. 1, 29-47.

Stefanini D. (2003), Il mondo dei suoni e delle parole. Tecniche conversazionali, 30, 54-62.
Accademia delle tecniche conversazionali: web.tiscali.it/accademiatecniche

 

Sui gruppi educazionali dopo un ictus

Vigorelli P., Vigorelli L. (introduzione di Cazzullo C.L.) (1985), Alleanza terapeutica tra medico e paziente. Ghedini Editore, Milano.

Vigorelli P. (1999), I gruppi di miglioramento basati sull’esperienza. La ca’ granda 3: 6-7.

Vigorelli P.(1999), Riunioni di gruppo e gruppi di formazione in ospedale. Prospettive Sociali e Sanitarie, 13, 11-14.

Vigorelli P.(2000), Reinserimento familiare dopo un ictus. Prospettive Sociali e Sanitarie, 9, 6-8.

Vigorelli P., Gussoni C., Bianchi M., Pezzano D., Cremona M., Scotti R. (2001), Gruppo educazionale per il reinserimento familiare dopo un ictus. Atti della Conferenza nazionale sulle Stroke Unit, 16-17 novembre 2001. Milano. Pag. 373-377.

 

Sull’arte di conversare col paziente Alzheimer

Vigorelli P. (a cura di) (2004), La conversazione possibile con il malato Alzheimer. Franco Angeli, Milano.
Formazione e Alzheimer: www.formalzheimer.it

 

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