La demenza colpisce oggi nel mondo oltre 35 milioni di persone: un numero destinato, secondo l’Associazione Internazionale Alzheimer, a raddoppiare nel 2030, per superare, nel 2050,i 115 milioni, in parallelo al progressivo aumento della speranza di vita che coinvolge in misura crescente anche i Paesi a basso e medio reddito. Si tratta di un drammatico problema sanitario e sociale, che incide pesantemente sulla qualità della vita della persona che ne è affetta e della sua famiglia, e i cui costi – che già oggi corrispondono all’1% del PIL mondiale – rischiano di minare non solo la sostenibilità dei sistemi sanitari ma anche lo sviluppo economico e sociale della moderna società. A fronte di una simile “epidemia”, mentre sono sensibilmente migliorate la conoscenza della malattia e le possibilità di una diagnosi accurata e precoce, è ancora molto lontana la disponibilità di una cura efficace. Oggi sappiamo che la malattia di Alzheimer (la causa di demenza più importante e meglio conosciuta) inizia molti anni prima della comparsa dei primi deficit cognitivi (cioè del “mild cognitive impairment”, MCI), ed è possibile diagnosticarla con ragionevole certezza anche in questa fase “preclinica”1.
Ben diversa è la situazione per quanto riguarda le risorse terapeutiche. Agli anticolinesterasici ed alla memantina (quest’ultima introdotta in Europa nel 2002) non si è aggiunta in questi 10anni alcuna molecola nuova; tra le molteplici linee di sperimentazione in atto solo il vaccino contro il precursore della proteina beta-amiloide sembra al momento in grado di offrire alcune prospettive, ma i tempi sono tutt’altro che brevi. Secondo gli autori di una recente revisione di tutti gli studi clinici e sperimentali in corso, appare difficile “valutare quanto ci stiamo avvicinando ad un trattamento efficace della malattia di Alzheimer, ma i risultati offerti dai trial clinici non sono in linea con le previsioni ottimistiche di una sua imminente sconfitta”.
L’insieme delle considerazioni fatte fin’ora – il progressivo “peso” della demenza sui sistemi sanitari e sociali, la consapevolezza che i segni clinici della malattia sono il punto di arrivo di un processo patologico che inizia anche molto tempo prima e l’attuale carenza di risposte terapeutiche – ha sollecitato un maggior interesse della comunità scientifica per l’individuazione di possibili approcci preventivi alla demenza.
Prevenire la malattia, o quanto meno procrastinarne la comparsa e/o rallentarne la progressione, avrebbe infatti un forte impatto non solo sulla qualità della vita delle persone che ne sono affette e delle loro famiglie, ma anche sul sistema sanitario e sulla società nel suo complesso. Se l’età rappresenta il principale, e immodificabile, fattore di rischio (è noto che dopo i 65 anni la probabilità di sviluppare demenza raddoppia approssimativamente ogni 5 anni), lo stile di vita sembra esercitare un’influenza significativa sul rischio di declino cognitivo e di demenza. Più elevati livelli di istruzione,attività lavorative e di tempo libero cognitivamente stimolanti, l’esercizio fisico, una vita di relazione quantitativamente e qualitativamente ricca, e ancora la prevenzione dei fattori di rischio cardiovascolari – il diabete, la dislipidemia, l’ipertensione, l’obesità – oltre alla dieta Mediterranea, si sono dimostrati in grado di proteggere le funzioni cognitive, di prevenire l’insorgenza della demenza o di rallentarne l’evoluzione. Si tratta per lo più di indicazioni provenienti da studi longitudinali, peraltro condotti su ampie popolazioni per periodi di tempo anche molto lunghi; meno definitivi sono i risultati offerti dagli studi di intervento e dai trial clinici, ancora poco numerosi e gravati da alcuni limiti metodologici che ne limitano la confrontabilità (per l’inadeguata definizione dei criteri diagnostici, la multifattorialità del declino cognitivo, l’età dei partecipanti, la durata degli studi spesso insufficiente in rapporto alla caratteristica dimensione longitudinale della malattia…).
Dall’insieme dei dati disponibili emerge comunque la validità di strategie preventive intraprese precocemente, proseguite lungo tutto l’arco dell’esistenza, e articolate in un’ampia gamma di interventi riconducibili sostanzialmente ad uno stile di vita “sano” ed attivo. Le pagine che seguono intendono offrire una rapida sintesi delle conoscenze disponibili, rinviando per un approfondimento della tematica alle numerose rassegne della letteratura pubblicate negli anni più recenti (Plassman et al., 2010; Middleton e Yaffe, 2010; Andrieu et al., 2011; Barnes e Yaffe, 2011; Savica e Petersen, 2011).
Livello di istruzione ed attività cognitiva
Il livello di istruzione rappresenta il principale fattore di rischio dopo l’età: persone con maggiore scolarità hanno un rischio di demenza nettamente inferiore alle persone meno istruite. Secondo una meta analisi di 22 studi di coorte condotta da due ricercatori australiani nel 2006 il rischio di demenza si riduce del 47% (OR 0.53) nelle persone più scolarizzate. L’effetto protettivo della più alta scolarità potrebbe essere legato alle più elevate condizioni socio-economiche, che a loro volta facilitano stili di vita più attenti alla salute. Il rapporto tra istruzione e demenza è però spiegabile anche con l’ipotesi della “riserva cerebrale” o della “riserva cognitiva”: gli individui con più elevati livelli di istruzione potrebbero compensare per un tempo più lungo le alterazioni indotte dalla patologia neurodegenerativa grazie ad una maggiore densità sinaptica, alla maggior efficienza delle reti neurali ed alla capacità di mettere in atto strategie compensatorie. Di contro, una volta manifestatasi la demenza, la sua evoluzione appare in questi soggetti più rapida, forse perché le lesioni neuropatologiche hanno già raggiunto maggiori livelli di gravità.
L’effetto protettivo sul declino cognitivo e sulla demenza di un’attività cognitivamente stimolante, sia in ambito lavorativo che nel tempo libero, era segnalato da 16 dei 18 studi longitudinali passati in rassegna da Laura Fratiglioni e collaboratori nel 2004. A sua volta,la metaanalisi già citata ha riportato una riduzione del rischio del 44% (OR 0.56) e del 50% (OR 0.50) rispettivamente per l’attività lavorativa cognitivamente stimolante e per le attività di tempo libero. Secondo un’altra rassegna pubblicata dai ricercatori del Karolinska Institute di Stoccolma nel 2012 tutti i 18 studi osservazionali esaminati relativi all’effetto dell’attività cognitiva sul rischio di declino cognitivo e di demenza mostravano un’azione protettiva indipendentemente dalle differenze nel disegno dello studio e della sua durata.
Anche i risultati degli studi di intervento, pur meno numerosi, vanno nella stessa direzione. Valenzuela e Sachdev (2009) hanno selezionato 7 trial randomizzati controllati nei quali persone anziane in buone condizioni di salute venivano sottoposte ad esercizi di stimolazione cognitiva; globalmente considerati, questi studi segnalano che l’allenamento mentale produce un forte e persistente effetto sulle prestazioni neuropsicologiche. Gli autori concludono che “tenendo conto che intraprendere nuove attività mentali espone ad un minimo rischio – mentre è alta la probabilità che possa aiutare a conservare nel tempo l’integrità delle funzioni cognitive – è opportuno mantenere un elevato livello ed un’ampia gamma di attività mentali, soprattutto dopo il pensionamento”.
In alcuni studi longitudinali è stato possibile dimostrare che partecipare ad attività di natura cognitiva in età adulta riduceva l’incidenza della demenza in età senile ad oltre 20 anni di distanza. Sono dati molto interessanti non solo perché suggeriscono la possibilità di una prevenzione primaria della malattia ma anche perché consentono di escludere il cosiddetto “reverse causation bias”: la possibilità, cioè, che non sia tanto il mantenimento di attività cognitive (o, come vedremo, motorie o sociali) a ritardare la comparsa della demenza, ma che la scarsa attitudine ad una vita attiva sia in realtà l’espressione precoce di un deterioramento cognitivo ed affettivo “preclinico” che, come si è detto, può comparire anche molti anni prima della diagnosi di demenza.
Attività motoria e prevenzione della demenza
Un’ampia messe di dati lascia ormai pochi dubbi sull’efficacia dell’attività motoria nel prevenire il declino cognitivo e la demenza; studi condotti sugli animali e – grazie alle nuove tecniche di imaging – sull’uomo ne hanno, tra l’altro, rivelato i determinanti neurobiologici.
Numerose ricerche longitudinali dimostrano questo effetto protettivo dell’attività fisica, anche di moderata entità, sulle funzioni cognitive. In uno studio prospettico dei fattori di rischio delle fratture osteoporotiche condotto negli USA su quasi 6.000 donne di 65 e più anni seguite per un periodo di 6-8 anni si è riscontrata una relazione inversa tra il numero di isolati percorsi a piedi ogni settimana ed il declino cognitivo; il rischio di andare incontro ad una perdita delle capacità cognitive era del 35% minore nelle donne del quartile superiore di attività motoria (in rapporto al numero di isolati percorsi ogni settimana) rispetto a coloro che rientravano nel quartile più basso. Ad analoghe conclusioni è giunto il “Nurses Health Study”: se livelli più elevati di attività motoria condotta in modo continuativo risultano fortemente associati a migliori prestazioni cognitive (con un vantaggio corrispondente ad una riduzione di età pari a 3 anni e del rischio di declino cognitivo del 20%) risultati significativi si osservano anche in donne che si limitano a camminare almeno un’ora e mezza alla settimana ad una velocità di 3-5 chilometri all’ora. Mantenere una regolare attività fisica riduce inoltre il rischio di demenza.
Nell’ “Honolulu-Asia Aging Study” in uomini di età compresa tra i 71 ed i 93 anni, senza limitazioni funzionali, seguiti per 6 anni, il rischio di demenza si riduceva del 40% per chi camminava almeno 2 miglia al giorno rispetto alle persone sedentarie. Nei 3.375 ultrasessantacinquenni partecipanti al “Cardiovascular Health Cognition Study” è stata dimostrata una correlazione inversa tra la comparsa di demenza e il numero di attività di tipo fisico seguite, nonché la loro intensità.
Se la riduzione del rischio era del 15% tra le persone incluse nel quartile superiore di consumo energetico rispetto a quelle del quartile inferiore, chi si impegnava in almeno 4 attività presentava un rischio del 49% inferiore alle persone che seguivano al massimo un tipo di attività fisica. Come già si è osservato per l’attività cognitiva, l’esercizio fisico praticato in età adulta previene l’incidenza della demenza in età senile. Aver svolto in età adulta attività motoria almeno 2 volte alla settimana si associa, secondo un gruppo di ricercatori svedesi, ad un ridotto rischio di demenza (OR 0.48) e di malattia di Alzheimer (OR 0.38) ad una distanza media di 21 anni. Il riscontro è confermato dall’AGES – Reykjavik Study: le persone che in età adulta avevano praticato attività motoria presentavano in età senile – a 26 anni in media di distanza – migliori prestazioni in test di velocità di processing, memoria e funzioni esecutive e minor incidenza di demenza. Recentemente sono stati resi disponibili i dati del “Framingham Study”.
Oltre 1.200 persone anziane (età media 76+/- 5 anni) cognitivamente integre alla valutazione del 1986-87 sono state suddivise in 5 quintili di attività motoria; a distanza di quasi due decenni il rischio di sviluppare demenza appare nettamente ridotto nei partecipanti che hanno mantenuto un’attività fisica moderata ed intensa mentre il rischio aumenta nelle persone appartenenti al quintile più basso. Se appare opportuno praticare attività fisica fin da adulti, i benefici sono evidenti anche quando si inizia in età avanzata, e quando sono presenti condizioni di rischio. Elaborando i dati del citato “Honolulu–Asia Aging Study” è stata valutata l’incidenza della demenza in rapporto sia all’attività fisica sia ai livelli funzionali dei soggetti. Si è visto che non soltanto l’incidenza della demenza si riduce con l’aumento dell’attività fisica e dei livelli funzionali, ma che tale riduzione è più forte, fino a dimezzarsi con livelli elevati di attività fisica, nelle persone con minori prestazioni funzionali all’inizio dello studio, mentre una simile associazione non si evidenzia in persone con livelli funzionali medi ed elevati: sarebbero cioè proprio le persone “più a rischio”, come spesso si riscontra in ambito geriatrico, ad avvalersi maggiormente dell’effetto protettivo dell’attività motoria nei confronti della demenza.
Un recente studio australiano ha assegnato casualmente ad un programma di attività fisica (3 sedute settimanali di 50’) e ad un gruppo di educazione sanitaria, per la durata di 24 settimane,170 persone di età media di 68.6 anni che lamentavano disturbo di memoria (MCI). Alla baseline, a 6, 12 e 18 mesi venivano valutati entità dell’attività fisica, le funzioni cognitive, il tono dell’umore e la qualità della vita. In occasione delle rivalutazioni i partecipanti al gruppo di attività motoria venivano sollecitati a mantenersi attivi. A 6 mesi il gruppo intervento migliorava le proprie prestazioni cognitive, mentre il gruppo di controllo peggiorava. Il vantaggio rispetto al gruppo di controllo si manteneva anche a 18 mesi. Risultati analoghi sono stati ottenuti dallo studio LIFE, che ha randomizzato 102 persone sedentarie di età compresa tra 70 e 89 anni ad elevato rischio di disabilità in un gruppo di attività motoria ed uno di educazione sanitaria. A distanza di un anno, al miglioramento delle prestazioni motorie si associava in maniera significativa un incremento delle performance cognitive.
Infine uno studio francese, finalizzato a valutare l’efficacia della supplementazione di vitamine C, E e beta-carotene per la prevenzione secondaria della malattia cardiovascolare (con risultati, tra l’altro, negativi) è stato condotto su circa 3.000 donne (medici o infermiere) con malattia cardio-vascolare o con almeno 3 fattori di rischio cardio-vascolare (diabete, ipertensione, dislipidemia, obesità, familiarità). Dopo una valutazione cognitiva alla baseline le partecipanti sono state rivalutate ogni 2 anni per 3 volte; in occasione di ogni valutazione si rilevava anche l’attività motoria nel corso dell’anno precedente. Il declino cognitivo è risultato nettamente minore nelle donne nel 4° e 5° quintile di attività motoria, quelle che camminavano almeno 30 minuti al giorno a passo rapido (5.5 Km/h). In termini di declino cognitivo la differenza tra le donne appartenenti al primo quintile (nessuna attività motoria) e quelle comprese nel 4° e 5° quintile corrispondeva rispettivamente a 5 e 7 anni: chi cammina almeno 30 minuti al giorno è cognitivamente più giovane di 5 o 7 anni!
Numerose ricerche sperimentali condotte sugli animali offrono alcune indicazioni sui meccanismi biologici che sottendono questa relazione tra attività motoria e funzioni cognitive. Si è visto che l’esercizio fisico determina, negli animali vecchi quanto nei giovani, una più elevata produzione di sostanze neurotrofiche, in particolare di brain-derived neurotrophic factor (BDNF) ed un’aumentata proliferazione neuronale nel giro dentato dell’ippocampo. Induce inoltre modificazioni anche in diversi sistemi neurotrasmettitoriali, come una ridotta deplezione di dopamina nello striato ed un aumento dei livelli di serotonina e acetilcolina. Ancora, in ratti transgenici mantenuti in allenamento pare ridursi l’accumulo di proteina beta-amiloide e di radicali liberi. Anche nell’uomo sono state documentate modificazioni biologiche indotte dall’esercizio fisico.
Un primo studio prospettico longitudinale, pubblicato da Rogers nel 1990, aveva dimostrato una riduzione significativa della perfusione cerebrale in pensionati inattivi rispetto a coloro che avevano continuato a lavorare o si mantenevano fisicamente attivi. L’utilizzo delle più recenti tecniche di imaging ha poi permesso di dimostrare, in persone anziane coinvolte in attività di tipo aerobico, un’aumentata attività delle regioni frontali e parietali associata a migliori prestazioni in una prova di attenzione, un aumento del volume cerebrale a livello frontale, occipitale, ma anche della corteccia entorinale e dell’ippocampo e l’incremento del flusso ematico nel giro dentato, regione dell’ippocampo importante per la memoria e per il declino cognitivo senile. È probabile che l’influenza positiva dell’attività motoria sia mediata anche da un più globale miglioramento della funzione cardiorespiratoria e dalla sua influenza positiva sui fattori di rischio cardiovascolare (riduzione della pressione arteriosa, miglioramento del profilo lipidico e della tolleranza glucidica) ormai riconosciuti fattori di rischio anche della demenza degenerativa. Importante infine è anche l’effetto che l’attività motoria – individuale e soprattutto di gruppo – esercita sul tono dell’umore e sullo stress.
È noto infatti che la depressione può aggravare i problemi cognitivi attraverso alcuni meccanismi biologici di danno cerebrale: l’alterata funzionalità del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene che si riscontra nella depressione potrebbe infatti generare una condizione di cronica ipercortisolemia che – in particolare nelle aree ippocampali, ricche di recettori per i glucocorticoidi – può ridurre i fattori neurotrofici, inibire la neurogenesi e aumentare la vulnerabilità del cervello ai danni vascolari e alla deposizione di amiloide.
Relazioni sociali
L’influenza del mantenimento di rapporti sociali significativi e della partecipazione ad attività sociali sul rischio di declino cognitivo e di demenza è stato meno approfondito dalla letteratura. Alcuni studi osservazionali confermano l’effetto protettivo di una vita di relazione (è importante la qualità dei rapporti sociali più che la loro quantità) e della partecipazione ad attività “socializzanti” di tempo libero (visite ad amici e parenti, partecipazione ad attività culturali, ricreative, religiose, di volontariato), mentre la solitudine sarebbe associata ad un rischio più elevato. Se lo studio – soprattutto controllato – del rapporto tra vissuto relazionale e funzioni cognitive appare indubbiamente più complesso, sembra giustificato ipotizzare che gli effetti dell’attività mentale, dell’esercizio fisico e dell’integrazione sociale possano condividere meccanismi comuni, stimolando la plasticità cerebrale (e aumentando in questo modo la riserva cognitiva), esercitando un’azione protettiva sui fattori di rischio cardiovascolare e migliorando lo stato affettivo-emotivo, riducendo in questo modo lo stress e la sua azione negativa sulle regioni ippocampali.
Fattori di rischio vascolare
È ormai accertato che i fattori di rischio vascolare aumentano il rischio non solo di demenza vascolare ma anche di demenza di Alzheimer. Anche un lieve danno vascolare cerebrale infatti aggrava la compromissione cognitiva. Tra i fattori di rischio cardio-vascolare i più importanti appaiono l’ipertensione ed il diabete. L’ipertensione determina una condizione di ipoperfusione cronica della sostanza bianca, a sua volta associata a declino cognitivo; l’alterazione del microcircolo sembra inoltre favorire, attraverso l’aumento della permeabilità di membrana e la fuoruscita di proteine nel parenchima cerebrale, l’accumulo della proteina beta-amiloide; al danno endoteliale sarebbero infine riportabili l’aumento dei radicali liberi e dello stress ossidativo, a loro volta coinvolti nella patogenesi della malattia di Alzheimer.
Da alcuni studi longitudinali emerge l’associazione tra ipertensione in età adulta ed aumentato rischio di demenza: una relazione peraltro che appare meno lineare in età avanzata, quando non solo l’ipertensione ma anche bassi valori pressori sono risultati associati ad un’aumentata incidenza di demenza, a riprova della complessità dei percorsi fisiopatologici della malattia e delle modificazioni patofisiologiche cerebrali nel corso della vita. Per quanto poi riguarda il trattamento ipotensivo, mentre alcuni studi osservazionali hanno segnalato una riduzione del rischio di demenza nelle persone che assumevano la terapia ipotensiva, i trial controllati non offrono risultati univoci; si tratta,d’altra parte, di studi disegnati generalmente con altri obiettivi, che per lo più non prevedono una valutazione sufficientemente accurata delle funzioni cognitive. Secondo la letteratura la presenza di diabete mellito di tipo 2 aumenta il rischio di mild cognitive impairment, di demenza vascolare e di demenza di Alzheimer; nei diabetici il rischio di demenza sarebbe approssimativamente raddoppiato, mentre anche la sola intolleranza al glucosio sembra accelerare la conversione da MCI a demenza.
Il rapporto tra diabete e demenza non sembra peraltro solo di natura epidemiologica ma coinvolge il processo patogenetico, anche se le modalità con le quali il diabete potrebbe favorire e/o accelerare il processo neurodegenerativo non sono ancora pienamente comprese. Oltre al danno vascolare indotto dall’iperglicemia – che potrebbe aggravare un processo degenerativo già in atto – sono stati chiamati in causa lo stress ossidativo derivante dall’iperglicemia, che esercita un effetto tossico diretto sui neuroni, il danno neuronale secondario agli episodi di ipoglicemia nei pazienti in trattamento ipoglicemizzante, nonché lo stato infiammatorio che accompagna il disturbo metabolico. È stata inoltre riscontrata una relazione tra la cascata amiloidogenetica e l’insulina, con un’aumentata secrezione e una ridotta degradazione della proteinabeta-amiloide indotte dall’iperinsulinemia; l’ippocampo, come la corteccia entorinale e la corteccia frontale, sarebbe, tra l’altro, ricco di recettori per l’insulina.
Non sono disponibili dati certi sull’utilità di un miglior controllo glicemico al fine di prevenire il rischio di demenza; anche nel caso del diabete – come si è osservato per il controllo della pressione – la relazione si modifica con l’età e un controllo rigoroso della glicemia può addirittura esporre in età avanzata ad un rischio aumentato. Non restano dubbi, al contrario, sull’opportunità di prevenire, almeno fino ai 70 anni, il sovrappeso e l’obesità, condizioni che favoriscono, tra l’altro, l’insorgenza del diabete mellito tipo 2 (anche in questo caso, un Body Mass Index elevato in età più avanzata rappresenterebbe invece un fattore protettivo contro la demenza). Se le persone affette da dislipidemia presentano un rischio aumentato di demenza, il suo trattamento non ha dimostrato alcuna efficacia; negli studi longitudinali l’uso delle statine non si associa alla riduzione del rischio, mentre in due ampi trial randomizzati controllati la terapia con statine non ha migliorato gli outcome cognitivi. In conclusione, non sembrano esserci molti dubbi sul ruolo dei fattori vascolari nella patogenesi della demenza, non solo vascolare ma anche degenerativa, o quantomeno sul loro coinvolgimento nel determinarne le manifestazioni cliniche e l’evoluzione nel tempo. In particolare, nei pazienti più anziani la demenza di Alzheimer “pura”, così come la demenza vascolare “pura”, costituirebbero, secondo molti studiosi, la minoranza di tutti i casi. La possibilità di prevenire il declino cognitivo e la demenza, oltre agli altri eventi cardio e cerebro-vascolari, deve pertanto rappresentare un ulteriore stimolo per un sempre più attento e precoce controllo di tali fattori.
Dieta
L’importanza dei fattori vascolari nella demenza, e il ruolo ormai accertato dei fattori nutrizionali nell’eziologia delle malattie cardiovascolari e di molte malattie croniche degenerative, suggeriscono la possibilità di avvalersi della dieta come misura preventiva contro la demenza. Molti fattori coinvolti nella patogenesi della malattia di Alzheimer – dallo stress ossidativo, alla presenza di elevati livelli di omocisteina ad una condizione di cronica infiammazione – sono potenzialmente risolvibili con una corretta alimentazione. Un elevato apporto di antiossidanti (quali vitamina C, vitamina E e carotenoidi) e di cofattori del pathway metabolico dell’omocisteina (vitamina B6, B12 e acido folico), un basso apporto di grassi saturi e la loro sostituzione con grassi mono e poliinsaturi nonché un moderato consumo di alcool sembrano garantire, oltre ad una protezione cardio-vascolare, anche una prevenzione del declino cognitivo. L’interesse di molti ricercatori si è pertanto concentrato sulla dieta mediterranea – una dieta ricca di frutta, verdura, legumi, carboidrati complessi, olio d’oliva, pesce e carni bianche, povera di carni rosse e di grassi animali e con un apporto moderato di vino rosso durante i pasti. Una recente meta analisi condotta da un gruppo di autori italiani ha dimostrato che una simile dieta riduce la mortalità totale e l’incidenza e la mortalità sia per patologie cardio-vascolari che per neoplasie. Analogamente è stata riscontrata una correlazione tra dieta mediterranea – soprattutto se associata ad attività fisica – e ridotto rischio di demenza.
Né gli studi osservazionali né i trial clinici, al contrario, sono riusciti a dimostrare un effetto preventivo contro la demenza della supplementazione dietetica con vitamine E e C, con vitamina B12 e acido folico e con gli acidi grassi omega-3, a sottolineare, anche in questo campo, l’importanza del pattern alimentare complessivo più che dei singoli componenti. Un ultimo accenno merita la vitamina D: alcuni studi recenti suggeriscono che un tasso sierico più elevato di 25idrossivitamina D3 sarebbe associato a migliori prestazioni cognitive e ad un loro minor declino: osservazione importante, in considerazione dell’elevata percentuale di persone anziane – soprattutto se istituzionalizzate – con bassi livelli di vitamina D.
Conclusioni
Come si è visto in queste pagine, la maggior parte dei dati che suggeriscono la possibilità di una prevenzione della demenza provengono da studi osservazionali, mentre sono pochi gli studi controllati. Per questi motivi una recente “consensus conference” del National Institutes of Health statunitense ha concluso che “al momento, non si possono trarre conclusioni precise sull’associazione di alcun fattore di rischio modificabile con il declino cognitivo o la malattia di Alzheimer” e che non ci sono dati sufficienti per suggerire a questo fine l’uso di farmaci o di supplementazioni dietetiche.
Al contrario, due importanti esperte americane di demenza, prendendo in considerazione i principali fattori di rischio di demenza riconosciuti dalla letteratura, hanno recentemente calcolato il rischio di aumento della prevalenza della malattia di Alzheimer attribuibile ad ognuno di questi fattori, sulla base della sua prevalenza nella popolazione e della forza della sua relazione con la demenza. Secondo questa analisi, oltre il 50% delle demenze, negli USA e nel mondo, sarebbe potenzialmente attribuibile a fattori di rischio modificabili.
La riduzione del solo 10% di tutti i fattori esaminati (diabete mellito, ipertensione ed obesità in età adulta, depressione, inattività fisica, fumo e basso livello di istruzione e di attività cognitive)consentirebbe di evitare oltre 1 milione di malati in tutto il mondo, quasi 200.000 negli Stati Uniti (che diventerebbero rispettivamente 3 milioni e quasi 500.000 se la riduzione fosse del 25%). Forse queste conclusioni sono al momento troppo ottimistiche: d’altra parte, se teniamo presenti, oltre all’attuale carenza di una terapia specifica ed efficace, la lunga durata del processo patologico che conduce alla demenza, la natura multifattoriale della malattia e la marcata interazione del declino cognitivo con la patologia cardio-vascolare in particolare e con la comorbilità somatica e psichica più in generale, appare opportuna, a livello individuale e di popolazione, la scelta decisa di stili di vita che non solo hanno dimostrato la loro capacità di prevenire la patologia vascolare ed altre patologie croniche, ma che – come l’attività fisica, intellettuale e sociale – possono migliorare in modo significativo la qualità della vita delle persone.
Note
- Promosso dalla Provincia di Milano e accompagnato metodologicamente dallo Studio APS di Milano, vi hanno partecipato coordinatori e responsabili di struttura di RSA Don Cumi – Asp di Magenta, Fondazione La Pelucca, RSA Saccardo e Santa Lucia del Gruppo Segesta, Istituto Golgi Redaelli di Abbiategrasso, e operatori sociali di Cesano Boscone, Trezzano sul Naviglio e Locate di Triulzi degli ambiti territoriali di Corsico e Rozzano (Primerano e Tarchini, 2011)
Bibliografia
La bibliografia completa può essere richiesta all’autore all’indirizzo: gguerrini@fondazionebssolidale.it Andrieu S, Aboderin I, Baeyens JP et al. IAGG Workshop: health promotion program on prevention of late onset dementia. J Nutr Health Aging 2011;15:562-75.
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