La riabilitazione in ambito geriatrico sta vivendo un periodo di particolare sviluppo dovuto all’invecchiamento della popolazione, all’incremento delle malattie cronico-degenerative e quindi all’aumento di soggetti con disabilità. L’evoluzione del concetto di funzionamento secondo il modello della International Classification of Functioning -ICF implica che la riabilitazione geriatrica, come ogni altra forma di riabilitazione, si focalizzi sulle dimensioni di strutture e funzioni corporee, di attività e di partecipazione.
Gli obiettivi saranno quindi non solo e non tanto quelli del recupero segmentario di una struttura o funzione menomata, quanto quelli di portare la persona anziana con disabilità ai massimi livelli possibili di attività e partecipazione, tenendo ben presente il ruolo fondamentale dei fattori contestuali, ambientali e personali per la valutazione soggettiva e oggettiva della qualità della vita.
La condizione particolare della rieducazione motoria di un soggetto anziano con disturbo neuro-cognitivo apre ulteriori scenari di riflessione.
Riabilitazione motoria nella persona con declino cognitivo
La persona anziana con declino cognitivo presenta una compromissione variabile delle funzioni corticali superiori. Spesso però questi soggetti sono ancora capaci in certe attività fisiche più o meno complesse, come ballare seguendo correttamente il ritmo, andare in bicicletta, svolgere in modo adeguato funzioni di grooming1, come truccarsi o radersi, in quanto la memoria procedurale garantisce, per questi processi, il mantenimento di una corretta sequenza gestuale motoria, quando appresa molto tempo addietro. Ma se interviene un danno neurologico od ortopedico, che sovverte la regolare procedura di tali sequenze, allora in simili circostanze il soggetto è costretto ad un apprendimento di nuovi schemi motori che lo mettono in maggior difficoltà rispetto a persone cognitivamente indenni.
L’importanza del setting cognitivo in ogni forma di apprendimento tardivo è fondamentale, anche se la struttura del carattere gioca un ruolo da non sottovalutare. Inoltre, al di là di problematiche cognitive e caratteriali, nel declino intellettivo ha un ruolo di primo piano il principio di continuità per cui un soggetto in queste condizioni è capace di agire se si tratta di un ri-agire, di conoscere se si tratta di un ri-conoscere. La persona con Demenza, in particolare, è in grado di attribuire significato ad una nuova realtà, ad una nuova attività se è inserita in un contesto familiare, con una finalità evidente o facilmente intuibile: sono note le conseguenze immediate di un cambio di residenza, di una vacanza in un contesto nuovo, di un incontro con un parente non frequentato con regolarità. Seguendo questa linea di pensiero in ambito riabilitativo certi strumenti come le parallele, le bande elastiche, le pedaliere, le tavolette o le pedane possono essere fonte, in questi soggetti, di reazioni negative che spesso vengono superate con un approccio più ecologico (Kitwood, 1997).
Altro spunto di riflessione sulla associazione tra Riabilitazione Motoria e Demenza riguarda il fatto che, come sempre accade in un percorso riabilitativo, si instaura una stretta interazione tra chi eroga la cura e chi la riceve. Nella riabilitazione motoria di pazienti cognitivamente integri, in genere ciascuna delle due figure coinvolte può sviluppare diversi stati d’animo, che per lo più coincidono con una buona sintonia. Ma nel caso in cui l’intervento riabilitativo si rivolge al soggetto con declino cognitivo, è più facile trovare esempi di dis-sintonia tra le due figure, per modalità comunicative e didattiche da una parte, di apprendimento e di reazione emotiva dall’altra, tali da ostacolare lo sviluppo di una alleanza terapeutica, che è uno degli aspetti fondamentali di un progetto riabilitativo.
Ci sono punti nodali nella comunicazione con un soggetto cognitivamente decaduto, soprattutto quando è in atto il progetto di ottenere una collaborazione da parte sua, come appunto in un setting riabilitativo (Tabella 1).
D’altra parte è ormai ampiamente accettato che nel soggetto con demenza il linguaggio verbale, l’astrazione e la simbolizzazione sono funzioni usualmente più compromesse rispetto all’operatività pragmatica. Quando un soggetto è compromesso in ambito cognitivo, è possibile rallentare l’evoluzione della malattia attraverso un approccio motorio. Infatti, molti studi hanno dimostrato l’efficacia dell’attività fisica nel migliorare significativamente le condizioni di vita delle persone colpite, con documentati effetti in ambito psicologico, cognitivo (memoria e attenzione), biologico.
Invece in soggetti con una compromissione sia cognitiva che motoria gli outcomes riabilitativi non sono così facilmente raggiungibili. La riabilitazione motoria di un soggetto affetto da demenza richiede una valutazione ed una procedura interdisciplinare, (Geriatra, Fisiatra, Fisioterapista, Psicologo, Infermiere, Assistente sociale) ed ha una dimensione olistica, con coinvolgimento del corpo, della mente e degli affetti. Solo attraverso la flessibilità, la creatività e la capacità empatica del Team della Riabilitazione il paziente potrà apprezzare un senso di interezza, di connessione con le varie parti del Sé, con gli altri e con l’ambiente circostante.
È necessario quindi che la Riabilitazione sia condotta attraverso la conoscenza e la comprensione dei bisogni fondamentali del paziente affetto da demenza. Non si tratta soltanto di considerare il suo sentimento di insicurezza in un mondo che perde familiarità per lui, o di tollerare il suo bisogno di credersi e manifestarsi normale: il bisogno principale è quello di sentirsi dentro una buona relazione e sentire di beneficiare di una rete di sicurezza, di comfort, di rispetto della propria identità, di sentirsi incluso e non escluso, e di essere occupato in una attività che lascia trasparire la sua funzione ed utilità, cosi da attivare, come spesso avviene, progettualità ed autostima.
Riabilitazione del paziente con frattura di femore e declino cognitivo: analisi della letteratura
Nell’ultimo decennio si è assistito ad un crescente sviluppo della letteratura riferita alla riabilitazione del paziente con frattura di femore e declino cognitivo. Un importante studio retrospettivo del 2016 (Seitz et al., 2016), condotto su 11000 fratturati di femore, ha messo in evidenza che da una parte i soggetti affetti da demenza quando subiscono un evento disabilitante sono a maggior rischio per risultati negativi dal punto di vista funzionale, ma dall’altra che tra questi, coloro che venivano coinvolti in un percorso riabilitativo avevano una mortalità più bassa rispetto agli altri, sottolineando così la necessità di non escludere tali pazienti dalla riabilitazione (Seitz, Gill, 2016).
Inoltre, uno dei primi studi in questo campo ha messo in evidenza che, nell’ambito di trecento fratturati di femore, un terzo tra quelli compromessi sul versante cognitivo in modo intermedio- severo aveva recuperato un cammino autonomo alla dimissione, e la metà di questi manteneva tale abilità a distanza di un anno (Morghen et al., 2011).
Una revisione Cochrane del 2015 ha orientato le sue indagini alla selezione di una modalità riabilitativa prioritaria per i soggetti operati per frattura di femore ed affetti da demenza. La carenza quantitativa e qualitativa degli studi effettuati in questo specifico settore non ha permesso di delineare una strategia preferenziale, concludendo che dovrebbero essere applicate a questi soggetti le stesse procedure che si impiegano per i soggetti non affetti da demenza (Smith et al., 2015).
Un altro aspetto importante è quello della carenza organizzativa dei servizi usualmente coinvolti nella riabilitazione di fratture del femore: quasi mai, infatti, questi servizi sono impostati, culturalmente e tecnologicamente, per trattare anche soggetti cognitivamente decaduti. In contesti riabilitativi di post-acuzie in realtà è possibile realizzare dei programmi finalizzati su pazienti con tale duplice problematica clinica, che possano implementare alcuni approcci mirati (Tabella 2).
Una revisione Cochrane ancor più recente si è prefissa l’obiettivo di valutare se questi pazienti possano beneficiare di percorsi riabilitativi appositamente organizzati o in ambiente orto-geriatrico rispetto alla riabilitazione convenzionale: la risposta è affermativa, ma la certezza di questa evidenza rimane ancora bassa o molto bassa, per i limiti numerici e metodologici degli studi. Al momento attuale non sembra ancora identificabile un percorso riabilitativo ottimale per questi pazienti, che abbia analizzato e quindi sviscerato il problema dei costi, della durata di degenza in struttura, del contenimento del declino cognitivo, del risultato sul reale recupero funzionale nelle attività della vita quotidiana e sulla qualità della vita (Smith et al., 2020).
In realtà, sono state condotte ricerche sulle realistiche possibilità di avere risultati significativamente positivi con pazienti affetti da demenza. Si è trattato però di studi su decadimenti cognitivi lievi moderati con integrità fisico-motoria in cui è stata dimostrata la capacità di apprendimento di abilità motorie, usando motor skills altamente rilevanti nella vita di tutti i giorni. Infatti, sono stati proposti programmi intensivi di esercizi per apprendere manovre compensatorie utili nel trasferimento posturale. Il gruppo di controllo è stato sottoposto ad attività motoria generica e a più bassa intensità. I risultati hanno evidenziato che il gruppo di studio è migliorato significativamente, indicando che tali soggetti possono affrontare apprendimenti di nuove abilità motorie, che poi vengono anche trattenute nel tempo (Werner et al., 2017).
Questo lavoro, anche se limitato ad una particolare tipologia di pazienti, sembra voler sollecitare la finalità, non da tutti condivisa, di occuparsi di riabilitazione in pazienti anche più compromessi, sia dal punto di vista cognitivo che fisico. Certamente per questi pazienti in ambito geriatrico dovrebbe essere più diffusa la progettualità orientata al recupero in senso lato, pur nella consapevolezza che si tratta di una procedura diversa dall’usuale, più personalizzata, con tempistica a sé stante, con maggiori coinvolgimenti e maggiori difficoltà.
A tale riguardo, un lavoro meno recente dei precedenti ricorda che nelle funzioni di apprendimento e di memoria noi abbiamo due diversi sistemi operativi, quello dichiarativo o esplicito, e quello procedurale o implicito, essenzialmente rivolto all’apprendimento di capacità motorie, e funzionante tramite una costante interazione con la componente dichiarativa. Nei soggetti sani per l’apprendimento di una abilità motoria si raggiunge la stessa accuratezza di sequenze motorie sia che si privilegi la memoria esplicita che implicita. Ma in soggetti con danno cognitivo è pensabile che l’apprendimento esplicito sia più compromesso e quindi possano avvantaggiarsi dell’uso preferenziale di un linguaggio non verbale, mirante ad un maggiore sollecitazione dell’apprendimento procedurale (Vidoni, Boyd, 2007).
Da quanto si ricava dalla letteratura internazionale non esiste un protocollo sicuro e definito che sia in grado di fornire regole precise sui procedimenti riabilitativi, dopo eventi ictali o post-traumatici, in soggetti affetti da decadimento cognitivo nelle sue varie entità. Certamente il dato fondamentale che emerge è che la riabilitazione non deve essere sminuita, minimizzata o tanto meno sacrificata per l’esistenza di difficoltà cognitive nel soggetto, perché apporta risultati positivi in vari settori del vasto orizzonte riabilitativo, anche se la qualità degli studi e la loro esiguità numerica non consente di fondarsi su una significatività accettabile. E’ quindi indiscutibile che occorrono ulteriori ricerche in questo specifico settore, tenendo conto che già adesso i soggetti sottoposti a intervento chirurgico per frattura del femore nel 40% dei casi sono cognitivamente compromessi, e che per la comorbidità e l’allungamento dell’aspettativa di vita dei soggetti con diagnosi di disturbo neurocognitivo le indicazioni alla riabilitazione neuromotoria saranno quantitativamente in crescendo.
Peculiarità del Team e della definizione del progetto riabilitativo individuale
Seguendo le linee di un pensiero Psicogeriatrico, si potrebbe dire che la riabilitazione rivolta a soggetti con disturbo cognitivo richiede non solo interventi sulle problematiche motorie, ma anche specifiche attenzioni alla sfera cognitiva, affettiva e comportamentale. Nello specifico, il soggetto affetto da Demenza vive con difficoltà la condizione di essere semplicemente parte di un gruppo, e predilige essere componente di un micro-gruppo o meglio di una unità duale.
In ambienti familiari, o all’interno di Centri Diurni Specializzati, molto spesso si parla di “relazione privilegiata”, perché, per quanto gli/le è possibile, è il paziente che sceglie il suo Caregiver (Droes, 2004).
Il meccanismo che consente al soggetto con demenza di selezionare il suo caregiver è connesso al fatto che la malattia compromette le funzioni corticali superiori, ma non quelle affettive. Per tale motivo chi è compromesso sul piano cognitivo, anche in modo severo, di fronte ad un interlocutore è in grado di dare un significato alla qualità del linguaggio verbale e non verbale di quest’ultimo, alla qualità delle sue espressioni mimiche, alla gestualità e ai movimenti in genere. Il team che quindi intende occuparsi di riabilitazione di questi soggetti deve conoscere i presupposti per stabilire una interazione, una connessione comunicativa al fine di promuovere una reazione collaborativa.
Il soggetto affetto da demenza quando è colpito da una patologia somatica invalidante, a suo modo si rende conto che la sua parte migliore, quella corporea, è venuta meno: molto spesso le risposte verso colui che affronta questo problema clinico sono di opposizione e di rifiuto, perché il soggetto deve accettare e tollerare una ulteriore forma di dipendenza e di passività. E’ necessario quindi aver instaurato un rapporto in cui il soggetto abbia potuto stemperare il suo risentimento, la sua rabbia, e possa arrivare a provare fiducia verso chi si occupa di lui, qualcuno con cui il paziente abbia stabilito una relazione, sia sul piano verbale che corporeo.
Ricordiamo a tale proposito che il tatto è uno dei sensi che ci dà informazioni essenziali alla sopravvivenza, ci segnala che siamo vivi, è il primo senso che sviluppiamo e l’ultimo che perdiamo. Il desiderio di contatto è comune a molte persone anziane malate, ma nelle persone affette da demenza il piacere del contatto può essere dimenticato, o meglio inquinato da un sentimento di intrusione nel proprio Io, con lo sviluppo di un delirio persecutorio, le cui reazioni comportamentali sono facilmente intuibili. Appare quindi fondamentale che in tali evenienze cliniche il Terapeuta si impadronisca di determinate regole nella gestione della comunicazione corporea.
Per investire sul possibile ruolo positivo del tatto con tali soggetti ci sembra rilevante considerare almeno due aspetti. Il primo riguarda la necessità di evitare la dimensione pubblica, perché il paziente in genere non apprezza contatti prolungati, verbali o fisici, nel contesto di un gruppo di persone, dato che il valore della gruppalità è venuto meno in questi pazienti. Il secondo aspetto si correla alla necessità di attivare una dimensione privata e personale, sia per ragioni intrapsichiche che neuropsicologiche, dato che in una relazione ristretta sono ridotti i rischi della distraibilità e della iper-stimolazione, che nella quasi totalità dei casi sono fonte di alterati comportamenti.
Aspetti da tenere in considerazione per la definizione del progetto riabilitativo individuale del paziente con disabilità motoria e declino cognitivo
Da più fonti emerge il fatto che il progetto di una riabilitazione per pazienti con tali problematiche poggia su incoraggianti indicazioni della letteratura, nonché su solide basi etico-deontologiche-psicosociali, anche se si assiste ad una dispersione di risultati, con una variabilità che dipende da svariati fattori.
La relazione come base dell’intervento riabilitativo
Il difetto relazionale nei pazienti affetti da demenza, caratterizzato da perplessità, smarrimento, incertezza, inibizione e magari con coesistente bisogno-desiderio di un legame deve promuovere una riflessione in coloro che se ne prendono cura, al fine di valutare se la loro modalità di rapportarsi al paziente non possa essere concausa della difficoltà del paziente stesso a rapportarsi a loro (Gori, 2009). Spesso la percezione di una emozione affettiva e del supposto stato d’animo dell’operatore può creare una risposta mimica di risonanza emotiva in chi la percepisce. Non si tratta di una imitazione consapevole, ma di un evento che nasce nella psicologia del profondo, anche in soggetti gravemente decaduti, nel contesto di una comunicazione faccia a faccia.
Ci preme qui sottolineare che anche in un paziente di questo tipo si può organizzare una forma di esperienza interiore se c’è un adeguato interlocutore e, più esattamente, quando quest’ultimo si presenta come “oggetto buono” cioè capace di veicolare messaggi decodificabili e di promuovere stati di animo di accoglienza e co-operazione. Tale contesto ha tutte le caratteristiche di valere in ogni setting sanitario in cui vengano a trovarsi un paziente con demenza ed il suo terapeuta, come nelle procedure valutative e diagnostiche. Ma assume un particolare significato nei possibili interventi terapeutici, che si prolungano nel tempo, tutti i giorni o quasi, per settimane e mesi, come appunto quello riabilitativo.
Un team riabilitativo dedito culturalmente ed emotivamente a questi pazienti è in grado di rimanere osservatore attento e interessato di fronte a certi comportamenti apparentemente incomprensibili e afinalistici, come strofinarsi le mani, dondolarsi sul tronco, alzarsi e risedersi ripetutamente o come agiti verbali di opposizione.
In certi casi inoltre, si può arrivare a chiedersi se tali atti non abbiano un filo interno di coerenza, come tentativi del paziente di difendersi da una realtà non più controllabile o siano espressione di primitivi bisogni relazionali del paziente dove l’astratto ha lasciato il posto ad una massiccia concretizzazione. È grazie a questi vissuti, queste riflessioni e rielaborazioni che il team è facilitato e sostenuto nella sua mission di reimpostare e correggere una funzione motoria danneggiata in tali pazienti. Un pensiero cosi destrutturato come quello di un paziente affetto da demenza grave può ancora conservare spunti di comprensibilità di ciò che avviene al suo interno e ricevere messaggi significativi da ciò che è presente attorno a lui. Il deterioramento cognitivo che ha una base organica non è affatto immune a fattori psicologici e ambientali.
Conclusioni
In accordo con tutti gli autori che sostengono la funzione cruciale della multidimensionalità e della interdisciplinarietà nella riabilitazione di un soggetto con demenza, per concludere, vorrei sottolineare il ruolo prioritario che rivestono gli operatori che costituiscono insieme al paziente e ai familiari il team riabilitativo. Di fronte a persone con demenza il terapista ed il team cui appartiene devono riuscire a sviluppare intellettivamente ed emotivamente la capacità di stare in una relazione diadica con soggetti che spesso minimizzano, banalizzano, negano le proprie difficoltà o le drammatizzano e le vedono insormontabili.
Il professionista della riabilitazione è chiamato a non rispondere d’istinto a tali alterazioni comportamentali, a non indispettirsi, a non spazientirsi ed invece a elaborare il proprio stato emotivo cercando di immaginare il messaggio che nasconde quel particolare agito del paziente. Per la persona che svolge questo compito si tratta di una esperienza difficile, dispendiosa di energie, di tempo, di tolleranza e che fondamentalmente richiede una dedizione e la capacità di sviluppare un autoriconoscimento in situazioni difficili.
Note
Bibliografia
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