A proposito di (dal libro di M. Trabucchi “L’ammalato e il suo medico; successi e limiti di una relazione”, Ed. Il Mulino, Bologna 2009)
Vi è una speciale solitudine, un sentimento complesso che riguarda molti di noi medici quando, dalle linee guida e dai protocolli, ci troviamo di fronte il malato-persona, con il suo corpo, la sua mente, la sua storia, la sua famiglia: oggi che molti rapporti di coppia sono in crisi, non sfugge a questa realtà anche la coppia medico-paziente. In quel momento sembra che la pur notevole massa di dati che viene quasi giornalmente prodotta in tutti i settori della medicina non serva più, ed è come se si passasse da un rumore pervasivo e costante ad un improvviso silenzio. In questa solitudine silenziosa il medico si trova ad utilizzare le conoscenze di cui dispone e che gli danno la ragionevole sicurezza di agire secondo scienza e coscienza.
Viene calcolato, però, che per poter essere davvero aggiornato, oggi, un medico dovrebbe leggere 30-35 pubblicazioni al giorno! L’aumento delle possibilità di accesso alle informazioni non ha semplificato la vita professionale ma, al contrario, l’ha resa più difficile con un cambio epocale di gestione del proprio sapere. Chi ha iniziato a fare il medico negli anni ‘70 del secolo scorso aveva come massimo obiettivo di organizzazione del proprio aggiornamento l’accesso alle informazioni; oggi, invece, il problema è l’eccesso di informazioni e la capacità maggiore sta nella selezione di esse. Questo aumenta l’insicurezza e la difficoltà della decisione clinica se è vero, parafrasando Lakatos, che nemico del vero non è il falso ma l’insignificante. Dall’altra parte ci troviamo persone, malati, famigliari che sembrano sempre più dicotomizzarsi su due linee divergenti: chi si affida del tutto al medico e chi cerca invece informazioni in proprio e sottopone a vaglio critico, non sempre appropriato, tutto ciò che viene proposto come diagnosi e cura.
Da una parte, se il medico viene visto come “onnipotente”, è destinato prima o poi a fallire, perché onnipotente non è; dall’altra, la carenza di fiducia nelle prescrizioni porta spesso ad autogestioni assai pericolose, quando non deleterie. Ma ambedue portano a peregrinare continuamente fra specialisti alla ricerca della soluzione definitiva che, sempre più spesso, di fronte alla patologia cronica, non esiste come tale.
Come si può allora parlare dell’ammalato e il “suo” medico, titolo di un libro di M. Trabucchi, uscito per le edizioni de Il Mulino il titolo è vagamente (volutamente?) retrò, ma proprio per questo i temi che tratta sono rivolti al presente e anche in modo assai incisivo. Vi è come una sottile provocazione che percorre le oltre 200 pagine del libro: la riappropriazione del rapporto medico/paziente, nonostante, come recita il sottotitolo, “successi e limiti” di tale relazione. In qualche modo la dolorosa notizia che ci dà Trabucchi, che non esistono cioè modi facili per risolvere situazioni difficili, è stemperata da una attenzione e da una riflessione metodologica alle volte concreta fino al dettaglio che ci “prende” proprio perché ci obbliga a non essere agnostici, ad avere un punto di vista su di noi e sui “nostri” malati. Attraverso una serie di temi che forniscono, a parere mio, lo scheletro del libro:
- La successione dei capitoli è “romboidale”; vi è, cioè, una analisi puntuale iniziale sul tema della complessità come “musica di fondo” della relazione, da cui si dipartono una serie di sviluppi paralleli e concreti, per poi convergere di nuovo, come dopo aver camminato per vari sentieri, verso un punto, unico anche se ampio: la volontà del medico e la volontà del malato, oggi, di fronte ai dilemmi etici che le possibilità della tecnologia biologica ci pongono. La conclusione è la proposizione di un “modello”.
- La complessità e la sua assunzione come paesaggio “normale” all’interno del quale si muove oggi il medico, richiede una visione unitaria, una multidimensionalità che non è fatta di “tanti pezzi”, perché così sarebbe solo medicina complicata e non complessa. È fatta, invece, di tante relazioni e interconnessioni fra le varie dimensioni, biologica, sociale, spirituale, ma anche fra i vari livelli gerarchici di organizzazione di ogni sistema (il significato di una lesione d’organo che occorre leggere all’interno dei possibili compensi di altri organi e apparati, il significato di una lesione che dipende anche dal contesto di valori che possiede il malato, la sua vita ecc.). Insomma, un “olismo” che “…carica il medico di responsabilità e cultura non comuni…” e che “…non è una sovrastruttura al ragionamento clinico, ma un elemento strutturale dello stesso, perché permette di mettere in rete i diversi aspetti della vita, identificando, ove possibile, i punti di contatto, le interazioni negative e positive, quello che, in sostanza, provoca la non linearità e l’impredicibilità degli eventi vitali…”; la valorizzazione del contesto per definire il significato dei dati clinici non è un lusso culturale, ma il modo normale della azione clinica nell’epoca della complessità; si sarebbe tentati di dire l’unico modo possibile. Altri elementi di complessità individuati, di grande interesse, sono la responsabilità del medico verso la qualità della vita e non solo la qualità della cura dell’ammalato, la ricerca, per arrivare alla responsabilità nella allocazione delle risorse, tema quanto mai attuale e controverso.
- Non a caso, come punti chiave di attualizzazione del discorso sulla complessità sono presi elementi in cui si gioca intera la qualità e la difficoltà della relazione, in cui entrano con un peso importante i vissuti soggettivi, non solo del malato. L’esperienza più soggettiva di tutte, quella del dolore che, proprio perché è esperienza non misurabile con tecnologia oggettiva, necessita di vicinanza, in qualche modo un percorso contrario a quello che viene continuamente raccomandato sulla “obiettività” e il distacco del medico. Allora compaiono parole che non siamo abituati ad associare alla attività clinica, come compassione, speranza. “..Come evitare una compromissione che teoricamente potrebbe alterare il giudizio clinico, senza però favorire il contemporaneo sviluppo di un rapporto “freddo”? Come conservare un giudizio critico, senza allontanare il medico dal suo paziente?…” E ancora “La speranza nella persona malata è uno strumento importante per aiutare il raggiungimento di una condizione migliore anche dal punto di vista fisico…“per cui occorre trovare un “grimaldello della speranza”, senza però ricorrere alla menzogna”. “La speranza non può mai essere fondata su informazioni falsate, perché sarebbe volgare illusione, trasmissibile da qualunque ciarlatano…” insomma, non bisogna falsare la prognosi, occorre solo non confondere la prognosi stessa con la speranza. Tutti, da un certo punto di vista, siamo a prognosi infausta, ma da questo dissociamo i tempi su cui giochiamo la speranza: si può sperare in quello che di meglio ci può essere domani o fra una settimana, oppure nel tempo escatologico della eternità.
- Non esiste solo il “che cosa” della relazione fra l’ammalato e il suo medico, ma anche il “come”. Nell’ampio capitolo sulla relazione si parte dall’ascolto e si insiste, giustamente, su questo, da molti punti di vista. Non solo l’anamnesi come momento speciale di ascolto da guidare tecnicamente ed empaticamente, ma tutti i momenti sono “ascolto”, compreso l’uso della diagnostica e dei farmaci. Trabucchi ci vuole dire che un modo sbagliato nel dare una terapia giusta è altrettanto grave di un modo giusto nel dare una terapia sbagliata. Quell’ “essere” che era considerato un elemento accessorio e finale del sapere sanitario (sapere, saper fare, saper “essere”) nel mondo della complessità può essere messo spesso al primo posto e, se carente, inficiare il valore della cultura della capacità tecnica di qualunque medico.
- Nei capitoli finali si affrontano i temi dell’etica, della volontà del malato e, alla fine, della qualità della relazione fra l’ammalato e il suo medico, ritornando al significato del titolo. Anche qui: l’etica non viene vista come una problematica aggiunta alla clinica, ma come il modo normale di chi deve anche accompagnare, consigliare, se vuole essere un medico che fa bene il suo mestiere. Gli sviluppi tecnologici e biologici pongono problemi che non hanno risposte preformate e indiscutibilmente accettate da tutti. La soluzione è nel rapporto, nella vicinanza, nell’empatia che è condizione vera di rispetto non formale della volontà dell’ammalato. Solo a partire da questa vicinanza si può discutere di direttive anticipate. È questo che dà il senso alla speranza, all’ottimismo conclusivo dello sguardo dell’autore sulla medicina: “la lettura della storia, anche recente, non concede spazio al pessimismo, perché la capacità che la medicina ha di auto modificarsi è un esempio di realtà sociale che risponde ai compiti ai quali è chiamata…nonostante il pessimismo sul presente, riconoscere che la medicina, con il suo impegno umano, resta sempre la stessa, e che così riesce a tradurre il meglio della scienza in atti di cura, è motivo di soddisfazione per noi che della medicina siamo gli attori modesti e operosi”. Si può dire meglio?