18 Novembre 2020 | Servizi

Hospice: vicino a chi muore

C’è un luogo dove le persone affette da una malattia inguaribile, in fase terminale, possono trovare accoglienza, sostegno e assistenza. E’ l’hospice, struttura che alla base del suo funzionamento ha la centralità del malato e il rispetto della sua autonomia decisionale.


Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso … Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, la ferma e, cauto, con due dita protese le dice: – scusi permette? Lei, egregio signore, ci ha la morte addosso” – e con quelle due dita protese, la piglia e butta via
(Luigi Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca)

 

La coscienza della morte, la conoscenza del suo sopraggiungere e dell’impossibilità di mutare questo destino crea la differenza tra la specie umana e altre forme viventi.

 

Ma quando l’incontro con una malattia a prognosi infausta si manifesta, chi se ne scopre affetto si trova nella necessità di dover improvvisamente guardare la morte negli occhi e cercare il modo migliore per affrontare un appuntamento diventato prossimo.

 

Il manifestarsi di una malattia inguaribile, infatti, costringe alla separazione da un corpo sano ed efficiente e all’ingresso in un nuovo percorso che riguarda non solo gli aspetti cognitivi relativi alle strategie da adottare a livello delle cure, ma che comprende anche un tumulto emotivo in cui sentimenti, vissuti, desideri, illusioni, speranze si rincorrono con moto oscillante e di diversa intensità.

 

La ricostruzione di una nuova identità personale non è compito semplice quando si scontra con le profonde paure connesse alla patologia. Solitudine, isolamento, angoscia, mutilazioni, menomazioni, dolore fisico e psichico.

 

“Bisognerà per forza/attraversare alla fine/la porta dello spavento supremo”, definisce Franco Battiato l’esperienza ultima della vita umana. Esistono tuttavia porte al di là delle quali la morte riesce a trovare una propria dimensione per essere compresa, accolta come manifestazione dell’esistenza, supportata con tatto, pazienza, tempo, disponibilità umana.

 

C’è un tempo per morire

Sono le porte dell’hospice, il modello più antico del mondo finalizzato all’accoglienza e all’assistenza del malato terminale, quando la terapia su di lui non ha più efficacia. Il suo nome trae origine dagli hospices (ostelli) che nel Medioevo erano utilizzati come stazioni di passaggio per i pellegrini diretti in luoghi lontani di culto religioso. I lunghi e impegnativi trasferimenti risultavano faticosi per le persone malate, la cui morte, non improbabile durante il viaggio, avveniva proprio in questi ricoveri.

 

E’ il Saint Cristopher’s Hospice il primo a nascere a Londra nella metà degli anni Sessanta.

 

In Italia il riconoscimento ufficiale in materia di cure palliative è stato sancito con la legge 39 del 26 febbraio 1999 “Disposizioni per assicurare interventi urgenti di attivazione del Piano Sanitario Nazionale 1998-2000” e con i decreti collegati: D.M. 28 settembre 1999 “Programma Nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative” e il D.P.C.M. 20 gennaio 2000 “Atto di indirizzo e coordinamento recante i requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per i centri residenziali di cure palliative”.

 

Le esperienze assistenziali, fondate sul modello dell’hospice inglese, hanno come propria filosofia la sostituzione del principio della “cura come guarigione” con quello del “prendersi cura” attraverso una relazione empatica e profonda, dove il malato possa trovare, unitamente alle cure palliative, calore, sincerità e competenza per vivere al meglio l’ultimo tratto della sua storia.

 

Sono utenti di questo servizio i pazienti affetti da patologie inguaribili nella fase terminale della malattia (principalmente oncologici). La loro sofferenza parte da una malattia organica che non manca di esprimersi a un livello che coinvolge l’intera persona nelle sue dimensioni fisiche, psicologiche, sociali, spirituali.

 

L’hospice si inserisce come ulteriore anello complementare nella rete dei servizi quando l’assistenza all’interno dell’abitazione è insufficiente a coprire i bisogni del malato, quando la medicina tradizionale non riesce più ad offrire terapie adatte ad alleviare il dolore del paziente, quando la famiglia che se ne fa carico ha bisogno di sostegno.

 

I servizi forniti dall’hospice possono essere così riassunti: ricovero, cure sanitarie prevalentemente palliative, assistenza psicologica, sociale, spirituale, accompagnamento del familiare nella rielaborazione del lutto, presenza di volontari per le attività di accompagnamento, compagnia e ascolto, supporto domiciliare quando il malato viene accolto per brevi periodi e poi dimesso.

 

Il numero degli ospiti è intorno alla decina, l’organizzazione del lavoro è fondata sull’équipe multidisciplinare e tutto il personale dispone di una preparazione tecnica specializzata, nonché etica e psicologica. Il gruppo curante è composto da medici palliativisti, infermieri, operatori socio-sanitari, psicologo, assistente spirituale, fisioterapista, volontari.

 

Esiste inoltre una particolare attenzione all’ambiente orientata ad offrire al paziente il massimo comfort: camere singole con bagno dotate dei necessari impianti medicali e poltrona-letto per il familiare che desidera fermarsi durante la notte; mancanza di limitazione di orari alle visite; possibilità di personalizzare la propria stanza. Gli spazi comuni comprendono una cucinetta/tisaneria; una sala soggiorno/pranzo, un locale con bagno assistito, lo studio medico ambulatoriale, l’infermeria.

 

Il servizio è gratuito in quanto sostenuto dal servizio sanitario regionale.

 

Prendersi cura, verità o menzogne

Alla base del funzionamento dell’hospice è la centralità del malato e il rispetto della sua autonomia decisionale, così come stilato nei principi fondanti della Carta dei diritti dei morenti (Fondazione Floriani, 1999), tra cui il diritto a non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere, il diritto a partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà, il diritto a non morire nell’isolamento e nella solitudine.

 

Soprattutto questi ultimi trovano ragione in una società sempre più disarmata nei confronti della morte e privata dall’appoggio delle tradizioni che un tempo sostenevano le tappe fondamentali dell’esistenza, dove diventa difficile affrontare e condividere con il paziente il suo desiderio di sapere e le sue angosce di morte.

 

Si arriva spesso a ignorare che il morente è soprattutto una persona ancora viva, che anche nell’avvicinarsi della fine cerca di dare un senso alla propria esistenza e che può, se gliene viene offerta l’opportunità, trasformare l’ultimo passo in un sigillo della vita stessa.

 

Comunicazione e ascolto diventano quindi gli strumenti fondamentali per stare accanto al malato durante il suo attraversamento del processo del vivere-morire, al fine di garantirgli una buona qualità di vita e assicurargli un rapporto basato sulla fiducia. Una formazione continua del personale non trascura questi due pilastri della relazione di aiuto. Ogni operatore è chiamato a saper cogliere l’attimo in cui diventa importante fornire supporto, contenere lo stress, personalizzare le informazioni sulla base di quanto il malato desidera sapere, orientare il processo decisionale rispetto a cambiamenti delle terapie, ma anche imparare o migliorare la capacità di affrontare il silenzio. Tali indicazioni valgono soprattutto a livello dell’informazione della diagnosi e della prognosi, poiché è proprio a tale riguardo che si innescano spesso grovigli comunicativi che causano nel malato maggior sconforto e sensazione di tradimento.

 

Un emblematico esempio del tenere nascosta la verità ci è offerto da un classico della letteratura (Tolstoj, 1961): “Il principale tormento di Ivan Il’ic era la menzogna – la menzogna chissà perché adottata da tutti – che lui fosse soltanto malato, non già sulla via di morire, e che gli bastasse star tranquillo e curarsi, e allora ne sarebbe venuto tutto di bene … era questa menzogna a tormentarlo, era il fatto che non volessero riconoscere quello che tutti sapevano e che anche lui sapeva, ma mentissero invece sulla sua orribile condizione e costringessero anche lui ad avere parte nella menzogna”.

 

La commedia reciproca che si innesca nella relazione non vieterà al malato di accorgersi del peggioramento delle sue condizioni e, scoprendosi vittima di inganni, svilupperà ancor più un atteggiamento di chiusura e indifferenza per il mondo circostante.

 

Un rapporto di fiducia e veramente “accanto” all’altalena dei vissuti del sofferente aiuterà la persona a legittimare le proprie paure, a sentirsi rassicurato, a trovare spazio per confidenze ed intimità con le persone più care e a permettere alla morte di fare ingresso nella sua stanza.

 

Per ognuno che affianca il malato il miglior atteggiamento è quello di essere veri: non trattenere le lacrime, non indossare maschere, non nascondersi dietro l’attivismo, bensì accettare la propria debolezza di fronte alla morte, dare un senso al tempo che resta da vivere, vivere straordinariamente tutti gli eventi minimi che capitano ogni giorno.

 

Il coinvolgimento del familiare

Non è sicuramente un compito semplice, soprattutto per i famigliari, che nella maggior parte dei casi si trovano impreparati a comprendere e affrontare il passaggio finale. Eppure il rapporto con i propri cari ha un’influenza molto rilevante sullo stato del malato. Il tempo ultimo per il familiare dovrebbe essere quindi quello dell’intimità, del ringraziamento, della condivisione, dell’accettazione della presenza del limite: dove c’è il tempo per creare questo equilibrio, la fase terminale diventa il “tempo del congedo” che dà forza sia al malato sia al congiunto.

 

Entrambi devono attraversare una serie di stadi psicologici fra di loro non dissimili e che costituiscono le diverse modalità di reagire all’evento.

 

La malattia, quando diagnosticata infausta, porta alla luce anche nel familiare non solo la difficoltà di gestire il proprio tormento, ma anche la necessità di ridefinire ruoli, funzioni, modalità relazionali e comunicative con il congiunto da assistere e con il resto della famiglia.

 

Si può rilevare inoltre che tale drammatico evento diventa circostanza per evidenziare il complesso intreccio di relazioni sviluppate nel corso del tempo tra malato e suoi familiari (che sicuramente condizionano le capacità di fronteggiare la nuova condizione) nonché la maturità nel pensare al proprio processo di preparazione ed elaborazione del morire. E’ assai raro, infatti, che all’interno della cerchia familiare tale tema venga affrontato ed è quindi inevitabile che ognuno di noi vi giunga impreparato.

 

Posare lo sguardo sul patimento di una persona amata che sta avvicinandosi alla fine è un compito difficile e pesante che riflette l’incapacità umana ad accettare la sofferenza.

 

Se nella persona che si ammala, secondo la classificazione di Elisabeth Kubler-Ross (1976), medico psichiatra, si osservano le manifestazioni del rifiuto (non prendere atto della diagnosi e continuare la vita come se niente fosse); della rabbia (trovare un bersaglio da colpire per dare un senso a ciò che sta accadendo); del venire a patti (cercare compromessi per dilazionare il momento finale); della depressione (quando le illusioni sfumano di fronte all’ineluttabilità dei sintomi); dell’accettazione/rassegnazione (approdo ad una sorta di abbandono consenziente), analogamente nel familiare troviamo una prima fase legata al rifiuto della consapevolezza dell’imminenza della fine; una seconda che può essere caratterizzata da un’iperattività finalizzata a spostare l’angoscia percepita; una terza in cui si manifestano depressione e sensi di colpa e infine una quarta connotata da una più o meno rassegnata resa alla realtà di morte.

 

L’aumento dell’attivismo del familiare, in particolare, è generato dal desiderio di “distrarsi”, di impedirsi il confronto diretto con i sentimenti e i pensieri angoscianti generati dalla paura di perdere la persona amata, ma verosimilmente anche finalizzato al tentativo di proteggere il morente dalla dolorosa consapevolezza della sua condizione, proponendogli la partecipazione a comportamenti ancora vitali, come ad esempio ostinarsi ad imboccare nonostante la dichiarata inappetenza o obbligare all’alzata dal letto.

 

Resta tuttavia difficile operare una classificazione dei comportamenti che si possono manifestare in quello che usualmente viene definito lutto anticipatorio. Sensazioni di stordimento e di impotenza, apprensione accompagnata da rabbia o attacchi di panico, impressione di irrealtà e di pensiero bloccato fanno parte di quelle fasi poco sopra elencate e che possono assumere un andamento diverso a seconda del tipo di legame che si ha con il morente.

 

E’ chiaro che quanto più si escluderanno informazioni sulla realtà della patologia, tanto più complesso diventerà il raggiungimento dell’accettazione. Questi processi psicologici potranno sovrapporsi o influenzare quelli attraversati dal malato, peggiorando ulteriormente il suo stato esistenziale.

 

Viceversa, il riconoscimento delle emozioni vissute aiuterà a intraprendere una comunicazione aperta e franca col proprio assistito, affrontando le problematiche da lui poste, rispettando i suoi tempi e le sue modalità, fornendogli le opportune informazioni per contenere le sue paure.

 

Per acquisire questi comportamenti occorre però un aiuto psicologico. Anche su questo versante l’hospice interviene: offre il sostegno al parente che deve svolgere la difficile prova di continuare a vivere mentre il proprio caro lo sta lasciando per sempre e risponde alle sue domande. Domande che sono bisogni: ricevere rassicurazioni sul fatto che il malato non stia soffrendo, essere informato sulle sue reali condizioni, trovare il giusto modo di comunicare le proprie emozioni, capire che non è importante quanto, ma come vivere questo immisurabile tempo insieme al proprio caro.

 

Perché arriverà il momento in cui lo stato di indebolimento si accentua, le parole divengono superate e il morente lentamente comincia a distaccarsi dagli apporti esterni e diventa più introspettivo, alla ricerca della propria vita passata per rintracciarne valore e significato, fino a concentrarsi esclusivamente sull’esperienza che sta attraversando, così simile, secondo la bella espressione dello psicanalista Michel de M’Uzan (1983) “ad un parto di se stessi, un tentativo di mettersi completamente al mondo prima di scomparire”.

Bibliografia

Boscia F., Gragnaniello G. (2020), Cure palliative e hospice. Aspetti medici, bioetici, religiosi e giuridici, Edizioni Insieme.

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Comitato Etico Fondazione Floriani (1999), Carta dei diritti dei morenti.

De Hennezel M. (1996), La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli.

de M’Uzan M. (1983), De l’art à la mort. Itinéraire psychanalytique, TELgallimard.

Kubler-Ross E. (1976), La morte e il morire, Cittadella Editrice.

Roncaglia M., Biancat R., Bidogia L., Bordin F., Martucci M. (2011), Il tempo del morire, Vega Maggioli.

Sozzi M. (2014), Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, Chiarelettere.

Tolstoj L. (1961), La morte di Ivan Il’ic, Rizzoli.

Vernocchi S. (2019), Le cure palliative. La gestione del fine vita e del lutto, Editori Vari.

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