15 Dicembre 2022 | Domiciliarità

L’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti tra il mercato privato e i servizi a titolarità pubblica

L’articolo, a partire dai risultati di una ricerca qualitativa condotta in Friuli Venezia Giulia, approfondisce il rapporto tra due soggetti chiave dell’assistenza domiciliare: l’operatore socio-sanitario (OSS) e l’assistente familiare.

L’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti tra il mercato privato e i servizi a titolarità pubblica

L’Italia è un Paese che si caratterizza per un approccio familista all’assistenza degli anziani non autosufficienti (Di Rosa et al., 2010); spesso le famiglie prediligono occuparsi in prima persona delle cure di cui necessitano i propri anziani, all’interno delle mura domestiche e senza intrusioni di soggetti terzi ed esterni. La persistenza di un welfare familistico ha condotto il Paese ad una preferenza di policy orientata ai trasferimenti monetari, a scapito dei servizi reali a titolarità pubblica. Infatti, questi ultimi hanno visto diminuire i finanziamenti a loro favore e, conseguentemente, la loro capacità di rispondere ai bisogni delle famiglie, non riuscendo a garantire l’intensità assistenziale richiesta.

 

Suddette tendenze hanno portato allo sviluppo parallelo – a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – del mercato privato dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Ad oggi, le recenti trasformazioni demografiche, l’aumento dell’occupazione femminile (Di Rosa et al., 2010), il progressivo peggioramento delle condizioni di salute degli anziani e l’incapacità dei servizi pubblici di rispondere ai bisogni delle famiglie, hanno comportato una crescente difficoltà per i familiari nell’occuparsi dell’ assistenza ai propri anziani rendendo necessaria la ricerca di un supporto esterno, spesso individuato nella figura dell’assistente familiare1. Ad ogni modo, l’assistenza privata non ha totalmente estromesso l’intervento pubblico; le due modalità, sebbene con differenti proporzioni, coesistono2.

 

Una ricerca qualitativa in Friuli Venezia Giulia

La ricerca che la scrivente ha svolto nell’ambito del progetto di tesi per la laurea magistrale in Metodologia, Organizzazione e Valutazione dei Servizi sociali dell’Università degli Studi di Trento, e condotta tra dicembre 2021 e marzo 2022, si è focalizzata sulla compresenza del servizio pubblico e dell’assistenza privata, con l’obiettivo di indagare come sia possibile integrare il lavoro di cura delle assistenti familiari con quello delle operatrici socio-sanitarie (OSS) che operano nel servizio di assistenza domiciliare (SAD) e, più in generale, quali politiche possono essere realizzate per perseguire questo obiettivo.

 

Per rispondere a tali quesiti è stata condotta una ricerca di tipo qualitativo con campionamenti di convenienza3e a valanga4, dettati dal criterio della facilità di accesso alle fonti d’informazione. In totale sono state intervistate dodici persone tramite delle interviste semi-strutturate5. In particolare, le persone coinvolte nella ricerca6sono:

  • due assistenti sociali di Area anziani;
  • due assistenti sociali coordinatrici di Area anziani;
  • due OSS del SAD[Note]Il SAD è esternalizzato ad una Associazione Temporanea d’Impresa – ATI.[/note];
  • due OSS coordinatrici del SAD ;
  • due assistenti familiari;
  • due familiari caregivers.

 

Il territorio di riferimento è quello dei due Servizi sociali dei Comuni dell’Alto Friuli, in Friuli Venezia Giulia: entrambi vantano un territorio vasto ma disomogeneo per quanto riguarda i caratteri economici, sociali e demografici; infatti i Comuni più a sud presentano le caratteristiche tipiche di un territorio pedemontano e meno svantaggiato, mentre a nord si incontrano le zone di media e alta montagna che presentano le difficoltà maggiori come le lunghe distanze per raggiungere i centri abitati più popolosi, servizi e trasporti pubblici carenti, spopolamento e isolamento, età media elevata.

 

Stante che la ricerca non aveva meramente un obiettivo di tipo esplorativo ma desiderava anche poter cogliere elementi migliorativi riguardanti i due fornitori di assistenza in analisi, si è ritenuto utile approfondire i limiti del SAD e dell’assistenza privata, sollecitando gli intervistati a indicare possibili soluzioni che potessero ovviare le criticità rilevate. Indagare le difficoltà e gli ostacoli che gli operatori, le assistenti familiari e i familiari caregivers individuano nel quotidiano tanto nel servizio pubblico quanto nel lavoro di cura privato, ha permesso di comprendere che, alle volte, alcune criticità non sono di immediata risoluzione in quanto fanno parte di un più ampio sistema di interdipendenze tra elementi strutturali e ambientali. Secondariamente, ma non per importanza, l’attenzione è stata rivolta alla integrazione tra il lavoro di cura pubblico e quello privato, indagando se veniva considerata come necessaria, come poteva essere concretizzata, cosa la poteva ostacolare.

 

I limiti dell’assistenza domiciliare

A differenza di quanto la letteratura ipotizza, ovvero che il SAD offre assistenza prevalentemente a persone indigenti o prive di una rete di supporto (Tidoli, 2017), nei due territori analizzati è emerso come vi siano persone che pagano fino alla quota massima di compartecipazione. Al tempo stesso vi sono utenti che, pur potendo contare su una rete di supporto, beneficiano dell’aiuto qualificato del SAD, in quanto la famiglia non dispone di competenze o tempo sufficienti per poter prestare l’assistenza necessaria (ad esempio, a causa degli impegni lavorativi dei caregivers familiari).

 

“Ci troviamo spesso in situazioni nelle quali abbiamo delle persone indigenti e delle persone con degli ISEE molto elevati.” (ASC1)

 

“Adesso arrivano persone anche senza un disagio particolare. Forse una volta sì, erano più quelle emarginate… no, no, da noi arrivano persone con famiglie anche molto buone, quindi con familiari, sì. Solo che hanno bisogno di un aiuto, di una persona come la OSS, che sa come lavare una persona, sa come approcciarsi… non solo, anche perchè ci sono anche persone che pagano 25 euro l’ora il servizio…” (AS2)

 

Inoltre, i ridotti investimenti sul servizio di assistenza domiciliare incidono sulla disponibilità di risorse umane. Dalla ricerca si nota come, nei due territori di riferimento, il SAD riesce a garantire l’assistenza nella maggior parte dei casi solamente durante la mattina, lasciando alle famiglie l’onere dell’assistenza dalla fascia pomeridiana a quella serale. Dalle interviste emerge una possibile soluzione condivisa, consistente nel suddividere gli operatori socio-sanitari in due turni: un turno mattutino e un turno pomeridiano/serale in modo tale da poter garantire assistenza durante tutto l’arco della giornata – che è ciò che il SAD dovrebbe fare. La proposta, tuttavia, rimane utopia senza i necessari aumenti di investimenti pubblici sul servizio.

 

“Le risorse che abbiamo o le concentriamo alla mattina per l’alzata oppure le togliamo all’alzata e le spalmiamo durante la giornata. Questo eh… un po’ ci limita, però vedo che sarebbe una richiesta abbastanza pressante, anche motivata, di tante famiglie.” (AS1)

 

“Allora il discorso del superamento delle fasce orarie, secondo me, c’è sempre alla base la parte economica. Cioè se ci fossero investimenti sul SAD, si potrebbe anche assumere un numero maggiore di operatori. Quindi potremmo cercare di garantire fasce orarie anche più adeguate alle persone, anche aumentare le tempistiche.” (OC1)

 

Un’ulteriore difficoltà segnalata dalle OSS riguarda le problematicità relazionali che talvolta ostacolano il rapporto con gli anziani assistiti. Il lavoro di cura pubblico nella maggioranza dei casi si limita ad un mero supporto nelle attività di igiene della persona non autosufficiente portando ad un contatto con la sfera più intima e privata delle persone. Entra dunque in gioco inevitabilmente il tema del pudore, del riconoscimento e dell’accettazione della propria condizione di fragilità.

 

“Noi […] dobbiamo entrare nelle case delle persone. E certe persone potrebbero anche non accettarti. […] Quindi secondo me la difficoltà del SAD è proprio il cercare e il riuscire a trovare una sintonia con l’utente.” (O1)

 

Infine, alcuni intervistati hanno evidenziato gli ostacoli derivanti dall’esternalizzazione del SAD ad una cooperativa. Secondo alcuni, infatti, l’esternalizzazione ha comportato l’inserirsi di un ulteriore e superfluo interlocutore che si è posto tra la persona anziana e l’assistente sociale, rendendo alle volte onerosa l’organizzazione dell’intervento.

 

I limiti del lavoro privato di cura

Spostando l’analisi sull’assistenza familiare, ciò che appare evidente è la mancanza di un ricambio generazionale: ci sono sempre meno assistenti familiari private, e quelle al momento occupate presentano un’età media crescente, esattamente come rilevato dai diversi report disponibili sull’argomento (Pasquinelli et al., 2021). A tal riguardo, c’è chi ipotizza che il lavoro privato di cura possa essere una nuova soluzione lavorativa per coloro che desiderano avvicinarsi al mondo dell’assistenza, ma che non hanno, per esempio, le competenze e i titoli necessari per ambire ad un’assunzione in un ente privato o presso un servizio pubblico.

 

“Infatti l’altra domanda che mi viene in mente, quando non ci saranno più le badanti? Come la mettiamo? Perché già non c’è il ricambio generazionale. Tante badanti mi dicevano «Guarda mia figlia non verrà assolutamente a fare questo tipo di lavoro.»” (ASC2)

 

Tra le criticità emerge la carenza formativa delle assistenti familiari e l’ostacolo che rappresenta la mancata conoscenza della lingua italiana per tutte le lavoratrici straniere da poco in Italia, elemento portato alla luce da quasi la totalità delle intervistate. Una soluzione nominata dai più, e frequentemente già praticata nei territori analizzati, potrebbe essere quella di organizzare corsi di formazione specifici dedicati all’apprendimento di competenze certificate.

 

“Ci sono alcune, molte, che hanno bisogno di essere sostenute in un percorso formativo. Anche perché lavorare con una persona che ha avuto un esito da ictus è diverso da una persona che cammina benissimo ma ha un problema di grave demenza, ad esempio, oppure una ripresa da long covid.” (ASC1)

 

Uno spunto di riflessione ulteriore, emerso dalle interviste, riguarda la motivazione: non tutte le assistenti familiari svolgono il lavoro di cura per scelta e vocazione; spesso le badanti non hanno alternative7. La mancata motivazione al lavoro di cura può comportare, in ultima istanza, un rischio per l’anziano e un’assenza o una ridotta empatia da parte dell’assistente familiare con delle ripercussioni in termini di qualità assistenziale.

 

“Si vede la diversità della badante proprio che assiste perché, cioè, le piace fare questo lavoro qua, e la badante che invece lo fa per un puro interesse economico.” (OC1)

 

Le caregivers familiari intervistate hanno inoltre sottolineato come non sia stato facile riuscire ad individuare le assistenti familiari, nemmeno rivolgendosi alle agenzie dedicate. Questo poiché risulta complesso allineare le richieste in termini di assistenza delle famiglie alle disponibilità offerte – ad esempio in termini orari – dalle assistenti private.

 

“Ho provato privatamente, per passaparola, tutti i canali che ho… […] Però quando venivano a vedere il posto, il mal collegamento delle corriere, non hanno il loro gruppo e il lavoro spaventava. Per cui tutti mi hanno poi… oppure qualcuna l’abbiamo scartata, tra virgolette, noi perché o non parlava bene la lingua, non si faceva capire, per cui era necessario avere a che fare con gli anziani… oppure fisicamente non era in grado di svolgere il lavoro, perché erano persone molto vicine alla pensione, con problemi anche fisici e… le scale da fare, era necessario portare anche legna…” (FC2)

 

Dal punto di vista delle assistenti familiari, si evidenziano le difficoltà che vivono nei primi tempi dopo l’inserimento in una nuova famiglia, dovuti alla non conoscenza del contesto familiare e dell’anziano, dei suoi bisogni e delle sue esigenze. In aggiunta, non conoscono l’abitazione dove si andrà a vivere (se è prevista la convivenza) e l’organizzazione degli spazi domestici. Tali difficoltà vengono meno dopo un primo e fisiologico periodo di ambientamento della assistente privata.

 

“Quando cambiamo lavoro un po’… Una settimana, due settimane, anche per me e per tutti… per me sono un poco male. Perché non conosce la persona, non conosce la famiglia, non conosce la casa. È un poco complicato. Dopo, piano piano, ti abitui. Con loro capisci tutto. Sei come una famiglia.” (AF1)

 

L’integrazione tra l’operatore socio-sanitario e l’assistente familiare

Secondo le ipotesi di alcuni autori (Di Rosa et al, 2010), OSS ed assistenti familiari collaborano in un medesimo contesto domiciliare nel momento in cui diventa essenziale un aiuto maggiormente qualificato. Nei casi in cui le cure necessitano di competenze maggiormente specifiche l’OSS tende a sostituire la figura dell’assistente familiare, la quale spesso non è adeguatamente formata per prestare assistenza nelle situazioni che richiedono una maggior competenza tecnica. In aggiunta, la ricerca svolta porta all’evidenza il fatto che l’OSS entra in un contesto domiciliare in cui c’è già un’assistente familiare soprattutto quando questa non può garantire una continuità assistenziale – ad esempio poiché lavora ad ore.8. Allo stesso modo, la compresenza tra l’OSS e l’assistente familiare si può realizzare nelle situazioni in cui le caratteristiche dell’anziano – ad esempio una grave non autosufficienza – rendono necessaria una compresenza per svolgere alcune attività mirate (ad esempio di igiene). In questi casi, solitamente, il servizio di assistenza domiciliare prevede l’accesso in coppia di due OSS, ma nelle situazioni in cui è già presente un’assistente familiare, il SAD ne impiega solo una. In tali occasioni, si crea un rapporto tra OSS e badante non di semplice “sostituzione” della prima nei confronti della seconda, quanto di complementarità tra le due, di collaborazione e coordinamento.

 

“…dove l’assistente familiare comunque da sola non riusciva a gestire la persona nell’igiene quotidiana. Solo per quello. E quindi invece di entrare in doppio con il SAD, si entrava in doppio, ma con la assistente familiare. […] E se no diciamo noi si entra nelle case, ma quando l’assistente famigliare ha la giornata libera.” (OC2)

 

Nonostante tutti gli intervistati abbiano rilevato come necessaria la collaborazione tra le OSS e le assistenti familiari private, a questo proposito, si apre un ulteriore tema connesso alle possibili difficoltà collaborative che si possono creare nel rapporto di collaborazione tra questi due soggetti. Spesso capita che l’assistente familiare percepisca l’OSS come colei che le “sottrae il lavoro”, si sente minacciata dalla sua presenza in quanto non la riconosce come una risorsa che interviene in suo supporto. Dalle interviste, tuttavia, si nota che l’assistente familiare integrata in un sistema della domiciliarità che non si sente isolata – perché conosce i professionisti che operano sul territorio e sa a chi rivolgersi nel momento del bisogno – accetta positivamente la presenza dell’OSS. L’assistente familiare che conosce le risorse del territorio comprende che l’accesso di un operatore socio-sanitario all’interno della situazione che sta seguendo non implica la messa in discussione della sua professionalità, ma è necessaria per garantire all’anziano l’assistenza che le sue condizioni di salute richiedono e al tempo stesso le permette di ricevere supporto rispetto al suo carico assistenziale.

 

“La badante che è più inserita in un gruppo di appartenenza, che ha avuto più rapporti con i servizi, … per cui è conosciuta, per cui è da tanto tempo e che ha passato più famiglie, è quella più elastica, più disponibile. Sa chiamare, sa anche dire «Io adesso non ce la faccio e ho bisogno del servizio». Invece la badante più isolata, che non conosce tanto i servizi, che non ha avuto rapporti, che è piombata qua dall’Ucraina ieri, molto spesso è quella più rigida perché […] dire che hanno bisogno dell’OSS per garantire l’assistenza è come se riconoscessero di non essere abbastanza capaci, no.” (AS1)

 

Alla luce di quanto discusso, è evidente l’importanza di creare occasioni formative, le quali oltre a portare ad un miglioramento delle competenze professionali delle assistenti familiari, consentono loro di conoscere il territorio e le risorse a cui fare riferimento in caso di necessità. È importante quindi che i percorsi formativi siano tenuti e organizzati dagli stessi professionisti che lavorano sul territorio e che le assistenti familiari – così come le famiglie stesse – possono contattare e a cui possono rivolgersi nel momento in cui necessitano di un supporto ulteriore nell’assistenza all’anziano.

 

“Volevamo che chi parlava della prevenzione delle piaghe da decubito fosse l’infermiera del territorio che dopo le avrebbe re-incontrate nelle case, che loro avrebbero re-incontrato e riconosciuto. Così come quando veniva il medico di base a parlare di elementi di medicina generale o la farmacista sulla conservazione dei farmaci… tutti, sì, persone locali.” (AS1)

 

L’importanza di una maggiore integrazione

La ricerca qui illustrata presenta sicuramente delle criticità e dei limiti, primo fra tutti l’esigua platea di intervistati e le specifiche caratteristiche del territorio montano di riferimento, che non permettono di generalizzare sufficientemente i risultati. Chi scrive ritiene tuttavia che, in conclusione, si possa affermare che sia fondamentale sostenere le assistenti familiari a sentirsi parte della comunità, del territorio, di una rete, di un più ampio sistema della domiciliarità. Questo permette loro di conoscere le risorse di cui sia un anziano, sia loro stesse e le famiglie datrici di lavoro, possono necessitare nel corso della vita privata e lavorativa. Pertanto, è fondamentale organizzare corsi di formazione, progettualità specifiche, così come percorsi di tutoring delle OSS rivolti alle assistenti domiciliari o ai caregivers familiari, con l’obiettivo di creare una rete attorno a tali soggetti.

 

Le relazioni tra i beneficiari e coloro che forniscono l’assistenza, così come tra diversi fornitori di assistenza – pubblici e privati – vanno coltivate quotidianamente, con la consapevolezza che tutto ciò richiede fatica e costanza. In particolare, vanno migliorate costantemente le relazioni tra le assistenti familiari e le OSS, in quanto queste due figure sono complementari: l’OSS riesce a garantire un aiuto maggiormente qualificato che invece l’assistente familiare non sempre riesce a offrire; al tempo stesso però l’OSS non è in grado di garantire un’assistenza continua o la condivisione della quotidianità con l’anziano. Tali figure assistenziali trarrebbero reciproco giovamento da un confronto e da una collaborazione quotidiana: da un lato l’OSS può ricevere importanti informazioni dalla assistente familiare circa lo stato di salute dell’anziano, potendolo osservare nell’arco dell’intera giornata o per più ore e giorni di seguito, dall’altro l’assistente familiare può apprendere importanti competenze assistenziali facendosi supportare da un operatore socio-sanitario del sistema di assistenza domiciliare.

Note

  1. Le assistenti familiari, spesso donne e straniere, si sono via via inserite nel mondo dell’assistenza fino a raggiungere – secondo alcune stime, in quanto il lavoro privato di cura è in maggioranza irregolare e quindi sommerso – più di un anziano non autosufficiente su tre (Pasquinelli et al., 2021.
  2. Vi sono diverse situazioni in cui l’anziano non autosufficiente viene assistito sia da una assistente familiare, sia da una operatrice socio-sanitaria (OSS) del SAD.
  3. Il campionamento di convenienza viene effettuato con un metodo non probabilistico che non offre a tutte le unità della popolazione la stessa possibilità di entrare a far parte del campione.
  4. Il campionamento a valanga prevede di scegliere un certo numero di soggetti dotati delle caratteristiche richieste dall’indagine, intervistarli e chiedere loro altri nominativi da intervistare, in modo da creare un “effetto valanga”.
  5. Le interviste semi-strutturate sono interviste che garantiscono un modesto o forte coinvolgimento reciproco tra intervistato e intervistatore e una scarsa standardizzazione sia delle domande che delle risposte.
  6. Nelle interviste verranno così indicate: AS1 e AS2, le assistenti sociali; ASC1 e ASC2, le assistenti sociali coordinatrici; O1 e O2, le OSS; OC1 e OC2, le OSS coordinatrici; AF1 e AF2, le assistenti familiari; FC1 e FC2, le familiari caregiver.
  7. Alcune lo fanno in mera prospettiva economica, ossia per accumulare risparmi da poter inviare alla propria famiglia rimasta nel Paese di origine.
  8. Ciò potrebbe accadere anche con il giorno di riposo dell’assistente familiare.

Bibliografia

Di Rosa, M., Melchiorre, M. G., Lamura, G. (2010), I servizi domiciliari tra reti informali e assistenti familiari, in Network Non Autosufficienza, L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, 2° Rapporto, Maggioli.

Pasquinelli, S., Pozzoli, F. (2021), Badanti dopo la pandemia, Quaderno WP3 del progetto “Time to care”.

Tidoli, R. (2017), La domiciliarità, in Network Non Autosufficienza, L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, 6° Rapporto, Maggioli.

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