1 Marzo 2012 | Residenzialità

Quando i migranti curano: fra straniero e familiare, la cura dell’Altro in RSA

Quando i migranti curano: fra straniero e familiare, la cura dell’Altro in RSA

“Vittima romantica della nostra pigrizia familiare, o intruso responsabile di tutti i mali della città?

…Né l’uno né l’altro… Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità”

(J. Kristeva, “Stranieri a se stessi”,1988)

 

Premessa: le ragioni di una ricerca, la cornice teorica

Straniero, familiare: pare quasi un ossimoro, una contraddizione, ma questo titolo è stato scelto perché include molte delle questioni alla base della ricerca svolta presso l’Istituto Geriatrico Redaelli. Chi è lo straniero che ci sembra ormai così familiare, in quanto lavora al nostro fianco, nei reparti ospedalieri e nelle stanze delle Case di Riposo? Siamo sicuri di conoscerlo, di sapere cosa pensa, cosa sente? E dunque, chi è lo straniero che “si fa” familiare per i nostri anziani che spesso familiari non ne hanno più, e che vivono l’Istituzione come il loro luogo “di famiglia”, ovvero la loro casa? Infine, che rapporto c’è fra questo “straniero” e il nostro essere “stranieri a noi stessi”? Quali i punti d’incontro, quali le distanze, reali o percepite? Queste ultime due domande, in particolare, si giustificano a partire dalla lettura che la psicoanalisi freudiana fa della relazione fra il soggetto e l’altro da sé, e fra il soggetto della coscienza e quell’Altro che è il soggetto inconscio.

 

Per quanto Freud non parli specificamente del problema degli stranieri, egli ci indica infatti come scoprire “l’inquietante estraneità” (Il Perturbante, sarà il titolo di un suo saggio) dentro di noi, unico modo per non perseguitarla fuori (Freud, 1967). Del resto, come sostiene la psicoanalista Julia Kristeva (1990), nella sua lettura del fenomeno della migrazione, “Come si potrebbe sopportare uno straniero, se non ci si sapesse stranieri a se stessi?” la nozione freudiana di inconscio integra dunque l’estraneo nello psichico: lo “straniero” non è più patologico, ma diviene parte essenziale della presunta integrità dell’uomo1.Per questo il presente lavoro di ricerca trova nella psicoanalisi la sua cornice teorica: essa garantisce una lettura del legame sociale come etica del rispetto dell’altro e della differenza. Parlare di “integrazione” non significa dunque illudersi di cancellare tout court la diversità, allontanandola da noi, quanto piuttosto lasciare che la diversità contamini la nostra supposta compiutezza, ci attraversi, ci renda magari un po’ più instabili, ma senz’altro più complessi e, in questo senso, più ricchi.

 

La cura che viene dall’altro: una realtà sociale da approfondire

Da tempo i luoghi di cura in Italia possono continuare ad offrire la loro offerta sanitaria ed assistenziale grazie ad operatori stranieri; sempre più si evidenzia (Rapporto Caritas, Migrantes, 2010)una rilevante percentuale (59%) di immigrati residenti in Lombardia e occupati nei servizi alla persona, con un trendin costante crescita negli ultimi anni. Oltre alle note occupazioni domestiche (colf, babysitter e badanti), oggi assistiamo, in particolare, ad un massiccio impiego di personale non italiano addetto alla cura e all’assistenza, anche di livello professionale qualificato, all’interno di Servizi pubblici e privati quali Ospedali, Residenze per anziani e Comunità per minori (I.S.M.U., 2006)2. Spesso, tuttavia, l’ambiente di lavoro, come afferma David Bidussa (2007): “….è come un parcheggio di un centro commerciale nel weekend, un luogo dove auto diverse stanno accostate l’una accanto al l’altra, ma non si mescolano.”

 

Questa realtà impone una riflessione sugli eventuali effetti che tale rapido cambiamento può avere: sulla qualità di vita dei lavoratori stessi (italiani e stranieri), sui loro legami di lavoro, e – conseguentemente – sulla qualità dei servizi di cura erogati all’utenza. Non è trascurabile il fatto che, se persone provenienti da culture fra loro molto diverse si occupano di relazioni di cura, evidentemente diverse possono risultare le definizioni dei concetti di salute e malattia e altrettanto differenti le modalità di esercitare la cura stessa.

 

Se in ambito medico è auspicabile individuare standard universali su questi argomenti (OMS, 2001), la ricerca psicosociale evidenzia, peraltro, come sia indispensabile comprendere e riconoscere le differenze culturali che permeano concetti così complessi (Cigoli, 2005). La significativa presenza di personale di altra etnia all’interno dei servizi socio-sanitari pone quindi nuove sfide relative all’identità e all’integrazione professionale. L’identità professionale è stata definita come una dimensione multifattoriale, attraverso la quale è possibile conoscere e spiegare i modi in cui si espleta, nel caso degli operatori socio-sanitari, la relazione d’aiuto(Winkelmann-Gleed e Seeley, 2005; Cigoli, 2005). A tale proposito, è riconosciuto come la cultura di appartenenza assuma un peso rilevante e sia in grado di spiegare la differenza tra le rappresentazioni che guidano la costruzione e l’esercizio dell’identità professionale(Motoike, 2004).

 

Relativamente all’integrazione professionale, gli studi interculturali nell’ambito dei servizi socio-sanitari sottolineano, inoltre, come le rappresentazioni delle persone nei confronti del sé professionale, degli altri professionisti e del contesto organizzativo svolgano un ruolo determinante nello spiegare le incomprensioni, le rivalità e persino le fratture tra gruppi etnici e/o differenti operatori, con evidenti conseguenze sull’attività di cura. Ciononostante, mentre la letteratura scientifica offre un ampio panorama di studi(Baumann, 2002; Hakim e Wegmann, 2002; Flick,2003) relativi alle ricadute psico-sociali dell’immigrazione, per quanto riguarda gli stranieri intesi come utenti dei nostri più svariati servizi (sanitari, sociali, educativi…), pochi sono ancora i lavori orientati all’analisi dell’integrazione del migrante in qualità di operatore di un Servizio. Si tratta allora di provare a ribaltare la logica per cui lo straniero è solo fruitore di assistenza, leggendolo altresì come protagonista ed erogatore di una propria professionalità. Nel tentativo, così facendo, di provare ad affrontare la crescente necessità di pensare a modelli d’intervento e pratiche di cura che abbiano una base condivisibile tra gli operatori, frutto di una reciproca “contaminazione” culturale.

 

Finalità e obiettivi

La presente ricerca è nata dalla domanda di un’Azienda di Servizi alla Persona, operante sul territorio milanese, di conoscere in modo più sistematico le caratteristiche della popolazione migrante occupata al suo interno, al fine di affrontare meglio eventuali difficoltà e/o conflittualità latenti nelle équipe di cura, favorendo un processo di integrazione interculturale all’interno del contesto organizzativo, che potesse avere come ricaduta l’attivazione di buone pratiche di cura.

 

Queste macro-finalità si sono articolate in una ricerca-azione che ha preso le mosse dalla convinzione che solo attraverso un’operazione di conoscenza e confronto fra le diverse culture locali (Carli, 1990) si possano costruire rappresentazioni condivise, che non si limitino ad affiancarsi, ignorandosi l’un l’altra, ma che vadano a comporre un’immagine di cura complessa, come il mondo in cui ci muoviamo. La sfida è stata quella di traghettare la nostra rappresentazione della multi-etnicità dalla metafora di Bidussa (le auto in un parcheggio di un centro commerciale) all’immagine di un quadro di Arcimboldo, ove le diverse caratteristiche dei soggetti raffigurati, mantenendo la loro natura, creano una Gestalt rappresentazionale nuova ed originale.

 

Le diversità culturali emerse sono state, a loro volta, collocate entro lo specifico contesto/cultura dell’organizzazione di riferimento. È infatti il servizio che fa da contesto, relativamente sia alla “mission” che gli è propria, che all’esercizio dei ruoli e delle mansioni. Per questo si è scelto l’approccio metodologico della ricerca-azione, che intende promuovere un cambiamento proprio a partire dal processo di conoscenza in atto.

 

Gli obiettivi sono stati:

  1. Ottenere una fotografia della popolazione dei lavoratori stranieri operanti nella struttura attraverso l’analisi descrittiva delle caratteristiche del campione di operatori stranieri in esame, onde misurarne i principali dati epidemiologici, e metterne in luce alcuni aspetti relativi all’attività professionale e al progetto migratorio.
  2. Cogliere le rappresentazioni che il primo livello manageriale (coordinatori infermieristici) ha degli operatori stranieri, in termini di criticità e risorse.
  3. Rilevare le modalità peculiari con cui le opinioni riguardanti la salute, la malattia, la vecchiaia, la relazione di cura si declinano in culture diverse, indagando al contempo il modo in cui questi aspetti sono intesi nella nostra cultura.
  4. Favorire il crearsi di una relazione di confronto e fiducia tra gli operatori che faciliti le pratiche di lavoro, riducendo le eventuali conflittualità.

 

 

Strumenti e metodi

La ricerca si è caratterizzata per un approccio multimetodologico (analisi quantitative e qualitative) e multilivello (individuale, gruppale ed organizzativo). Questo ha consentito di cogliere la complessità dei costrutti in esame, a partire da diversi punti di vista, inserendo la soggettività del ricercatore come fattore trasformativo oltre che di indagine, in grado di partecipare alla co-costruzione di nuove prassi e rappresentazioni.

 

Per raggiungere il primo obiettivo di ottenere una fotografia “sul campo” della popolazione dei lavoratori stranieri operanti nell’Istituto, si è progettato un questionario a risposte chiuse, sviluppato “ad hoc” a partire da analogo strumento realizzato in una precedente ricerca (Fondazione Cecchini Pace, 20063).che descrivesse:

  • la situazione socio-demografica;
  • il proprio progetto migratorio;
  • la percezione del lavoro di cura, le sue motivazioni, le aree di gratificazione e le eventuali criticità.

 

I dati emersi sono stati analizzati con un software statistico (SPSS) in grado di effettuare sia le analisi descrittive più rilevanti sia, ove del caso, statistiche inferenziali volte a stabilire correlazioni fra variabili.  Per raggiungere il secondo obiettivo si è realizzata un’intervista semistrutturata ai Capi Reparto; tali interviste sono state registrate e sottoposte poi ad analisi del discorso, sia con approccio “carta e matita” sia con una successiva elaborazione tramite un software di analisi testuale (T-LAB).

 

Il terzo e quarto obiettivo si sono declinati in un momento specifico di tipo laboratoriale, al cui interno si è data voce alle differenti posizioni soggettive e culturali inevitabilmente presenti in un gruppo di operatori multietnico e multiprofessionale. L’esperienza del “laboratorio interculturale” si è configurata come prototipo di futuri interventi formativi più diffusi e sistematici, che consentano in futuro di progettare adeguati criteri d’intervento nella relazione di cura.

 

Si sono realizzati quattro incontri, con dieci operatori provenienti da diversi reparti e rappresentativi delle varie etnìe (ivi compresi due italiani). Fra i temi trattati: la rappresentazione dell’anziano, della malattia e della cura, della morte e del ricordo, del progetto migratorio. I testi dei focus group sono stati registrati ed elaborati con il software di analisi del discorso T-LAB. I materiali grafico-pittorici prodotti ed utilizzati sono stati presentati nel Convegno che ha concluso la ricerca, assieme a delle brevi interviste video-registrate (raccolte in un CD: “Le parole della cura”, 2010) nelle quali gli stessi partecipanti al laboratorio formulavano associazioni di parole rispetto a termini particolarmente pregnanti emersi nel corso dell’analisi testuale.

 

Analisi dei dati

1° studio – Il questionario agli operatori migranti

Il questionario è stato distribuito a tutti gli operatori stranieri operanti nella struttura (n=79). Hanno risposto, in forma anonima, 46 soggetti (56,69%); il campione è in prevalenza composto da donne (71,11%), coerentemente con la distribuzione di genere nella popolazione sanitaria. L’età media piuttosto alta: 38,9 anni (ds±9,00) e le aree geografiche più rappresentate sono l’America del Sud (38%) e l’Europa dell’Est (36%). La distribuzione dell’età all’interno dei differenti Paesi d’origine è significativamente differente (chi2 = 22,877 p < .001): i soggetti dell’Europa dell’Est sono più giovani, mentre la componente dell’Asia e dell’Africa è più avanti con l’età. Il campione mostra un livello d’istruzione medio-alto: il 67% dei soggetti supera i 13 anni complessivi di scolarità.

 

Progetto migratorio: il campione risiede in Italia mediamente da molto tempo (9,8 anni, ds ± 5,11); la presenza dei Sud Americani è significativamente più datata (chi2 = 19,672 p<.01).

Motivazione all’emigrazione: la prima ragione è la ricerca un lavoro (26,6%), seguita dalla situazione economica precaria del Paese di origine (14,07%); non emergono differenze significative fra gruppi socio-demografici diversi.

Futuro: la maggior parte del campione (52%) non sa quanto a lungo resterà in Italia, denotando una progettualità che pare esaurirsi nel breve termine. A ciò si affianca il dato contrastato sulla voglia di farsi raggiungere in Italia dalla propria famiglia: il “sì” è leggermente in vantaggio rispetto al “no” (34% vs. 33%), ma l’elevata presenza di “missing” e “non so” definisce ulteriormente la confusione in merito ad un futuro italiano, proprio e per i propri cari. Tale incertezza non impedisce però alla maggior parte (62%) del campione di dichiarare la propria volontà di tornare un giorno al Paese di Origine.

Pratica professionale: il campione, che ha un’elevata esperienza nel lavoro con utenti anziani (>5 anni per il 63%degli intervistati), si distribuisce principalmente fra: i lavoratori dell’Est Europa – prevalentemente Infermieri, diplomati nel proprio Paese e assunti direttamente da parte dell’Istituto – ed i lavoratori provenienti dal Sud America (e, in misura minore, anche dall’Africa e dall’Asia), ASA/OSS, formati in Italia ed assunti dalla Cooperativa convenzionata con l’Istituto.

La principale motivazione per la scelta del tipo di lavoro è la coerenza con l’indirizzo di studi (33%), seguita dalla percezione di sicurezza e stabilità garantiti dalla professione (24%) e, con uguale frequenza, dalla considerazione degli anziani come persone piacevoli di cui occuparsi.

Soddisfazione lavorativa: i soggetti intervistati si dichiarano per oltre il 57% “abbastanza soddisfatti” e quasi ¼ del campione (24%) si definisce addirittura “molto soddisfatto”. La ragione principale di tale soddisfazione risiede nella percezione di utilità sociale della professione, seguono il rapporto coi colleghi e con gli utenti, e il riconoscimento di un ruolo sociale. La motivazione economica è sì importante, ma non per tutti. Con l’aumentare degli anni di permanenza in Italia, aumenta inoltre l’importanza del rapporto con gli utenti nel determinare la soddisfazione lavorativa (r = -.352, p<. 05), diminuiscono invece di importanza la sicurezza e la stabilità del rapporto di lavoro (r = .391, p<.05). Non emergono differenze significative in funzione della provenienza geografica né di altre variabili, nel determinare il grado di soddisfazione lavorativa. L’apprezzamento da parte dei familiari degli utenti è un fattore che incide in modo significativo (chi2 = 12,333 p<.05) sulla soddisfazione generale del lavoratore.

Discriminazione: un soggetto su quattro dichiara di aver subito episodi di discriminazione: le percentuali sono molto simili, con episodi più frequenti riferiti a colleghi italiani (29%) piuttosto che da parte di ospiti (25%), familiari (24%) o colleghi stranieri (16%). Decisamente inferiore (7%) è l’incidenza di episodi di discriminazione da parte dei propri superiori.

 

2° studio – Le interviste semistrutturate ai capi reparto

Il secondo studio consta di 13 interviste svolte con i Coordinatori Infermieristici, ed ha come tema quello della percezione di criticità e risorse nell’équipe multiculturale.

Si sono indagati: la rappresentazione dell’effettiva integrazione degli operatori stranieri all’interno dell’organizzazione aziendale, il loro rapporto con gli utenti, le eventuali differenze percepite tra operatori di diverse etnie, nonché criticità e vantaggi nell’avere un’équipe multiculturale. Le interviste, esaminate secondo la procedura carta/matita, per rintracciare temi e costrutti maggiormente frequenti e rilevanti, hanno evidenziato una buona soddisfazione rispetto al livello di integrazione, specie se la collaborazione dura da tempo; il rapporto con gli anziani è giudicato poco problematico, pur se vengono segnalati taluni episodi di discriminazione da parte di utenti, rientrati però grazie alla reciproca conoscenza; sono inoltre emersi vividi alcuni stereotipi relativi all’etnia di provenienza: il calore del Sud rispetto alla freddezza dell’Est, le discriminazioni di genere (agite o subite dagli stranieri), le differenze fra chi proviene dalle città o da centri rurali… Fra le criticità, prima fra tutte è segnalata la difficoltà di comunicazione linguistica, seguita dal pregiudizio del “colore della pelle”. La possibilità di confrontarsi con culture diverse è considerata una ricchezza, così come tutti gli intervistati evidenziano la laboriosità dei lavoratori stranieri, ricondotta abbastanza acriticamente, invero, alla categoria del “bisogno economico”.

 

In sintesi, gli italiani sembrano rappresentarsi lo straniero come quello che “ha difficoltà”: a capire, a esprimersi, a farsi rispettare, a sostenersi economicamente. I non italiani non sottolineano così fortemente questi aspetti: forse la lingua non è un problema per chi ha risposto al questionario, un campione che, come si è visto, risiede in media da parecchi anni in Italia, o forse la questione della diversità della lingua è – per noi italiani – un ostacolo tanto evidente da costituire una sorta di alibi per non andare al di là, per non vedere le “nostre” difficoltà nel costruire una comunicazione efficace con l’altro.

 

Al fine di cogliere dati più “latenti”, meno espliciti, all’interno della cultura locale dell’organizzazione lavorativa, si è scelto di far esaminare il testo delle interviste da un software (T-LAB di Franco Lancia, Copyright © 2001-2011) in grado di prendere in esame il rapporto tra parole (lemmi), il loro strutturarsi in parole “dense”, fornendo così una possibile chiave interpretativa diversa, a partire dai vari nuclei tematici del discorso.

 

Tre le principali aree discorsive individuate:

  1.  “la sicurezza del noi”, area tematica che descrive ciò che accomuna e, in quanto tale, tranquillizza, tutti gli operatori: cultura, rispetto professionale, “noi e il nostro reparto”, le (comuni) difficoltà…
  2. c’è qualcos’altro di comune, di familiare, che però reca con sé sentimenti di minaccia… “la comune paura”, la paura familiare/del familiare… le parole evocano situazioni drammatiche e verbi di azione e reazione: “minaccia”, “parente”, “agire”, “paura”, “uscire”…
  3. la terza area è quella dell’altro visto come radicalmente estraneo: qui si esce dalla dicotomia paura/sicurezza, vediamo concentrarsi dei nomi, dei nomi propri, nomi “altri” per noi italiani (Alina, Fatima, Russia, Amina) insieme al verbo “partire”… l’estraneità è insita nell’essere partiti da un certo punto, e arrivati chissà dove… è un qualcosa da medicare, da curare.

 

A partire dai temi rilevanti emersi in questo studio – ovvero la questione della difficoltà linguistica, della discriminazione agita e/o percepita, delle risorse (laboriosità) collegate alla diversità (provenire da Paesi poveri) e dalla loro parziale contraddittorietà con quanto dichiarato nei questionari dai colleghi migranti, non si può non evidenziare un fil rouge: la percezione della funzione e dell’organizzazione del contesto di lavoro, così come delle mansioni inerenti alla cura, sono differenti in soggetti con patrimoni culturali diversi. Lo straniero appare ancora al management aziendale un universo semisconosciuto, e perciò in qualche misura inquietante, da metabolizzare e normalizzare per renderlo meno minaccioso, negandone al limite le diversità.

 

Ma questo fluttuare fra xenofobia e xenofilia si rivela un dibattito puramente immaginario, che ci preclude l’accesso al “vero” Altro. Come procedere per far sì che l’incontro di tali diversità divenga un’autentica opportunità di crescita e cambiamento, a partire dall’assunzione della propria estraneità a noi stessi? Come far sì che l’accoglienza –per usare le parole di Derrida – divenga una pratica per cui “l’ospite che accoglie e che si crede proprietario di luoghi, è in verità un ospite ricevuto nella propria casa” (Derrida, 1998)?

 

3° studio – Il laboratorio interculturale: focus-group

L’esperienza laboratoriale si è articolata in quattro incontri (strutturati secondo la modalità interattiva del focus-group immaginativo), durante i quali i dieci partecipanti hanno condiviso e confrontato le rappresentazioni: dell’anziano; della malattia e della cura; della morte e del ricordo; del progetto migratorio.

 

Gli incontri, che prevedevano l’utilizzo di domande aperte, associazioni di idee, produzioni scritte e grafiche, stimoli grafico-pittorici, sono stati audio-registrati ed analizzati con il software T-LAB. Le analisi svolte sui testi del focus Group hanno innanzitutto consentito di organizzare una rappresentazione dei contenuti del discorso attraverso pochi e significativi cluster, ciascuno dei quali risulta costituito da un insieme di frasi che si riferiscono a temi relativamente omogenei.

 

I clusterche si sono individuati sono 5 (Malattia, Vecchiaia, Dolore, Rito, Generatività), di cui il primo è quello che spiega la maggior varianza (44%): il tema della malattia è dunque in primo piano, cosa del resto intuibile in un luogo come l’RSA, dove gli anziani di fatto raramente sono in buona salute… Il tema della morte si è articolato in due ambiti: il doloree il rito. Infine, si è presentato questo gruppo di parole “dense” che abbiamo definito il cluster della generatività, del ciclo di vita, perché al suo interno sono presenti molte parole che rimandano alla gioventù, al matrimonio, alle feste… in qualche misura è attraverso questo clusterche si è svolto il discorso di ciascuno anche sul proprio percorso esistenziale. Questi cluster si dispongono all’interno di un piano fattoriale tridimensionale, con 3 assi (x, y e z).

 

Il primo asse (x) è quello su cui si dispongono i discorsi che vanno da un polo, che rappresenta l’invecchiamento come momento sociale, che prevede anche una sua ritualità condivisa dalla comunità, al polo opposto: la vecchiaia come malattia e l’anziano come “paziente”. Definiamo quindi l’asse x come “invecchiamento fra tradizionale e medicalizzato”. Il secondo asse (y) lo abbiamo definito “invecchiamento tra esperienza e perdita”: da un lato le parole dense sono inerenti la generatività, la differenza, il decidere, temi cioè che rimandano alla saggezza dell’anziano, mentre dall’altra troviamo parole come dolore, piangere, vedovo, chiamare, che evocano la mancanza, la perdita che la vecchiaia porta con sé. Il terzo asse (z), che interseca i primi due, lo abbiamo nominato “i riti della vita”: a un’estremità c’è la questione del dolore, dall’altra lemmi come rito, credere, bara, ovvero tutta quella ritualità simbolica tramite la quale l’uomo ha, da sempre, cercato di attenuare ed elaborare il dolore del lutto. Si è poi scelto di verificare come il discorso si strutturasse in funzione delle diverse appartenenze etniche maggiormente rappresentate nella popolazione in esame4: Sudamericani, Est-Europei, Italiani. Mentre le parole prevalenti nel discorso degli immigrati dell’est Europa (che sono anche la parte più giovane del nostro campione) hanno a che fare con la vita, in equilibrio fra il passato in famiglia ed un presente fatto del lavoro nell’istituzione, gli italiani parlano prevalentemente della vecchiaia come qualcosa di assimilabile alla morte e alla malattia, caratterizzata da solitudine ed atti assistenziali, e per i sudamericani l’anziano e la fine restano dicibili in quanto inseriti in un contesto familistico e tradizionale.

 

L’esperienza laboratoriale ha implicato condivisione di esperienze, pensieri, ricordi, proverbi, usanze… e perciò ha senz’altro favorito lo svilupparsi nel gruppo dei partecipanti diun clima di curiosità, fiducia ed interesse reciproco, tanto che si è potuto realizzare insieme un DVD (“Le parole della cura”, 2010) in cui i soggetti hanno potuto “giocare” con le parole più “dense” emerse dal lavoro, associandole a stimoli quali i colori, le parti del corpo, il cibo… in cui differenze e similitudini si sono intrecciate armonicamente.

 

 

Conclusioni

Ma ciò che è proprio, deve essere appreso, al pari di ciò che è straniero

(F. Hölderlin)

Le conclusioni di questo studio evidenziano come gli stranieri siano portatori di una cultura che ha ancora viva in sé la questione del legame familiare. Essi ci ricordano l’importanza di “rendere case abitabili” le nostre Istituzioni, troppo spesso vittime di un riduzionismo scientista che vede l’anziano quasi esclusivamente come un corpo, relativamente malfunzionante, da riparare o da nascondere, per sostenere nel discorso sociale l’immagine ideale, sempre giovane e iperperformante, dello stereotipo di uomo dell’occidente postcapitalista. Un altro punto forte che emerge è che solo attraverso il simbolico(i riti, i miti, i proverbi, ma anche il quotidiano scambio discorsivo) si può operare il tentativo di ridurre il senso di estraneità a noi stessi, elaborandola, senza agirla nel rifiuto dell’Altro: sia che si tratti dell’Altro-straniero perché viene da lontano, dell’Altro-straniero perché cittadino di un’Italia spesso troppo poco accogliente, ma pure dell’Altro straniero in quanto vecchio e malato…

 

L’esperienza svolta con questa ricerca, in definitiva, mette in evidenza l’importanza di spazi laboratoriali che consentano un abitare nuovo: con lo straniero che bussa alle porte del nostro Paese e dei nostri luoghi di lavoro, e con lo straniero che, da sempre, è parte di noi. Si tratta, in particolare per quelle istituzioni che erogano servizi alla persona e che hanno al loro interno un numero crescente di operatori stranieri, di un lavoro in più, che va aldilà della necessità di istituire buone pratiche di assistenza e cura. Tempi e luoghi di elaborazione aggiuntiva, per realizzare una formazione permanente del gruppo-équipe alla “contaminazione” fra diversi pensieri, desideri, comportamenti. Una formazione che non sia però costituita da un mero trasferimento di nozioni, per quanto esplicative dei processi in atto, ma che passi attraverso la ristrutturazione innovativa di pratiche organizzative consolidate(come ad esempio la condivisione del Piano Assistenziale Integrato), al fine di favorire una riflessione attiva da parte dell’intera équipe e garantire un nuovo approccio alla complessità del paziente anziano, proprio a partire dalle complessità, vecchie e nuove, insite nel corpo curante.

 

Contatti:  Dott.ssa Irene Carrano irenovecento@gmail.com    Dott.ssa Paola Grifo paola.grifo@fastwebnet.it

Note

1 “Presunta” integrità, in quanto il soggetto parlante è – strutturalmente – diviso, come insegna la rilettura che Jacques Lacan fa della teoria freudiana.

2 Si stima che le assunzioni di immigrati in ambito sanitario e nei servizi alla persona varino fra il 40% e il 70% sul totale delle assunzioni previste nel settore. (N.d.A.) Cfr. I.S.M.U., 2006.

3 Vincitore del Premio per la Pace 2006 – Regione Lombardia. Riconoscimento speciale per la sensibilità e la concreta solidarietà dimostrate nei confronti delle popolazioni svantaggiate dei Paesi in via di sviluppo

T-LAB, Analisi delle Corrispondenze: consente di analizzare tabelle con valori di occorrenza per i gruppi in esame.

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I grafici, le tabelle e le immagini relativi all’articolo sono disponibili sul sito internet www.grg-bs.it alla voce “letteratura” – “riviste” – “I Luoghi della cura”.

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