Il lockdown ha cambiato le nostre menti, influenzando la nostra salute mentale, psicologica ed emotiva, le nostre abilità cognitive e la capacità di resilienza. Le chiusure, le misure di contenimento del contagio e l’isolamento sociale hanno esposto la popolazione globale a uno stress collettivo senza precedenti i cui effetti hanno influito negativamente su memoria, attenzione, concentrazione, sul funzionamento cognitivo percepito, generando l’aumento di sofferenza emotiva e psicologica.
Nella realtà che il Coronavirus ha cambiato drasticamente, è stata bandita la vicinanza e il contatto tra le persone, a causa di un nemico invisibile, che ha reso il mondo intero impotente e fragile. Oggi il linguaggio degli occhi è lo strumento comunicativo più potente che abbiamo: lo sanno bene gli operatori sanitari che hanno accompagnato i pazienti non solo nella cura, ma anche nella disperata solitudine del non contatto, lo sanno gli occhi di chi non ha potuto guardare gli occhi amati ancora una volta, lo sanno coloro che oggi possono sentire vicino le persone amate attraverso gli occhi virtuali, lo sanno i terapeuti che cercano gli occhi dei loro pazienti dietro lo schermo.
Tutti questi vissuti sono stati impressi profondamente nel corpo. E la memoria corporea non dimentica, tutte le emozioni sono incarnate e scritte nel nostro corpo e vengono riattivate ogni volta che il corpo agisce ed è stimolato. Il corpo, anche quando le capacità cognitive crollano, mantiene la sua memoria incarnata, perché da quando nasciamo, gli eventi più importanti della vita vengono vissuti e percepiti col corpo e nel corpo restano a costituire quella memoria che non si perde mai. Il corpo parla anche quando le parole non ci sono.
Le emozioni possono “parlare” attraverso gli occhi e il gesto, la postura, ma soprattutto parlano nella vicinanza tra corpi. Oggi parlare con gli occhi e col corpo, ancora più di prima, è “dire” anche quando non si trovano le parole, esprimere sentimenti e gesti che il corpo non può fare. Gli occhi sanno raccontare tutte le emozioni, anche quando la mimica del volto è coperta da una mascherina, sanno capire quello di cui c’è bisogno, parlano sempre anche quando si vorrebbe che non lo facessero, perché possiedono una loro indipendenza dalla volontà razionale, possono penetrare e lasciarsi penetrare, possono focalizzare o disperdersi nell’infinito, allargarsi o restringersi, aprire o chiudere, fulminare, accarezzare, abbracciare… Tutto ciò “sta” nel corpo ed è una cosa straordinaria, una magia, una tra le più grandi magie della vita.
Ma la distanza corporea nelle persone fragili, in coloro che non hanno più la possibilità di agire autonomamente, è una drammatica violenza subita che a differenza dalle altre violenze, ferisce reciprocamente chi la subisce e chi è costretto con sofferenza a imporla; ferisce tutti, gli anziani, i famigliari e gli operatori sanitari. Ecco perché è ancora più necessario poter tornare al corpo e all’abbraccio. È per questo che dopo più di un anno di separazione dagli affetti, per le persone fragili, che hanno vissuto l’isolamento in RSA, diventa vitale ritornare alla forma affettiva più importante di tutte, quella che fin dalla nascita rappresenta la forza e la consolazione, l’insostituibile trasmissione e relazione di affetto e amore che ci accompagna fino alla fine dei nostri giorni: l’abbraccio.
Il progetto “Abbracciarci ancora”
Presso RSA Golgi Redaelli di Milano nasce il Progetto “Abbracciarci ancora” mirato alla realizzazione di spazi protetti in cui poter far incontrare pazienti e famigliari non più solo in video o a distanza e col plexiglass, ma attraverso una parete di materiale plastico leggero, in cui sono inseriti spazi per le braccia in modo che le persone possano vedersi, toccarsi e abbracciarsi. Il progetto vuole cercare di esaudire i sogni e i desideri di molti ospiti residenti nelle tre R.S.A. dell’Azienda di Servizi alla Persona “Golgi-Redaelli”: gli Istituti Geriatrici “Piero Redaelli” con sede a Milano e Vimodrone e l’Istituto Geriatrico “Camillo Golgi” di Abbiategrasso.
In questi mesi la sofferenza emotiva e relazionale legata alla pandemia e alle misure predisposte per contenerla hanno sicuramente avuto un impatto negativo sulla salute e sul benessere degli anziani fragili e in larga misura cognitivamente compromessi: il distanziamento fisico e le restrizioni dei contatti sociali hanno determinato una riduzione dell’interazione interpersonale e un impoverimento delle relazioni socio-affettive favorendo un aumento del disagio, della sofferenza e del senso di isolamento. Anche i familiari hanno dovuto affrontare la distanza dal proprio caro e la conseguente difficoltà ad offrire sostegno e supporto affettivo in un momento particolarmente difficile. Questo progetto finalmente ha potuto concretizzarsi e il 15 aprile 2021 è stata inaugurata la “Stanza degli Abbracci” presso uno spazio del Golgi Redaelli di Milano. Cosi i primi ospiti dell’Istituto hanno potuto finalmente riabbracciare i loro cari.
E’ stato commovente vedere i loro occhi riempirsi di lacrime insieme a quelli dei loro famigliari, vedere il sorriso che tornava sui loro volti, rievocato dalla memoria corporea dell’abbraccio. Non c’è niente che possa sostituire un abbraccio. Anche attraverso la struttura di plastica il calore del contatto umano è passato ed ha riacceso il potere positivo e insostituibile della vicinanza ed il corpo è tornato ad essere presente. Il cuore ha potuto sentire di nuovo il battito dell’altro cuore, nel corpo hanno ripreso vita le sensazioni più importanti ed un senso di piacere ha superato la parete di plastica. Un abbraccio, un semplice abbraccio che ha reso efficace, come una volta, quel farmaco universale che più di ogni cosa e da sempre è capace di curare le ferite, il con-tatto.
La mia esperienza di familiare
E’ sempre un’esperienza difficile e dolorosa il momento in cui una persona cara, un famigliare, nel mio caso una sorella, non hanno più o perdono le abilità necessarie allo svolgimento degli atti quotidiani della vita, e quando il livello di gravità delle condizioni di salute richiede l’inserimento in una struttura residenziale di assistenza. Ancor più difficile è quando la persona cara viene ricoverata ancora “giovane”: è difficile accettare che la vita sia già così compromessa, soprattutto quando il corpo cede e le funzioni cognitive impediscono al paziente di rendersi conto delle sue condizioni e della necessità che altri se ne prendano cura.
Cinque anni fa purtroppo mia sorella ha avuto un declino globale e una degenerazione cognitiva che l’hanno resa non autosufficiente con bisogni di cura sia sanitaria che assistenziale, mentre era ancora piuttosto, ripeto, “giovane” per entrare in una RSA, luogo che lei da sempre temeva e che chiamava “Baggina coi vecchi”. Diversi anni dopo essermi presa carico dei miei genitori, ho sempre “protetto” mia sorella da questa eventualità fino a quando le sue condizioni di salute ci hanno costretto ad un inserimento in struttura. L’inizio è stato molto doloroso, tra l’altro coincidente con una mia importante operazione alla schiena, che mi ha reso per diversi mesi immobilizzata e ulteriormente preoccupata di non poter accudire mia sorella, che aveva bisogno di cure per tutto.
Dopo un inizio difficile, perché lei ovviamente non poteva “riconoscersi” in questa nuova situazione vissuta come deprimente e disperata, piano piano, grazie alla professionalità e alla bravura degli operatori sanitari del reparto, alla mia presenza costante e collaborativa con loro, mia sorella si è gradualmente resa conto delle sue condizioni e del suo bisogno di cura e ha iniziato a stabilire relazioni affettive con tutti loro, non con gli altri ospiti, salvo alcuni. Il carattere e la personalità di mia sorella non sono mai stati facili neanche quando stava bene, motivo negli anni di difficoltà relazionali anche in famiglia e nel sociale, ma in questi anni in struttura ha anche potuto sperimentare nuove relazioni, conoscere e amare per la prima volta altre figure, che altrettanto l’hanno letteralmente amata oltre che accudita e curata.
Per un lungo periodo ho sostenuto con lei il pensiero che sarebbe tornata a casa appena le sue condizioni lo avessero permesso; ho cercato di proteggerla dalla realtà che lei negava anche quando purtroppo ha smesso di camminare ed era in carrozzina, anche se tutte le sue attività, azioni e cura dipendevano da altre persone, ma una parte della sua coscienza non voleva vederlo. La sua coscienza le ha sempre preservato il ricordo, la memoria: mia sorella non aveva l’Alzheimer e quindi gli affetti sono sempre rimasti lucidi e finalizzati, il suo rapporto con me, non c’erano altri parenti, è sempre rimasto vivo e specifico, come anche nei confronti del nipote (mio figlio) e del cognato, oltre alle poche persone con cui accettava di avere rapporti. Molti eventi purtroppo ingravescenti si sono succeduti negli anni, ma mia sorella è sempre riuscita a superarli, le sue condizioni si sono mantenute stabili grazie agli interventi sanitari e riabilitativi ricevuti.
Mentre nel frattempo si solidificavano i rapporti affettivi col personale, con tutte le figure sanitarie, con gli educatori, con i tecnici di laboratorio con gli animatori e i volontari, cresceva sempre di più un nuovo senso di “famiglia” che nella struttura ha preso il posto di un vissuto di autonomia precedente che lei faticava a lasciare. La sua vita solitaria in casa l’aveva portata all’isolamento e al rifiuto sociale, mentre in RSA aveva trovato altri affetti, di ogni persona conosceva il nome e il carattere, e viceversa, sapeva con chi scherzare o arrabbiarsi, con chi confidarsi e a chi chiedere aiuto, e anche con chi ridere e scherzare. Io potevo stare serena sapendola curata e protetta. Anche io mi sentivo un po’ di famiglia in reparto. Ero profondamente grata a tutti gli operatori che avevano conosciuto mia sorella anche attraverso il suo carattere non facile, ma, come nelle famiglie, tutti hanno imparato reciprocamente a conoscersi e a creare sinceri e autentici rapporti di affetto. Mia sorella non chiedeva più di andare a casa, ma considerava “casa” il reparto. E anche io ne facevo parte. Poi è arrivato il Covid.
Il Covid in RSA
Di colpo arriva uno tsunami che spazza via tutto, colpisce e uccide, semina panico, paura e disperazione, un nemico invisibile che comanda di colpo sul mondo, un mondo impreparato che ancora non ha armi per difendersi. I primi ad essere stati colpiti sono state le persone fragili, proprio nelle RSA, dove ha colpito e purtroppo ucciso anziani e operatori, quegli angeli che tutti abbiamo chiamato eroi, esposti e vittime, tanto quanto i loro assistiti, di un invisibile attacco che circola nell’aria, in quel soffio vitale che di colpo si trasforma in un nemico da combattere.
Ma le armi non erano ancora state inventate per questa “guerra” e l’unica possibilità per difendersi è stata la chiusura, delle porte e dei cancelli, dei reparti, dei volti e dei corpi, di negozi, scuole, luoghi di lavoro e di formazione, e di svago. In pratica di tutto ciò che ha a che fare con la vita sociale, scolastica, formativa, sanitaria… tutti ci siamo ritrovati chiusi in casa, a parte i servizi essenziali che però hanno dovuto chiudere le porte agli affetti. Le persone anziane e fragili che nella vita hanno bisogno, oltre che di cure sanitarie e assistenziali, di affetto e di calore dei legami affettivi, di colpo sono state private dei loro affetti, dei volti a loro cari, del contatto con i corpi, delle mani, degli occhi dei loro cari. Anche i parenti e gli amici, abituati a “fare un salto” in struttura dopo il lavoro o la scuola, ad andare in RSA per festeggiare i compleanni e le feste insieme, per stringersi le mani nei saluti, improvvisamente sono stati “chiusi fuori”. Inizialmente si pensava alla salvezza che la chiusura avrebbe portato, preoccupati dalle tante vittime. Poi sono arrivate le videochiamate, aspettate con ansia ogni giorno mentre il vissuto di impotenza iniziava a farsi strada.
Nella vita sono psicoterapeuta e so quanto il contatto sia importante per accendere le emozioni, quanto un tocco, un respiro, una vicinanza sia insostituibile quando le persone stanno male. Quando nel mio lavoro ho iniziato a vedere e trattare i pazienti on line, cercando i loro occhi sul monitor, ho capito che la mancanza di contatto corporeo poteva essere tollerata dall’empatia trasmessa in video, attraverso il quale almeno i volti e gli occhi si potevano “abbracciare” virtualmente. Ma come un anziano o una persona fragile riesce a colmare questa mancanza di contatto? Ho iniziato a farmi molte domande: quanto un incontro su un cellulare o su un tablet riescono a far arrivare veramente le manifestazioni di affetto ai propri cari? Come stanno lontani dai loro affetti? “…ma riuscirà a vedermi così in piccolo?”, “Riesce a sentirmi? A vedere quanto le voglio bene?” Di colpo anche i corpi e i volti conosciuti del reparto si sono “scafandrati”. Come si sentirà mia sorella nel non poter vedere più i volti degli operatori che la curano e fanno l’impossibile per starle vicino? Quanto soffrono anche gli operatori cercando di colmare l’incolmabile? Sono davvero non solo eroi, sono madri, padri, fratelli e sorelle dei loro assistiti.
Ricordo la trepidazione che provavo nell’aspettare la videochiamata dagli operatori che mi avrebbero fatto salutare mia sorella. Siamo riuscite comunque, grazie a loro, a vederci per pochi minuti, a mandarci baci e carezze mentre le dicevo di stare tranquilla che tutto ciò serviva per proteggerla. Quante volte ho pensato a come permettere una vicinanza maggiore… sapevo dell’esistenza della stanza degli abbracci e come questa opportunità avrebbe potuto avvicinare le persone e dare più conforto. Mia sorella è stata due volte positiva al Covid, ma fortunatamente non si è ammalata, ha dovuto vivere l’estraneazione di un reparto Covid dove i suoi riferimenti non c’erano, ma ha superato anche questo.
Ma poi i tempi si sono prolungati troppo e le aspettative fiduciose sono diminuite. Gli incontri non potevano esserci. Poi sono arrivati gli incontri in giardino a distanza, ma almeno in presenza. E i mesi estivi sono passati, rincuorati da qualche incontro settimanale… certo sono finiti i pomeriggi o le mattinate insieme, i giri per la struttura, i momenti al bar, le chiacchiere… poi di nuovo le chiusure. Gli eventi che riempivano la giornata spariti di nuovo. Uno spiraglio è arrivato con i vaccini e i tamponi, “Ci saremmo presto riabbracciate di nuovo” dicevo a mia sorella. Ho iniziato a progettare la “Stanza degli Abbracci” insieme alla struttura. Perché anche attraverso la plastica due corpi si possono stringere, stare a contatto, sentirsi vicini. Il corpo è lo strumento primario per vivere e trasmettere emozioni, amore e affetto. Mia sorella si è di colpo aggravata e non ce l’ha fatta ad aspettare, se n’è andata in poco tempo e fino a che è rimasta lucida e presente ha detto agli operatori che anche lei voleva loro bene come loro ne volevano a lei. Tutti gli operatori del reparto le sono stati vicini e sono stati vicino a me. Io ero già vaccinata e sono potuta entrare in reparto e starle vicino fino alla fine, l’ho abbracciata, accarezzata, le ho sussurrato sempre parole di conforto e coraggio e lei lo ha sentito, anche attraverso la mascherina e i guanti, io ero con lei.
Il potere di un abbraccio
“Mia sorella c’è sempre” ha detto pochi giorni prima di volare via. Ringrazio per averle potuto dare l’ultimo abbraccio che purtroppo molti non hanno potuto dare e avere. E questo è un terribile lutto nel lutto per tanti, ed è questo che dobbiamo riuscire per quanto possibile ad evitare: il corpo vive e muore nell’abbraccio, nasce e cerca abbracci, cresce e ama o consola con abbracci, vive cercandoli, muore nella necessità di averli per andarsene sereni.
In questa fase storica e drammatica del pianeta, i corpi così importanti ed essenziali sono costretti alla distanza e gli abbracci sono banditi, da salutari a pericolosi…. Ai bambini è stato tolto il gioco, la socialità, il volto delle maestre, la scuola, ai giovani l’esperienza condivisa, agli adulti i progetti, e agli anziani e ai fragili il calore degli affetti… Ma tutti dobbiamo contribuire alla restituzione di tutto ciò, operando con collaborazione e condivisione di intenti comuni, non solo individualistici ma per il bene della comunità. Facciamo arrivare abbracci anche dove non è possibile, creando e inventando strumenti nuovi per abbracciare forte e delicatamente non solo i corpi, ma anche l’anima, aggiungendola in qualunque posto essa si sia eclissata.
Sono onorata di aver potuto partecipare e contribuire alla “Stanza degli Abbracci”, ancora di più oggi nel vederla realizzato, perché anche se purtroppo mia sorella non ha fatto in tempo a parteciparvi, mi resta la consolazione di averla potuta abbracciare prima, e il sapere che ora molte persone ritroveranno un po’ di felicità grazie ad essa, lo considero e lo vivo come un dono. Per entrambe. Perché, come scrive G. D’Annunzio: “Saremo felici o saremo tristi, Che importa? Saremo l’Uno accanto all’Altra. E questo deve essere, Questo è l’essenziale”.