Dopo più di 20 anni di attesa gli anziani italiani si aspettano un’ambiziosa riforma dell’assistenza sociosanitaria. Ѐ questo in sintesi il messaggio di gran parte delle organizzazioni della società civile organizzata coinvolte nell’assistenza agli anziani.
Con la ricerca “Anziani non autosufficienti e integrazione sociosanitaria territoriale nei Piani regionali”, che fa seguito a quella sul “Diritto di invecchiare a casa propria”, l’AUSER ha voluto contribuire a questo impegno mettendo in evidenza il quadro delle criticità che ostacolano il Paese a dotarsi di un efficace sistema di assistenza sociosanitaria delle persone non autosufficienti e offrendo un quadro di proposte per la soluzione delle criticità individuate al fine proprio di una riforma ambiziosa. Considerando lo stato dei lavori in corso sembra utile verificare in che misura le proposte in discussione sono in grado soddisfare queste aspettative a partire dalla rimozione delle criticità messe in evidenza dalla ricerca AUSER.
Riforma: lo stato dei lavori in corso
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede, nell’ambito della Missione 5 Componente C2, la “Riforma 1.2: Sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti” “da approvarsi con apposito provvedimento legislativo entro la fine della legislatura (primavera 2023)”. Il PNRR, pur non dicendo molto di più nel merito della riforma, prevede comunque il potenziamento, con consistenti risorse, delle infrastrutture tecnologiche del sistema informativo della non autosufficienza (8,63 Mld) e nel contempo anticipa interventi specifici sia nella missione sanitaria, per rafforzare i servizi sanitari di prossimità e l’assistenza domiciliare (M6 7,0 Mld), sia nella missione sociale con azioni finalizzate alla deistituzionalizzazione, alla riconversione delle RSA e al potenziamento dei sevizi domiciliari per le dimissioni protette (M5C2 11,17 Mld).
Nella prospettiva di stare dentro i tempi previsti dal PNRR due sono le principali iniziative di parte governativa: la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana presieduta dal Mons. Vincenzo Paglia, istituita con apposito decreto dal Ministro della Salute Roberto Speranza, e la Commissione “Interventi sociali e politiche per la non autosufficienza” istituita presso il Ministero del Lavoro e Politiche sociali e presieduta dall’ex ministro della Salute Livia Turco. Sempre il Governo, inoltre, ha inserito nella legge di Bilancio per il 2022 interventi dedicati alla non autosufficienza classificati come “livelli essenziali di prestazioni”.
In parallelo a questi lavori si è mosso il mondo delle organizzazioni della società civile coinvolte nell’assistenza agli anziani non autosufficienti che hanno avanzato analisi e proposte di grande interesse.
Dunque, salvo drastiche crisi dell’assetto politico nazionale e del Governo, i prossimi eventi dovrebbero essere: l’approvazione da parte del Parlamento della Legge delega sull’assistenza agli anziani non autosufficienti, la definizione successiva da parte del Governo dei decreti delegati per attuarla, mentre, nel contempo, procede la messa in opera delle azioni attuative delle risorse del PNRR.
A quale riforma approderanno i lavori in corso?
In premessa, condividendo l’urgenza della riforma, c’è da dire che per avere una riforma operativa nei tempi della legislatura è necessario accelerare i tempi del confronto politico. A questo fine sarebbe auspicabile una maggiore chiarezza sul perché, a fronte di un testo di Legge Delega già consegnato alla Presidenza del Consiglio, non si proceda nel coinvolgimento del Parlamento per un confronto di merito. Il rischio che si corre è che la preventiva ricerca delle mediazioni sul testo base della riforma da inviare al Parlamento riduca drasticamente gli spazi del confronto e i tempi previsti dal PNRR con la conseguenza, al dunque, di fare una legge minima a fine legislatura.
Nel merito della riforma è possibile dire che dai diversi contributi emerge un’ampia convergenza su quelli che possiamo considerare gli obiettivi minimi. La proposta di legge delega elaborata dalla Commissione Turco “Norme per la promozione della dignità delle persone anziane e per la presa in carico delle persone non autosufficienti” li riassume in un quadro chiaro di criteri e principi direttivi generali che inquadrano il tema in una visione complessiva dei bisogni degli anziani non autosufficienza e delle loro famiglie. Il rispetto della dignità delle persone anziane è l’incipit intorno a cui si sviluppano le proposte contenute nell’articolato. I capisaldi sono la promozione dell’ l’invecchiamento attivo; il contrasto all’isolamento; la continuità di vita e di cura presso il proprio domicilio; l’esigibilità dei livelli essenziali delle prestazioni sociali; il potenziamento e l’integrazione dei servizi sanitari e sociali per la domiciliarità rafforzando i distretti sociosanitari e dotando di adeguate risorse i servizi sociali; la riforma delle strutture per la residenzialità e semiresidenzialità; lo sviluppo di forme di coabitazione solidale; lo sviluppo di percorsi formativi e di qualificazione e collocamento dei lavoratori impegnati nella attività di cura.
Come si vede la proposta di legge affronta la gran parte dei nodi su cui si è sviluppato il dibattito sulla riforma. Per l’Auser, dunque, rappresenta la base per l’avvio di una seria discussione con l’obiettivo di realizzare rapidamente una riforma da troppo tempo attesa. Una discussione necessaria perché, tenendo conto delle criticità individuate nella ricerca Auser, ci si rende conto che esistono significativi spazi di miglioramento: questo se si vuole realizzare una riforma ambiziosa.
La ricerca AUSER: il quadro delle criticità
Secondo la ricerca AUSER, le principali criticità di carattere strutturale che hanno lungamente ostacolato la realizzazione di una assistenza sociosanitaria adeguata ai bisogni del paese sono riconducibili fondamentalmente alla mancata integrazione del pilastro sanitario con il pilastro sociale dell’assistenza.
Questo è avvenuto per un insieme di ragioni tra le quali:
- Il progressivo venir meno di riferimenti nazionali unificanti. Il Piano Sanitario Nazionale, in pratica, è stato sostituito progressivamente dai “Patti per la salute”. Anche la Relazione sullo stato sanitario del Paese è venuta meno con la soppressione del Consiglio sanitario nazionale e il passaggio delle sue competenze prima alla Conferenza Permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome e successivamente al Ministero della Salute. Competenze che prima la Conferenza e poi il Ministero non hanno mai esercitato, tant’è che l’ultima Relazione, come si evidenzia dal sito del Ministero della Salute, rimane quella del 2012-2013. Il Piano sociale nazionale è stato via via profondamente trasformato rispetto a quanto previsto dalla L. 328/200, tant’è che ora non si può più considerare un documento generale di indirizzo, ma un mero strumento di ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali.
- Un regionalismo male interpretato. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 aveva come obiettivo un federalismo solidale, nei fatti ha finito per generare una deriva regionalista, con 21 differenti sistemi sanitari dove l’accesso a servizi e prestazioni sanitarie è profondamente diversificato. Le diseguaglianze regionali e locali documentano che l’universalità e l’equità di accesso ai servizi sanitari, la globalità di copertura in base alle necessità assistenziali dei cittadini, la portabilità dei diritti in tutto il territorio nazionale e la reciprocità di assistenza tra le Regioni rappresentano ancora un lontano miraggio.
- La frammentazione istituzionale centrale e periferica. A fronte di un processo di aggregazione e rafforzamento delle strutture del sistema sanitario, lo stesso non è avvenuto in quello sociale. Il numero dei Comuni – circa 8 mila – è molto elevato e il fatto che la titolarità della funzione sociale sia ad essi assegnata rappresenta di per sé una criticità. Malgrado i tentativi intrapresi (unioni, convenzioni, consorzi, aziende speciali e non solo), la gestione è ancora assolutamente frazionata. Là dove i Comuni hanno provveduto in qualche modo ad associarsi, le stesse dimensioni degli ambiti risultano assai differenti: da realtà che rappresentano 5.000 – 10.000 abitanti a realtà di più di 200.000 per i comuni di piccole e medie dimensioni, senza considerare le città e le aree metropolitane. Quest’appartenenza frammentata e disomogenea complica la condizione di partenza, già incerta per tante altre questioni (pensiamo ai problemi di natura economica e all’aumento della domanda sociale). Sicuramente la parte sanitaria, anche per questo, rappresenta, nella relazione “il gigante” che si pone in posizione sovraordinata. In alcuni casi poi – proprio per la frammentazione e le piccole dimensioni – al “sociale” non viene dato il giusto peso dagli stessi Comuni, più coinvolti e occupati in altre questioni considerate più importanti.
- Una governance dispersiva ed eterogenea. La varietà dei modelli organizzativi e l’eterogeneità delle forme di gestione è una delle cause che non favorisce l’integrazione. C’è da dire, comunque, che il quadro è in relativo movimento tenuto conto che numerose regioni (12 su 21) hanno ritenuto opportuno unificare l’assessorato alla salute con quello delle politiche sociali. La cosa è di grade rilievo in quanto assicura all’area in cui si colloca l’assistenza sociosanitaria una direzione politica unitaria. Evidentemente sta maturando la consapevolezza della necessità di ridurre le possibili barriere che ostacolano l’integrazione sociosanitaria a partire dal suo vertice regionale. Notevoli sono stati anche i progressi nel far coincidere i Distretti sanitari con quelli sociali. Tuttavia se osserviamo le diverse realtà regionali, riferendoci in particolar modo alla gestione della funzione sociale (istituzionalmente in capo ai Comuni) ci accorgiamo che c’è una grande varietà di modelli (convenzioni, consorzi, unioni, aziende speciali, delega alle ASL) e che ciascuna forma gestionale scelta è spesso differente anche se nominativamente medesima (i consorzi, così come le unioni dei comuni, ad esempio, sono molto diversi fra di loro, per dimensioni, per la concreta responsabilità nella gestione dei servizi – su tutto o solo su parte dell’attività – ecc.).
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Una liberalizzazione asservita a interessi particolari. La promozione e successiva implementazione di politiche cosiddette neoliberiste basate sui capisaldi “privatizzazione, liberalizzazione e deregolamentazione” ha messo in moto una progressiva privatizzazione dei servizi sociosanitari. Efficienza, efficacia, economicità sono divenute le tre parole chiave che guidano il complesso sistema che va dalla costruzione di strutture, alla fornitura di servizi, passando per la progettazione e successiva implementazione di progetti ed interventi. Gli effetti più consistenti hanno riguardato l’aumento della diseguaglianza tra i pazienti nell’accesso alle cure e in generale l’erosione della natura pubblica delle cure sanitarie e sociali.
In questo processo molto hanno influito, nel bene e nel male, gli orientamenti maturati in sede Europea. A fronte della prospettiva di creazione di un mercato unico dei servizi sociosanitari profondamente concorrenziale e per evitare la progressiva configurazione di un sistema che pone i profitti prima dei pazienti, e la concorrenza prima della cooperazione, la pandemia scatenata dal Covid-19 è indubbiamente un monito affiche i sistemi sanitari europei vengano ricentrati sulla salvaguardia e promozione della salute come diritto universale e non come una merce per il business e il mercato da cui trarre profitto.
- Una aziendalizzazione distorta nelle sue finalità. Fino alla riforma del 1992, le USL (Unità Sanitarie Locali) erano concepite come strutture operative dei Comuni, singoli o associati, o delle Comunità Montane. L’ambito territoriale dunque era quello comunale e nelle grandi città coincideva con le zone del decentramento urbano. La loro dimensione media era ridotta e intesa a favorire la partecipazione popolare: fino al 1985, le USL erano governate da un’Assemblea, composta dai consiglieri comunali del territorio (eletti) e da un comitato di gestione. A partire dalle riforme del 1992, e con quelle che sono seguite, il SSN è stato sottoposto a forti cambiamenti nel nome dell’ottimizzazione della gestione o del contenimento dei costi della spesa sanitaria. Molteplici sono le conseguenze e gli effetti prodotti da tale tendenza, anche perché la riprogettazione dei sistemi sanitari regionali è stata spesso intrapresa nell’assenza di una solida base di analisi empiriche e prospettiche a supporto. I numeri della Tabella che segue rendono esplicito il sommovimento subito dalle strutture sanitarie in questi 30 anni.
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Lo squilibrio tra pilastro sanitario e pilastro sociale della assistenza sociosanitaria. Andando a vedere nei bilanci regionali le risorse spese per l’assistenza sanitaria e l’assistenza sociale emerge, in tutta evidenza, la clamorosa disparità tra i due capitoli: a fronte dei circa 147 miliardi del 2017 per la sanità (il 42,4% dei bilanci regionali), sono circa 6 i miliardi spesi per l’assistenza sociale (l’1,7% dei bilanci regionali al 2017). Per l’assistenza sociale per gli anziani le risorse spese sono circa 630 milioni di euro (lo 0,2% dei bilanci al 2017).
Le risorse inoltre non sono frazionate solo fra parte sociale e parte sanitaria, ma anche riferite a plurimi e specifici ambiti; provengono da più istituzioni (il Ministero, la Regione, il bilancio comunale, trasferimenti ASL, …), ciascuna con proprie normative e regole di utilizzo. Infine si disperdono in mille ambiti, spesso circoscritti e dedicati ad un problema: ad esempio la vita indipendente, i malati di SLA, i disabili sensoriali, vittime di abusi, i minori extracomunitari non accompagnati, ecc.: si tratta di una soluzione che ha permesso negli anni di affrontare specificità via via resesi evidenti e/o particolarmente significative, ma che porta con sé controindicazioni non secondarie.
- La “invisibilità” del sevizio di assistenza sociosanitario. Il Distretto sociosanitario dovrebbe essere, come attesta la sua denominazione, il cuore della integrazione sociosanitaria. Ѐ qui che si dovrebbe misurare in concreto il livello dell’integrazione tra il pilastro sanitario e il pilastro sociale dell’assistenza. Tuttavia l’ambiguità del suo profilo istituzionale ne fa una struttura quanto meno indeterminata nella sua configurazione, tant’è che non esistono statistiche che lo riguardino in modo specifico sia sul fronte sanitario che su quello sociale e gli stessi piani regionali usano al riguardo formulazioni quanto meno ambigue, con il risultato di non far capire con esattezza chi è il soggetto di riferimento quando viene trattato l’argomento dell’assistenza sociosanitaria. Tenendo conto del profilo degli assistiti, non sempre in grado di barcamenarsi con agilità tra uffici, studi, ambulatori e pratiche, la chiarezza di luoghi e percorsi di cura e assistenza dovrebbe essere una delle regole cardine su cui fondare l’assistenza sociosanitaria. Purtroppo questo avviene in rare circostanze e, molto spesso, ci si deve affidare alla cortesia degli operatori per risolvere apparenti piccoli problemi che, per un anziano/a, si configurano come delle vere montagne da scalare. La cosa che si stenta a capire è perché per il punto unico di accesso, la presa in carico, la valutazione multidimensionale, il piano di assistenza individuale, tutti momenti essenziali del percorso, non si possano concordare modelli semplici, chiari e unitari a livello nazionale. Si comprende la necessità di sperimentare nuove modalità di gestire i diversi servizi e si comprendono anche le diverse specificità ambientali, ma ci sarà pure un momento, un luogo, in cui verificare quali tra le diverse metodologie adottate si dimostrano più efficienti ed efficaci per farne una buona pratica da adottare e da cui ripartire con nuove sperimentazioni? Allo stato questo non è possibile ed ognuno si sente libero di organizzare i servizi come ritiene piò opportuno, spesso ignorando quanto viene fatto da strutture sociosanitarie della stessa Regione.
Ѐ del tutto evidente che se non si pone rimedio a queste criticità il rischio che si corre è il mancato raggiungimento dell’obiettivo più ambizioso dell’integrazione sociosanitaria e, conseguentemente, la Long-Term Care (LTC) se pur migliorata in alcuni suoi aspetti, continui nell’attuale babele.
Quali le possibili soluzioni?
Auser nella sua ricerca ne indica numerose, diverse delle quali contenute anche nelle proposte avanzate dalle circa 50 organizzazioni del “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza”.
Tra queste si sottolinea, in particolare, l’importanza della creazione di un soggetto istituzionale nazionale per la LTC. Questa soluzione, nel quadro di un deciso recupero delle capacità unitarie di indirizzo politico del livello nazionale e di una più efficace e consistente programmazione pluriennale delle risorse, contribuirebbe a correggere l’attuale squilibrio esistente tra pilastro sanitario e pilastro sociale della LTC.
Con l’istituzione di un Servizio nazionale per la LTC a cui affidare le politiche socio-sanitarie e socio-assistenziali rivolte sia al target anziani, sia al target dei disabili adulti, significherebbe affermare in modo univoco la tutela pubblica della non autosufficienza. Il suo finanziamento dovrebbe realizzarsi ricomponendo tutte le risorse pubbliche già in gioco in una sorta di fondo nazionale per la LTC: ovvero circa 34 Mld annui, diventando quindi uno dei pilastri finanziariamente più rilevanti del nostro sistema di welfare. Similmente al SSN, il Servizio Nazionale per la LTC dovrebbe essere istituzionalmente multilivello, coinvolgendo con ruoli e responsabilità distinte e specifiche Stato, Regioni e territori.
L’istituzione del Servizio nazionale per la LTC permetterebbe di realizzare una politica unitaria sulla compartecipazione economica delle famiglie, sui criteri di eleggibilità ai servizi e sui criteri di accesso alle misure di sostegno monetario. Questo permetterebbe di ricreare ordine ed equità nella distribuzione dei benefici garantiti dal sistema di welfare pubblico, potendo inserire anche maggiori profili redistributivi.
Un Servizio nazionale per la LTC avrebbe l’effetto di determinare differenziati e rilevanti impatti istituzionali e di policy:
- affermare e sistematizzare stabilmente nell’agenda del sistema politico il tema della LTC;
- esplicitare quantitativamente il bisogno di LTC, l’intensità assistenziale garantita da risorse pubbliche, il tasso di copertura del bisogno, permettendo al paese di riflettere sullo sforzo fiscale che si ritiene utile condividere;
- dare maggiore visibilità alle strutture sociosanitarie a partire dai Distretti;
- individuare ai vari livelli di governance le responsabilità politiche e amministrative;
- fare maggiore chiarezza sui profili professionali degli operatori della LTC adeguandoli per numero e competenze;
- rafforzare l’importante contributo sussidiario e integrativo che gli enti del terzo settore possono fornire all’intervento pubblico, così come ampiamente dimostrato e riconosciuto nel corso della pandemia, rendendo concretamente esigibile a tutti i livelli la co-programmazione e la co-progettazione a partire dai programmi del PNRR.
In conclusione abbiamo bisogno di una riforma all’altezza dei tempi. Nel volgere di pochi decenni un terzo della popolazione avrà un’età superiore ai 65 anni. Si tratta di un mutamento profondo di cui ancora non c’è una adeguata consapevolezza sociale. L’esperienza della pandemia ha avuto il drammatico merito di aver messo in luce i limiti del sistema italiano di assistenza sanitaria e sociale della popolazione fragile.
C’è da sperare che questa nuova consapevolezza sia di ispirazione per una riforma del welfare all’altezza della rivoluzione demografica che stiamo vivendo. Un welfare di prossimità, frutto di un patto, di un’alleanza sul territorio tra istituzioni, forze sociali, mondo dell’associazionismo, enti del terzo settore, volontariato in cui ognuno metta a disposizioni le proprie capacità e disponibilità, il proprio impegno per dare a tutti noi una speranza e un percorso di crescita civile.