Nel gennaio del 1992,pur nel pieno di una travagliata stagione politica, il Parlamento della Repubblica approvava il Progetto Obiettivo Anziani nazionale che, nel delineare la rete dell’Assistenza Geriatrica, indicava, tra le articolazioni fondamentali di tale rete, la Residenza Sanitaria Assistenziale quale “struttura extra-ospedaliera per anziani disabili, prevalentemente non autosufficienti, non assistibili a domicilio, abbisognevoli di trattamenti continui e persistenti, finalizzata a fornire (loro) accoglienza ed erogazione di prestazioni sanitarie, assistenziali, di recupero funzionale e sociale”, riconoscendo a pieno, con questa definizione, la valenza anche sanitaria delle strutture residenziali per gli anziani non autosufficienti, e la necessità del “massimo (grado di) integrazione degli interventi sanitari e sociali”.
Un primo riconoscimento della connotazione sociosanitaria di valenza sanitaria di questi presidi, ed un robusto impulso alla loro realizzazione, erano in realtà già venuti dalla legge finanziaria per il 1989 (art. 20, Legge 67/1988) che prevedeva, accanto ad un Piano nazionale di investimenti nella rete ospedaliera, la realizzazione di residenze per anziani non autosufficienti, e dal successivo DPCM 22 dicembre 1989 che ne fissava i requisiti strutturali.
Nel maggio scorso la Commissione nazionale per la definizione e l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) istituita dal Ministero della Salute ha definito, in un documento facilmente scaricabile dal sito internet del Ministero, i “contenuti tecnico-professionali” delle prestazioni residenziali e semiresidenziali per gli anziani non autosufficienti: passaggio fondamentale per una programmazione socio-sanitaria che si proponga di salvaguardare, pur nel rispetto delle specifiche competenze regionali, quei principi generali di universalità, equità ed appropriatezza che lo stesso Documento richiama a garanzia dell’accesso alle prestazioni residenziali. Di fatto, la situazione dalla quale parte il lavoro della Commissione appare contrassegnata da un’estrema eterogeneità e dalla impossibilità anche solo di costruire un quadro informativo coerente a livello nazionale.
Diversa, da Regione a Regione, è la collocazione delle Residenze all’interno dei sistemi sanitari e sociali, diversi sono i modelli autorizzativi, le modalità e l’entità dei finanziamenti da parte del FSN, gli strumenti di valutazione degli utenti e di individuazione del case mix, gli standard organizzativi e gestionali; la stessa denominazione di RSA assume nelle singole Regioni significati differenti. Altissima è soprattutto la variabilità delle dotazioni di posti letto (si va, secondo i dati forniti dall’ISTAT per il 2003, dai 66,03 posti letto per 1.000 anziani del Trentino ai 4,72 della Campania!): variabilità che non può certo essere giustificata solo dalla presenza di realtà sociali e culturali non omogenee, ma che sottende ad una drammatica difformità delle possibilità di accesso ad un servizio essenziale per gli anziani non autosufficienti.
Il Documento predisposto dalla Commissione LEA offre, a mio avviso, alcuni punti fermi largamente condivisibili proprio alla luce dell’esperienza lombarda: dalla definizione di prestazione residenziale quale “complesso di prestazioni di carattere sanitario, tutelare, assistenziale e alberghiero erogate nell’arco delle 24 ore” a soggetti non autosufficienti e non assistibili a domicilio, che la colloca decisamente nell’area dell’integrazione socio-sanitaria; alla necessità che l’accesso sia subordinato ad una valutazione multidimensionale, a garanzia della “effettiva appropriatezza dell’indicazione”. Importante è anche il riconoscimento della instabilità clinica connessa pressoché obbligatoriamente alla (poli) patologia cronica invalidante e, di conseguenza, della forte valenza sanitaria che tali residenze devono assumere per saper affrontare tale instabilità, gestire “problematiche intercorrenti, anche acute”, dispiegare “significativi e continui trattamenti di natura sanitaria, anche per il supporto alle funzioni vitali”.
La specificità delle prestazioni non risiederebbe, pertanto, per la Commissione, in una minore intensività degli interventi assistenziali (che pure può caratterizzare alcuni moduli o “codici di attività” del sistema delle residenze),quanto nell’obiettivo di questi interventi che, per la degenza ospedaliera in acuzie, è la soluzione di eventi acuti o di situazioni “critiche” che richiedono elevate dotazioni diagnostico-terapeutiche; per la riabilitazione o la “lungodegenza post-acuzie” è il raggiungimento di un risultato “in un arco temporale relativamente prevedibile e comunque limitato”; mentre per la prestazione residenziale appare essere il sostegno alla persona nel suo progetto di vita (il documento parla un po’genericamente di “aspetti di umanizzazione e personalizzazione dell’assistenza, anche in ragione della prolungata durata della degenza”; ben più efficacemente, le linee guida della SIGG per le RSA – per ribadire, mi pare, lo stesso concetto – definiscono l’attività medica nelle RSA “un’attività di presa in carico sia della salute che della malattia, quindi del percorso fisiopatologico che lega malattia e disabilità, con attuazione di programmi di terapia che si integrano con i programmi di sostegno globale alla persona, attuati dalla équipe di cura”).
Il Documento valorizza inoltre lo stretto rapporto della residenza per gli anziani non autosufficienti con la rete dei servizi socio-sanitari, sottolineando come essa può e deve operare, anche con accoglienze temporanee, ed inserirsi nei programmi di dimissione protetta dall’ospedale a “garanzia di continuità assistenziale” con l’obiettivo di “accompagnare il recupero funzionale e predisporre le condizioni anche logistico-organizzative per il reinserimento a domicilio”. In nessun caso “deve essere intesa come una soluzione finale del percorso, ma come un nodo dinamico della rete che preveda la dimissibilità a domicilio in tutte le situazioni in cui le condizioni di assistibilità siano recuperate”. Sempre ad una logica di rete risponde l’auspicio che la residenza si organizzi in nuclei a diversa intensità assistenziale, così da saper intercettare e rispondere con flessibilità alla variabilità dei bisogni dell’utenza del territorio di riferimento. L’articolazione di queste diverse tipologie di prestazioni erogate dalle Residenze, e gli “standard qualificanti” (di personale) per i diversi livelli prestazionali, sono illustrati nel contributo di Enrico Brizioli.
A mio parere sarebbe opportuno che il Documento prevedesse, accanto ai Nuclei Alzheimer, nuclei specializzati nella (o prestazioni erogate di) assistenza residenziale intensiva (R1) a pazienti che richiedono un supporto alle funzioni vitali (per SVP, grave insufficienza respiratoria, malattie neurodegenerative progressive, ecc.) e nelle cure estensive di pazienti ad elevata instabilità clinica (R2). Resta semmai un dubbio sull’adeguato dimensionamento dei relativi standard assistenziali (anche se il raffronto non è facile, essi appaiono inferiori agli standard fissati dalla Regione Lombardia, ed ancor più ai livelli assistenziali, in genere superiori, effettivamente garantiti dalle residenze lombarde). In compenso, il riferimento per i codici R1,R2 ed R2D alle cure intensive ed estensive definite dal DPCM 29 novembre 2001 farebbe ipotizzare, per queste prestazioni, un onere totalmente (o prevalentemente) a carico del FSN: avvalorerebbe tale ipotesi la stima di una spesa a carico del SSN, per il complesso delle prestazioni residenziali, superiore a quella destinata a gravare sulle famiglie e/o sui Comuni.
Il Documento non scioglie alcuni nodi, peraltro non semplici: dalla scelta di un unico strumento di Valutazione Multidimensionale valido per tutto il territorio nazionale, alla proposta di indicatori di processo e di risultato per la valutazione della qualità dell’assistenza erogata, fino alla definizione di standard di offerta della rete delle residenze (anche se la prefigurazione del suo impatto economico fa riferimento ai 35 posti letto per 1.000 anziani, e ne rileva una sostanziale compatibilità con la spesa sanitaria globale). Resta peraltro fondamentale che il Ministero della Salute abbia avvertito l’esigenza di definire livelli essenziali di assistenza in un ambito – la cura a lungo termine e l’assistenza residenziale e semiresidenziale agli anziani non autosufficienti – a cui l’evoluzione demografica ed epidemiologica del Paese assegna un rilievo sempre più significativo. A questa consapevolezza deve evidentemente seguire, oltre alla capacità/volontà delle singole Regioni di completare il proprio percorso normativo, la reale disponibilità di adeguati finanziamenti finalizzati: secondo una prima stima operata dalla Commissione, l’incremento effettivo della spesa a regime sarebbe del resto pari a poco più del 5% del FSN e “la copertura di questi maggiori oneri potrebbe avvenire in parte con azioni di redistribuzione della spesa sanitaria… in parte attraverso la istituzione di un Fondo vincolato” (di cui l’attuale governo ha avviato, sia pure al momento in modo poco più che simbolico, il finanziamento).
L’esperienza condotta nella Regione Lombardia negli ultimi due decenni ha dimostrato infatti che grazie all’effettiva disponibilità di risorse – tanto in conto capitale quanto in conto gestione – ed alla definizione precisa dei modelli di servizio, dei requisiti strutturali e gestionali e del percorso autorizzativo, è stato possibile mobilitare le risorse economiche, professionali ed umane delle comunità locali, ed incrementare progressivamente l’offerta delle strutture residenziali per gli anziani non autosufficienti e la loro qualità complessiva, realizzando un effettivo sostegno tanto alle politiche sociali di diversificazione degli interventi di tutela della popolazione anziana, quanto alle politiche sanitarie di contenimento delle degenze e di qualificazione specialistica dei presidi ospedalieri.