5 Ottobre 2018 | Programmazione e governance

Politiche regionali a sostegno del mercato privato di cura

L’assistenza familiare si è gradualmente consolidata come soluzione al bisogno di cura dell’anziano non autosufficiente. Tuttavia il lavoro privato di cura appare una realtà molto complessa da governare. L’articolo propone una riflessione sui diversi tentativi di regolazione e qualificazione del mercato privato di cura promossi dalle regioni italiane negli ultimi anni.


Gli assistenti familiari si configurano come la risorsa di sostegno di gran lunga più impiegata dalla popolazione anziana in condizione di non autosufficienza.

 

L’attore pubblico, che negli anni ha assistito alla crescita di questa tendenza, ha cercato di intervenire nel mercato privato di cura prefiggendosi due obiettivi di policy: sostenere la domanda di cura e sostenere l’offerta di assistenza. Nel primo rientrano gli sforzi volti a venire incontro alle famiglie e ai loro bisogni, condividendo le responsabilità di questo percorso, sostenendo le capacità di spesa e aiutandole a gestire gli oneri legati alla cura. Nel secondo obiettivo, invece, rientrano gli interventi rivolti agli assistenti familiari e comprende azioni finalizzate a facilitare la regolarizzazione e la qualificazione di questo ruolo professionale. Le iniziative proposte dalle regioni, in relazione a questi fini, si possono raggruppare in quattro tipologie di servizi: sostegni economici, registri degli assistenti familiari, corsi di formazione e sportelli per l’incontro domanda e offerta (tabella 1).

 

Tabella 1 – Servizi a sostegno del lavoro privato di cura

 

Sostegno economico

Nel corso degli anni il contributo economico, in quanto sostegno alle famiglie e strumento volto a favorire l’emersione del lavoro sommerso, ha ottenuto una progressiva diffusione: oggi tutte le regioni italiane prevedono un sostegno economico, sotto forma di assegni di cura, voucher o buoni sociali.

 

Per tutte le regioni l’accesso al contributo è subordinato a determinati requisiti, come il reddito calcolato attraverso l’indicatore ISEE, il patrimonio posseduto dall’utente, la gravità dello stato di non autosufficienza, la comprovata certificazione della condizione di non autosufficienza attraverso la sottoscrizione del programma di assistenza individualizzato (PAI) e il numero di ore settimanali di assistenza.

 

L’evidente discrepanza, invece, consta nelle diverse modalità di utilizzo del contributo economico. A riguardo è possibile individuare tre modelli secondo cui le regioni erogano tale servizio:

  • Contributo volto alla domiciliarità dell’anziano non autosufficiente (Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Calabria) prevede il libero impiego dell’assegno volto a compensare qualsiasi tipo di prestazione, dall’assistenza svolta da familiari o figure professionalmente assunte, all’acquisto di servizi specifici (ad esempio telesoccorso, consegna pasti a domicilio), con l’obiettivo di favorire la permanenza dell’anziano non autosufficiente nel proprio domicilio.
  • Contributo volto alla regolazione del mercato privato di cura (Liguria, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Bolzano, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata, Sicilia) mira a favorire l’emersione del lavoro privato di cura. In queste regioni il contributo economico è rigorosamente soggetto all’assunzione dell’assistente familiare con contratto regolare.
  • Contributo volto alla regolazione e qualificazione del mercato privato di cura (Valle D’Aosta, Provincia Autonoma di Trento, Puglia, Sardegna), propone l’erogazione del contributo economico vincolato a stretti criteri d’accesso quali l’assunzione regolare di assistenti familiari iscritti presso il registro pubblico degli assistenti familiari o programmi di formazione istituiti dalla regione stessa. Tale tendenza, di recente sperimentazione, rappresenta il tentativo di calare il sostegno economico in una strategia più ampia, connettendolo il più possibile alla rete dei servizi sociali e sociosanitari.

 

Diverse sono le riserve che sono state espresse nei confronti del sostegno economico come strumento di regolazione del mercato privato di cura. Innanzitutto, secondo le ultime indagini (Pasquinelli, Rusmini, 2013) si riscontra un uso limitato dei contributi economici; la causa potrebbe essere imputata al fatto che per accedere all’assegno occorre avere un reddito molto basso (intorno ai 13 mila euro ISEE) e nella gran parte dei casi l’incentivo tende a coprire solo il costo dei contributi previdenziali, per questo motivo le famiglie preferiscono i vantaggi di un rapporto di impiego deregolato.

 

In secondo luogo, è possibile osservare come questo tipo di intervento nelle regioni appartenenti al primo modello sia esposto a maggiori rischi: innanzitutto di fronte a maggiore discrezionalità dell’impiego del sostegno economico deve necessariamente seguire un maggiore controllo fiscale, al fine di ovviare all’emersione del lavoro grigio in seno al mancato rispetto delle norme contrattuali; inoltre la possibilità di retribuire un parente caregiver per le prestazioni di cura si presenta come un’azione di vantaggio in alcuni contesti, dall’altra parte, però, produce una mercificazione dei rapporti familiari, la verosimile instaurazione di inedite dinamiche di potere, potenzialmente negative (Sarti, De Marchi, 2011) e la facile esposizione al fenomeno di burnout da long-term care. Infine il contributo economico riversa un onore non indifferente nei confronti delle famiglie che assumono il ruolo di datore di lavoro, spesso senza avere alcuna competenza o attitudine, ritrovandosi ad occuparsi di molteplici questioni, dalla delicata scelta dell’assistente familiare agli aspetti contrattuali e burocratici, nonché dell’articolato rapporto tra l’anziano non autosufficiente e l’assistente familiare subordinato.

 

Alla luce di questo dibattito è evidente come l’incentivo economico, sotto forma di voucher, buoni o assegni di cura possa avere un maggiore effetto positivo se inserito all’interno di una rete di interventi in grado di prendere in carico famiglie e assistenti familiari.

 

Registri degli assistenti familiari

Nell’ultimo decennio, i registri regionali degli assistenti familiari sono andati rapidamente diffondendosi, offrendo alle famiglie la possibilità di accedere ad informazioni sui lavoratori in modo trasparente, esercitando una facoltà di scelta più ampia e garantita rispetto al più tradizionale passaparola. Ad oggi è possibile rilevare che 12 regioni italiane (Valle D’Aosta, Liguria, Lombardia, Provincia Autonoma di Trento, Veneto, Marche, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia, Sardegna) abbiano istituito un registro o elenco regionale degli assistenti familiari, a sostegno della regolazione e qualificazione del mercato privato di cura.

 

È utile precisare che rispetto al passato, la dicitura registro o elenco ha perso la sua connotazione tipologica; mentre precedentemente l’espressione precisava se il sistema di incrocio domanda e offerta prevedesse requisiti minimi d’accesso (albo) o alcun tipo di restrizioni (elenco), attualmente, le regioni che ricorrono a questo servizio prevedono tutte un insieme di requisiti d’ingresso piuttosto omogeneo. I principali criteri di selezione sono: la maggior età; non riportare condanne in giudicato; il titolo di soggiorno valido ai fini dell’assunzione per lavoro subordinato; una sufficiente conoscenza della lingua italiana; la residenza o il domicilio sul territorio regionale; una competenza minima nel settore. Quest’ultimo grado di selezione è l’unico che varia in base alla regione di riferimento; esso si può declinare in: attività formativa documentata, attività lavorativa documentata, attestato o qualifica, titolo di studio. Le regioni si possono avvalere di più requisiti, in alternativa uno all’altro e definire per ognuno di essi le modalità necessarie per l’iscrizione al registro. A titolo esemplificativo, l’attività formativa e l’attività lavorativa sono spesso soggette a un numero di ore minimo per accedere; allo stesso modo i titoli di studio sono subordinati al territorio in cui sono stati acquisiti. Outsider in questo ambito, è il caso della Valle D’Aosta, la quale impone come condizione necessaria per l’iscrizione all’elenco degli assistenti familiari la frequenza obbligatoria al corso di formazione svolto dalla regione stessa. Generalmente i registri sono unici per l’intero territorio regionale, facilmente consultabili sul sito della regione e periodicamente aggiornati. Diversa è l’esperienza di Toscana e Calabria, le quali non prevedono un registro degli assistenti familiari a copertura regionale ma demandano ai Comuni, alla Provincia o a un insieme di province, l’istituzione di un elenco valido per gli assistenti familiari residenti in quel determinato territorio; in questi casi difficilmente viene costruita una banca data on-line ma gli elenchi sono facilmente rintracciabili presso i Centri per l’Impiego.

 

La capacità dei registri di incrociare domanda e offerta offre alle famiglie una più ampia possibilità di scelta disancorata dalla ricerca tramite “passaparola” e agli assistenti familiari il riconoscimento di un status professionale. Allo stesso tempo questo servizio presenta un’efficacia limitata se non affiancato da ulteriori servizi aggiuntivi, come il sostegno economico, corsi di formazione, sportelli domanda/offerta; proprio per la natura di questo strumento (abbinamento domanda e offerta, in molti casi on-line e senza nessuna azione di sostegno nei confronti dei fruitori), l’integrazione appare come condizione necessaria al fine di ridurre il tasso di irregolarità e favorire la qualificazione della cura.

 

Corsi di formazione per assistenti familiari

L’interesse per la qualificazione del mercato privato di cura è visibilmente in aumento. Rispetto all’ultima indagine (Rusmini, 2013), in cui il numero di territori che avevano definito uno standard formativo per l’assistenza familiare ammontava a 14 regioni, ad oggi è possibile constatare un incremento con l’ingresso della Sicilia e della Sardegna che rispettivamente nell’anno 2016 e 2013 hanno avanzato disposizioni di legge volte a regolare i percorsi formativi per questa categoria professionale. Attraverso la comparazione dei percorsi formativi, è possibile affermare che questi hanno una durata variabile compresa tra le 100 ore previste dalla regione Marche e le 400 ore erogate dalla regione Puglia e Abruzzo. Tutti i corsi prevedono la divisione del monte ore tra lezioni teoriche in aula e pratica, sotto forma di tirocinio. Per ottemperare ai problemi di conciliazione tra lavoro e formazione, soprattutto per le assistenti familiari occupate al momento del corso, gran parte delle regioni hanno messo in atto alcuni espedienti atti ad incentivare la formazione: riconoscimento di crediti formativi in ingresso, utili all’abbreviazione del percorso sulla base della certificazione delle competenze; riconoscimento crediti formativi in uscita, utili per l’accesso o l’abbreviazione del percorso di qualifica come operatore socio-sanitario (OSS); l’indennità di frequenza per ogni ora di corso svolto, come nella provincia autonoma di Trento il cui rimborso orario ammonta a 1,50 euro, così anche in Sardegna e in Campania il quale rimborso previsto è pari a 2,00 euro.

 

I principali requisiti d’accesso ai percorsi formativi sono la maggiore età, il permesso di soggiorno, la conoscenza dell’italiano (solo alcune regioni prevedono un modulo formativo di lingua italiana propedeutico al corso stesso, rivolto agli stranieri che non mostrano un’adeguata padronanza). La maggior parte dei corsi prevede la selezione sulla base della motivazione e dell’attitudine.

 

Per quanto concerne i contenuti dei corsi è possibile rilevare, una notevole omogeneità in conformità delle quattro macro aree delineate dagli autori Pasquinelli e Rusmini (2009): istituzionale, contrattuale, relazionale e tecnico-operativa.

 

Degna di nota è l’iniziativa promossa dalla regione Emilia-Romagna che, dal 2009 a supporto della qualificazione del lavoro di cura, ha realizzato opuscoli informativi multilingue sulle principali aree di intervento per assistenti familiari stranieri. Gli opuscoli sono stati tradotti in otto lingue (russo, polacco, inglese, arabo, rumeno, francese, spagnolo, albanese) e divisi in dodici moduli, ciascuno dei quali tratta approfonditamente un argomento. Associati ad essi, ci sono i test di autovalutazione (cinque tipologie di esercizi: comprensione del testo, comprensione e memorizzazione, lessico: imparare le parole, comunicare in italiano e associazione di concetti, parole e sequenze). L’intento è promuovere l’uso di strumenti innovativi per facilitare il contenuto e il coinvolgimento degli assistenti familiari.

 

Diverso è il caso delle altre quattro regioni (Veneto, Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia) prive di corsi di formazione per assistenti familiari regolarmente normati. Per quanto concerne la regione Veneto, essa non ha definito un percorso formativo standard ma prevede dal 2004 la realizzazione di corsi brevi da 32 ore, da parte di una ULSS (Dolo Mirano); così anche la regione Basilicata non prevede un percorso formativo regionale ma è possibile rintracciare corsi di formazione promossi dalla provincia; allo stesso modo la regione Calabria si compone di progetti sperimentali per la qualificazione del lavoro degli assistenti familiari circoscritti solo ad alcune province e comuni del territorio; diversamente per il Friuli Venezia Giulia non è stato possibile rintracciare corsi di formazione promossi dalla regione, reperibili per via telematica sul sito della regione.

 

I corsi di formazione in quanto servizi a sostegno del mercato privato di cura presentano nella loro struttura punti di forza e di debolezza fonti di non poche contraddizioni. Innanzitutto la principale finalità del percorso formativo, ossia garantire le competenze base, contribuisce da un lato ad elevare la qualità della forza lavoro, dall’altro lato può diventare un ostacolo nel caso in cui la maggiore capacità contrattuale si trasformi in una superiore pretesa di riconoscimento economico, (Albano, 2015), soprattutto in assenza di risorse per il sostegno al reddito delle famiglie. Un’ulteriore finalità dei corsi di formazione è quella di offrire un percorso di crescita professionale, ossia la possibilità di erigere il lavoro di cura ad uno status professionale riconosciuto o ad un avanzamento di carriera in ulteriori qualifiche; al perseguimento di tale scopo si affiancano sistemi di certificazione e validazione delle competenze che nonostante la considerevole utilità, ad oggi non sono sistemi regolati da un quadro chiaro di riferimento nazionale, impedendo così, non solo il pieno riconoscimento dei titoli ma anche la mobilità delle forze lavoro e l’uniformità del titolo professionale a livello nazionale. Infine, i corsi di formazione si scontrano con la rilevante problematica della conciliazione, soprattutto quando il rapporto di lavoro è già avviato; al fine di ovviare a tale questione, sono state sviluppate azioni di tutoraggio on the job, intese come sostegno alla famiglia, monitoraggio del progetto assistenziale e affiancamento all’assistente familiare. Attualmente le azioni di tutoring sono ancora poco diffuse; degna di nota è la regione Emilia-Romagna che per ogni ambito distrettuale ha individuato un’equipe multi professionale di operatori esperti con il compito di assicurare, con continuità, una rete di supporto agli assistenti familiari presenti nel proprio territorio e garantire, nell’ambito del percorso di apprendimento sperimentale, un ruolo di supervisione, facilitazione e accompagnamento1.

 

Sportelli per l’incontro domanda e offerta

Gli sportelli per l’incontro domanda e offerta sono attivi nella metà delle regioni italiane, tendenzialmente quelle del Centro-nord.

 

Da questa indagine, è possibile mettere in luce come negli ultimi anni le regioni dotate di sportelli per l’incontro domanda e offerta siano evolute transitando dal modello informativo al modello matching. Gran parte degli sportelli propongo un approccio che prevede, con sfaccettature diverse, l’accompagnamento della famiglia e dell’assistito verso la scelta dell’assistente familiare, favorendo l’incontro non solo verso l’offerta disponibile sul territorio ma mettendo in contatto l’utenza con gli altri servizi utili a completare il percorso di presa in carico, sia dal punto di vista sanitario sia quello socioassistenziale. A convalidare quanto detto, è possibile consultare la tabella 2, la quale fornisce una sintesi della situazione regionale promossa nell’ultimo decennio.

 

È possibile imputare la limitata diffusione degli sportelli di abbinamento domanda e offerta sul territorio nazionale alla stretta relazione con la stipula di un contratto regolare che in termini di disponibilità, per palesi motivi di convenienza reciproca, rimane ancora piuttosto bassa: nel lavoro in nero un assistente familiare, a parità di ore lavorative, guadagna di più ed è meno oneroso, è per questo motivo che l’azione dello sportello rischia di essere fittizia se non collegata ad altri interventi. La pura intermediazione di lavoro ha il fiato corto, il valore aggiunto sta proprio nel collegare i sostegni della domanda a quelli dell’offerta, e attraverso una buona opera di ascolto e lettura del caso è possibile affiancare prontamente una risposta conforme alle reali necessità.

 

Tabella 2 – Regioni che hanno definito sportelli per l’incontro di domanda e offerta di lavoro privato di cura

 

Progetti integrati

Negli ultimi anni sono aumentati i progetti volti alla creazione di una rete tra i diversi servizi finora discussi: sostegni economici, registri degli assistenti familiari, corsi di formazione e sportelli per l’incontro domanda e offerta. L’intento è di connettere il singolo intervento ad una gamma più ampia di servizi, con il risultato di realizzare un progetto unico. A tale proposito, si riportano alcune sperimentazioni regionali che hanno riscontrato un discreto esito come buona prassi di progetti volti alla regolazione e qualificazione del mercato privato. La prima riguarda la Regione Piemonte, la quale dal 2010 al 2013 ha elaborato un proprio modello integrato tra le politiche sociali e la formazione professionale, il quale prevedeva l’attivazione di sportelli matching con finalità di orientamento sia delle famiglie che degli assistenti familiari, sportelli dedicati all’incontro domanda/offerta e all’accompagnamento nelle prime fasi di inserimento lavorativo, infine percorsi di certificazione delle competenze e corsi di formazione per gli assistenti familiari. Allo stesso modo, un buon esito di integrazione, considerato buona prassi a livello nazionale, è stato raggiunto dalla Regione Puglia con il Progetto R.O.S.A – Rete per l’Occupazione e i Servizi di Assistenza, avviato nel 2008 e attualmente ancora in corso, il quale ha istituito elenchi provinciali di assistenti familiari, obbligatoriamente in possesso di esperienze lavorative documentate o certificato di frequenza al corso di formazione regionale, connessi ad un incentivo economico per le famiglie che si avvalgono di un assistente familiare che aderisce al progetto. Infine, il progetto Pronto Badante promosso dalla Regione Toscana, in via sperimentale dal 2015, il quale mette a disposizione delle famiglie toscane un servizio rivolto alla persona anziana nel momento in cui si presenta, per la prima volta, una situazione di fragilità; l’intervento diretto di un operatore presso il domicilio garantisce un unico punto di riferimento per avere informazioni riguardanti i percorsi socio-assistenziali e un sostegno economico per l’attivazione di un rapporto di lavoro con un assistente familiare.

 

È opportuno ricordare quali sono le maggiori sfide per questo tipo di progettualità tout court: in primo luogo appare essere un’impegnativa opera di coordinamento e adattamento di strumenti tra i diversi soggetti, pubblici e privati, chiamati a partecipare ad unico progetto; in secondo luogo tali sperimentazioni sono rimesse all’impatto reale, in termini di efficacia sulla popolazione anziana, sulle famiglie e sugli assistenti familiare immersi in rapporto esposto a continui cambiamenti; in terzo luogo si tratta di interventi particolarmente soggetti a restrizioni finanziarie imposte dalla profonda frammentazione dei canali di finanziamento che non favoriscono la programmazione e la strutturazione di progetti stabili e di programmi che abbiano un orizzonte temporale prolungato.

 

Conclusione

“È diverso essere non autosufficiente a Bolzano piuttosto che a Reggio Calabria, a Sassari piuttosto che a Firenze”. Come evidenzia la figura 1, il processo di regionalizzazione, congiuntamente alle differenze che esistono nelle regioni in termini di risorse economiche e tradizioni locali, si presenta come un paniere variegato e frammentato in una miriade di azioni slegate e scoordinate. In primo luogo le venti regioni italiane si differenziano per il numero dei servizi e progetti attivi e il grado di uniformità dei parametri sul territorio (Maioni, 2013; Ranci, Pavolini, 2015). In secondo luogo è possibile delineare una rilevante eterogeneità regionale nella scelta di sostenere le famiglie e il lavoro degli assistenti familiari con determinati servizi e diverse modalità di impegno e di spesa della stessa azione di policy. In terzo luogo si osserva un forte grado di frammentazione dell’offerta non solo a livello regionale ma anche a livello sub-regionale: sono ancora troppe le regioni che demandano la pianificazione degli interventi agli enti locali, creando un’offerta di welfare locale variegata e eterogenea a distanza di corto raggio.

 

Emerge chiaro come il mercato privato di cura sia caratterizzato da contorni incerti e precari, a favorire questo quadro è la mancanza di direttive nazionali circa l’assistenza tutelare a domicilio, la quale viene esplicitata all’interno dei LEA2 senza precisare i volumi di assistenza da garantire, il timing e i contenuti. Di fronte a questo cosiddetto immobilismo, sono le regioni che tentano di rispondere a questo vuoto con una forte discrezionalità operativa che si scontra con quelle che sono le oggettive sfide di questo ambito. In primis le reciproche convenienze da parte di famiglie e assistenti familiari nell’allacciare un rapporto deregolato, incrementate dal contesto di crisi economica degli ultimi anni e costantemente alimentate dagli assistenti familiari irregolarmente soggiornanti, per giunta esclusi dai servizi e progetti a sostegno del mercato privato di cura poiché privi del permesso di soggiorno.

 

In aggiunta, dai dati esaminati in questa sede, emerge con chiarezza come gli interventi a sostegno del mercato privato di cura sperimentati dalle regioni avvertano l’esigenza di sganciarci dalla programmazione isolata verso una progettazione dell’offerta più organica, ma è doveroso ricordare che il raggiungimento di tale obiettivo rimane vincolato ai finanziamenti economici e all’ardua opera di coordinamento tra i soggetti pubblici e privati.

 

Per quanto un uso strutturato delle risorse e delle politiche sia complice della realizzazione di un mercato di cura che possa dirsi ben governato, è necessario evidenziare come qualsiasi intervento di policy appare inconsistente se non connesso a un impianto capace di offrire un sostegno in tutte le fasi riguardanti questo delicato rapporto di lavoro. È fondamentale, dunque, parlare di un “sistema delle cure” (Motta, 2015), inteso come il senso più ampio e profondo di “presa in carico” sia delle famiglie che degli assistenti familiari a partire dall’incontro di una domanda e offerta tesa a mutare nel tempo.

 

Figura 1 – Servizi regionali a sostegno del lavoro privato di cura in Italia, 2018.
Elaborazione grafica dei risultati della mappatura dei servizi e progetti regionali (svolta dall’autrice), regolarmente normati attraverso leggi regionali o delibere emesse dalla giunta regionale, volti alla regolarizzazione e qualificazione del mercato privato di cura. Le informazioni sono state raccolte esclusivamente per via telematica; quindi attraverso la consultazione delle pagine web degli appositi progetti e dei siti regionali, integrata, ove necessario attraverso richieste di informazioni e delucidazioni telefoniche agli uffici competenti.

Note

  1. Regione Emilia-Romagna, d.g.r 1206/2007, Fondo regionale per la non autosufficienza – indirizzi attuativi della delibera n. 509/2007, allegato 2.
  2. D.P.C.M. 29/11/2011 (allegato I, punto I.C) e D.P.C.M. del 12/01/2017.

Bibliografia

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Maioni R. (2013), Assistenti familiari e regolazione del mercato di cura, in Pasquinelli S., Rusmini G. (a cura di), Badare non basta, Roma, Ediesse.
Motta M. (2015), Dalle assistenti familiari a un sistema delle cure, in Torrioni P.M. (a cura di), Sportelli e servizi per l’assistenza familiare, Torino, Celid.
Pasquinelli S., Rusmini G. (2009), I sostegni al lavoro privato di cura, in NNA (Network Non Autosufficienza) (a cura di) (2009), L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. Rapporto 2009, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore.
Pasquinelli S., Rusmini G. (2013) (a cura di), Badare non basta, Roma, Ediesse.
Ranci C., Pavolini E. (2015), Le politiche di welfare, Bologna, Il Mulino.
Rusmini G. (2013), I progetti di sostegno al lavoro privato di cura: un bilancio, in Pasquinelli S., Rusmini G. (a cura di), Badare non basta, Roma, Ediesse.
Sarti R., De Marchi E. (2011), Assistenza pubblica e privata. Un’analisi del ruolo degli enti locali, in Sarti R. (a cura di), Lavoro domestico e di cura: quali diritti?, Roma, Ediesse.

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