Da anni analizziamo il profondo cambiamento socio-demografico del Paese. Da anni discutiamo dei nuovi bisogni sociosanitari legati alle non-autosufficienze e alle fragilità. Da anni un vasto circuito composto da persone, famiglie, associazioni, operatori, professionalità, ricercatori, amministratori, cerca di ragionare per fare evolvere i servizi e, nel contempo, cerca in tutti i modi di far comprendere i temi che stanno alla base di questa indispensabile evoluzione. Da anni, gli stessi anni, aspettiamo un cambiamento che non arriva.
I motivi sono tanti e si sono protratti nel tempo: debolezza nella visione delle politiche e nelle capacità di riforma; debolezza nelle capacità di riordinare e trasformare le misure operative attorno ad un approccio evoluto e dinamico dei bisogni delle persone e delle reti familiari; debolezza nelle reali capacità di riorganizzare secondo logiche multidimensionali i nostri processi decisionali, gestionali, professionali e amministrativi.
Innovazioni di prodotto, di processo, di sistema
Il dibattito pubblico e le spinte principali si sono sempre concentrati sul tema delle risorse che, come tutti sappiamo, costituiscono da sempre un elemento essenziale per le politiche sulle non autosufficienze e le fragilità. Prima di tutto occorre stimare il fabbisogno nazionale di cure a lungo termine e produrne una valorizzazione, si diceva, per poi costituire un sistema di finanziamento sufficientemente corposo e finanziare i servizi necessari. Intimamente connesso al tema delle risorse, poiché è indispensabile perseguire l’appropriatezza dei servizi finanziati, era il secondo campo di riflessione: la determinazione dei percorsi assistenziali complessi basati su punti unici di accesso, équipe e valutazioni multidimensionali, piani assistenziali, rivalutazioni.
Mentre questo grande e fondamentale movimento civico, professionale, scientifico e culturale, ha cercato di far comprendere l’urgenza e i contenuti materiali dei nuovi bisogni di cura, i servizi hanno cercato tutti i giorni di riorganizzarsi per quanto possibile. Ne è scaturita una incessante fioritura di azioni locali piccole e grandi, ispirate dal mondo della pubblica amministrazione o dal mondo del privato sociale e delle associazioni, che ha generato servizi innovativi di solito piuttosto belli e interessanti. In queste vicende c’è sempre stata molta attenzione alle persone, ai nuclei familiari, alla multidimensionalità dei bisogni, agli aspetti professionali e organizzativi, all’innovazione tecnologica e telematica.
Attraverso le sperimentazioni e le spinte volontaristiche locali, da venti anni abbiamo dato luogo solo a delle ‘variazioni’ temporanee. Si tratta solo di variazioni perché i nuovi servizi che sono nati in ambito locale non sono mai riusciti a far cambiare in modo stabile e permanente i processi di cura e gli assetti dei sistemi. E si tratta in grandissima parte di variazioni basate sull’impegno e sulla ostinazione di piccoli gruppi di persone o di strutture. Solo quando, invece di semplici variazioni, si raggiungeranno vere e proprie ‘sostituzioni permanenti’ di servizi, processi e assetti, potremo aspirare a cambiare veramente la situazione attuale. Organizzare in modo permanente persone che appartengono ad enti diversi allo scopo di produrre una vera innovazione di processo è possibile se l’innovazione di processo è sostenuta da un’analoga innovazione del sistema istituzionale. Ai diversi enti coinvolti (regioni, aziende sanitarie, amministrazioni locali, cooperative, associazioni, società private) deve essere proposto un diverso modo di interagire. Questo passaggio da sempre osteggiato, svalutato e rimosso, diventa ogni giorno più impellente.
Oltre all’aumento dei fondi abbiamo bisogno di un fortissimo impulso capace di investire anche le dimensioni dei processi e dei sistemi (per utilizzare una sequenza grezza ripresa da altri settori). In effetti sarà molto difficile dare spessore ai nuovi servizi per le non-autosufficienze senza un reale sistema integrato multiprofessionale, sorretto da un corrispondente sistema di governance istituzionale. Non si tratta di fare in modo che singole persone (professionisti, operatori, amministrativi) si incontrino in modo puntuale rispetto alle valutazioni multidimensionali dei casi complessi; si tratta di impiantare un basamento permanente in cui i servizi del pubblico, sanitario e sociale, e del privato lavorino insieme in modo costante e continuativo secondo processi di cura aggiornati ed evoluti. L’integrazione non è un attributo accessorio alle consuete pratiche quotidiane che continuano come sempre, l’integrazione è la prassi quotidiana che costringe i servizi a cambiare in modo completo e permanente le attuali pratiche professionali e gestionali.
L’irruzione dell’epidemia
Su questa situazione ormai cristallizzata da tempo si è abbattuta l’epidemia mondiale del Covid-19, mettendo in crisi tutto quello che c’era. I singoli servizi, le singole strutture, i singoli gruppi di operatori, le singole persone, hanno risposto nel modo migliore possibile, hanno cercato di resistere con l’impegno e il sacrificio personale che ha inevitabilmente coinvolto anche le famiglie e gli affetti più cari. Sappiamo tutti quello che è successo, sappiamo del dolore inesauribile e della frantumazione di un mondo intero di assistenza, protezione, socializzazione, prossimità. Sappiamo che ora è necessario ricostruire.
Per un periodo non breve dovremo affrontare una condizione esplicita di endemia. Uno stato in cui la permanenza del Covid-19 è costante e tende a ripresentarsi, in dimensioni contenute o con piccoli focolai, con una incidenza relativamente uniforme secondo il progressivo allargamento del campo geografico di diffusione dell’endemia. Tutti sappiamo che rispetto a questa condizione di endemia occorre rivedere profondamente sia i servizi sia i processi che li sostengono e li orientano.
Questa necessità può dunque rappresentare una ulteriore spinta per il ripensamento delle filiere assistenziali residenziali e assistenziali domiciliari. L’opera di ricostruzione in endemia ci porta a guardare il sistema di cura, assistenza, protezione e socializzazione nel suo complesso, non solo nelle variazioni o negli adattamenti dei singoli servizi o attività.
Pensare a filiere assistenziali complete ed omogenee rivolte alle comunità, significa adottare un approccio territoriale che non è così semplice da armonizzare con gli approcci puramente aziendalistici da un lato o di tipo strettamente municipalistico dall’altro. Allo stesso modo, affrontare l’endemia in modo sufficientemente qualificato e organizzato porta in campo approcci sistemici ancora poco diffusi nelle materie sociosanitarie, come quelli legati all’analisi e alla gestione del rischio clinico. Il basamento informativo e la teleassistenza, poi, sono ormai delle esigenze assolute e improcrastinabili.
La Riforma che ancora manca
La questione determinante è che ‘il sistema’, nella non autosufficienza e nella fragilità, attualmente non esiste. Da venti anni niente ha mai neanche lontanamente provato a costituire veramente una infrastruttura seria di servizi per la non autosufficienza e la fragilità. Esistono le solite eccezioni locali, forti e caparbie, ma non c’è niente di generalizzato, diffuso, ambizioso, strutturale. E allora verso cosa dovrebbero approdare le innovazioni prodotte dai singoli servizi, se il sistema verso cui dovrebbero operare la sostituzione e il cambiamento non esiste?
La costituzione del Fondo nazionale per la non autosufficienza nel 2007 avrebbe potuto essere un’occasione, ma fino al 2019 è sempre rimasto confinato in un comma della legge statale di bilancio con alcuni elementi di contenuto recati del relativo decreto ministeriale annuale. Dal 2007 si sono via via formati fondi specifici in circa la metà delle regioni, alcuni dei quali generati da legislazioni regionali complesse e orientate verso una prospettiva fortemente evolutiva. Tuttavia anche quella spinta non ha generato sistemi integrati compiuti e persistenti in grado di riformare tutte le filiere assistenziali delle non autosufficienze e delle fragilità.
Tra lo scorso anno e i primissimi mesi del 2020 è stato attivato il Piano Nazionale per le Non Autosufficienze che reca alcune novità assolute e importantissime per il sociale, come la strutturazione del Fondo in relazione alla progressiva definizione dei relativi Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). Purtroppo però, almeno per il momento, la sfera di azione del Piano è limitata alle misure finanziate direttamente dal Fondo Nazionale che si riferiscono solo alle attività ‘sociali a rilevanza sanitaria’ di tipo domiciliare.
Nei prossimi anni il Piano Nazionale potrà diventare il luogo di confronto, di incrocio e di elaborazione contestuale di estesi LEP domiciliari e residenziali insieme ai relativi LEA sociosanitari recati dal D.P.C.M del 21 gennaio 2017? E potrà diventare il luogo di confronto della ricostruzione post-covid? Gruppi misti di questo tipo saranno poi replicati in tutte le regioni per far scaturire programmi in grado di promuovere l’evoluzione dei processi di cura nel loro complesso e non solo il miglioramento di singoli servizi molto specifici? A livello locale si formeranno coordinamenti di ambito che siano capaci di coinvolgere in modo permanente e operativo comuni, aziende e terzo settore?
Dagli accrediti effettuati alla piattaforma per il RdC risulta che gli ambiti territoriali sono circa 580. Ecco, si tratterebbe di fare più o meno 600 sistemi permanenti e strutturati per la governance istituzionale integrata. Altrimenti l’innovazione di sistema non si fa.
Avremmo bisogno di una spinta innovativa generalizzata che sia diffusa su tutto il territorio nazionale, e che sia in grado di ridurre l’altissimo grado di disuguaglianza dell’offerta legata alle condizioni geografiche delle aree del Nord e delle aree del Sud, delle aree urbane e delle aree rurali.
Soprattutto avremmo bisogno di una forza riformatrice lucida, consapevole, competente, determinata e coraggiosa, che non si limiti al solo riadattamento dell’esistente ma che affronti a tutto tondo la ricostruzione di un sistema integrato multilivello.