7 Dicembre 2021 | Programmazione e governance

Per una strategia di progresso dell’assistenza residenziale alle persone non autosufficienti: la congiunzione con l’assistenza domiciliare

Per il rilancio del settore dell’assistenza residenziale per la non autosufficienza, gli autori propongono che esso sia posto in stretta congiunzione con l’assistenza domiciliare, in un sistema territoriale unitario, integrato ed integrante governato dal Distretto, con l’obiettivo strategico di portare il rapporto delle risorse pubbliche spese per questa residenzialità e la domiciliarità nella proporzione di 1:1. Questi criteri programmatici fondanti possono riequilibrare il sistema ed armonizzare le reti di offerta pubbliche e private accreditate-convenzionate dei due settori.

progresso-assistenza-residenziale

Questo articolo potrebbe anche intitolarsi “Dalla pratica sul campo alle proposte di governance di un nuovo sistema unitario distrettuale domiciliarità-residenzialità per la non autosufficienza”. Esso nasce dalla constatazione che le persone non autosufficienti patiscono oggi la frammentazione dei servizi, spesso compartimentati nelle due macro-realtà sanitaria e sociale, in cui sono inseriti i servizi residenziali e domiciliari. E’ nota la disparità di risorse tra l’ambito sanitario e sociale (tra tre e dieci volte in più a favore del sanitario, in relazione ai metodi di calcolo e ai territori), così come di dimensione di utenza servita, di livello di diffusione e accessibilità. Queste asimmetrie si ripercuotono sugli utenti.

 

Abbiamo bisogno di un potenziamento parallelo di entrambi i servizi, residenziali e domiciliari. Proponiamo che questo avvenga secondo nuove prospettive e strategie, puntando sul Distretto quale leva del cambiamento, in quanto motore di integrazione e attore di advocacy. Del problema dell’assistenza alle persone non autosufficienti se ne stanno occupando ben tre Commissioni Istituzionali1– presso il Ministero della Salute, il Ministero del Lavoro, un Gruppo interparlamentare – che a breve dovrebbero concludere i lavori. La nostra voce quindi potrebbe essere poca cosa rispetto a quanto diranno queste Autorità, ma vorremmo ricordare due questioni molto rilevanti, per lo più trascurate (ad esempio, anche nel PNRR): il tema della governance del sistema e la separazione in “silos” (scarsa integrazione) tra i due servizi2.

 

Il ricovero permanente in struttura: un passo inevitabile?

Certamente nella non autosufficienza la residenzialità svolge una funzione irrinunciabile, dato che ad un certo punto del decorso della condizione vari fattori rendono impossibile proseguire la permanenza a casa, legata sia alla incompletezza dei servizi domiciliari istituzionali, sia alle contingenze del contesto abitativo (penalizzante), sia ai difetti di supporto possibile da parte della rete familiare o sociale. Restano così scoperti bisogni complessi e la home care non si realizza come vera alternativa all’istituzionalizzazione.

 

L’attenzione al problema critico dell’istituzionalizzazione deve essere sempre alta. Se ora è aumentata verso la qualità delle strutture, ovvero dei “contenitori” (è giusto – doveroso – vi siano edifici adeguati; buona organizzazione; congrua presenza del personale, oggi spesso esiguo per aspetti quali/quantitativi rispetto alle esigenze assistenziali), non sempre si dimostra pari peso per la “vita dei contenuti”: occorre privilegiare e (pre)occuparsi primariamente della vita degli “ospiti”; della loro qualità e dignità di vita; occorre chiedersi continuamente se questa sia divenuta o stia divenendo migliore anziché peggiore di prima, quando queste persone trascorrevano la vita a casa propria; occorre valutare continuamente se ciò che viene offerto è sempre adeguato, se permane buona assistenza e buone cure. Centrale deve rimanere il valore della persona, della Relazione che ci connette a Lei, la ricerca della sua miglior qualità di vita possibile (nella consapevolezza che parte già svantaggiata), grazie appunto a buone pratiche proiettate nella costante tensione per il miglioramento.

 

L’assistenza residenziale si collega sempre al rischio che la scelta sia stata più imposta e subita dalle persone assistite che consapevolmente decisa; per la maggioranza di esse si va a limitare una “completa e buona vita” e, molto spesso, occorre riconoscere con onestà che, in struttura, esse incorrono in perdite di molti gradi di libertà e dignità.

 

Il primo punto di progresso, a nostro avviso, richiede che la mediazione tecnica pre-ingresso valuti con molta maggiore affidabilità e trasparenza se effettivamente la decisione di affidarsi all’assistenza in struttura residenziale sia certamente inevitabile, quindi assunta nella certezza di una situazione immodificabile a domicilio, valutata globalmente, sia con riferimento alla persona che all’ambiente-abitazione. Ancora, se il ricovero possa avere durata temporanea, quindi valutato come suscettibile di una fine prevedibile, adoperandosi per risolvere eventuali vincoli ostativi alla permanenza a casa; oppure se sarà di carattere definitivo, in quanto si giudicano irrisolvibili le criticità conseguenti alle condizioni della persona o del contesto, secondo quanto definito in sede di UVD.

 

Tutto questo impone che al termine della valutazione (si ripete: svolta dai tecnici, che dovrebbe essere fonte di garanzia di appropriatezza anche sul fronte della tutela dei diritti della persona) sia esplicitata con dichiarazione formale (depositata agli atti, ovvero nella cartella/fascicolo personalizzato del futuro ospite della struttura residenziale) la decisione del ricovero definitivo e sia individuabile il responsabile di tale scelta finale. Deve essere uno, non tutti i componenti dell’Unità di valutazione (per analogia, in Pronto Soccorso è un medico ben identificato ed identificabile il prescrittore del ricovero o della dimissione o del trattenimento in osservazione). Tutti noi operatori dobbiamo rendere conto delle nostre decisioni ed azioni, soprattutto quando di così forte impatto. Naturalmente questo si aggiunge e non sostituisce la raccolta del consenso all’ingresso in residenza, meglio se firmato dalla persona e/o dei familiari (come possibile) e non lasciato alla sola approvazione verbale.

 

La proposta di questa nota, quindi, risiede anche nell’imparare a comunicare in modo più efficace ideali, logiche, valori, convinzioni, assunzioni tecnico-scientifiche “giuste” che sottendono la scelta per questo setting di cura. Si tratta di trovare “le parole per dirlo”, per spiegare e comunicare cosa “è buono e giusto” per la persona-ospite, non per l’istituzione, spiegando pregi e difetti, benefici e rischi dell’una o altra opzione; quali situazioni siano ottimali e quali penalizzanti soggetti così fragili. Conosciamo molte realtà in cui ciò accade, ma è bene che ciò diventi regola, situazione strutturale, e non solo episodica.

 

L’altro lato dell’assistenza residenziale: la tappa temporanea di un percorso articolato

Come seconda tesi, discendente dalla prima, proponiamo che l’assistenza residenziale non debba più costituire un “silos” rispetto ad altre opzioni, ma una tappa di un continuum unitario e coordinato del “person journey” in cui si possono succedersi fasi di assistenza domiciliare, di assistenza residenziale temporanea, il rientro a casa, ed eventualmente ancora un successivo reingresso temporaneo in residenza, e così via, fino all’accoglimento definitivo, permanente in residenza, ma solo quando certamente inevitabile ed irreversibile. Ovviamente, lungo questo percorso molto probabilmente si verificheranno dei ricoveri in ospedale, ma se il sistema “funziona bene”, questi dovrebbero essere più rari di quanto accade ora. Buone cure “territoriali” (con efficienti prese in carico, quindi con valida continuità di cura pre e post ricovero) è provato che assicurano tassi di ospedalizzazione inferiori e, soprattutto, più breve durata della degenza, quest’ultimo forse oggi l’obiettivo prioritario del sistema ospedaliero e a cui dovremmo tutti tendere. In questa prospettiva è facilmente intuibile che il massimo della continuità potrebbe avvenire se chi eroga cure domiciliari, in tutti i livelli di complessità ed intensità, fosse anche il soggetto titolare e gestore della produzione dell’assistenza residenziale. Si può essere portati a ritenere che probabilmente oggi questo potrebbe avvenire più facilmente da parte dei soggetti privati (no profit o profit, soprattutto se sono aziende di una certa dimensione), ma preme sottolineare che questa prospettiva dovrebbe essere fatta propria anche dal settore pubblico (ASP, ASL,…) con precisi indirizzi ad hoc sia statali che regionali. A nostro parere sarebbe un grave errore per il sistema pubblico abdicare e rinunciare del tutto ad entrare in partita e lasciarla in mano esclusivamente ai privati. E’ tempo di sospendere il (pre)giudizio che il privato fa (è) sempre meglio del pubblico.

 

Il nostro secondo punto di progresso colloca quindi l’assistenza residenziale come entità che deve vivere strettamente in parallelo alla home care, in un insieme inscindibile e dai confini indistinguibili nel considerare elemento guida il bisogno della persona. Certo, in premessa va detto che occorre realizzare nuovi forti servizi di cura ed assistenza domiciliare istituzionale (formale), per rendere sostenibile l’equilibrio con le cure informali, attualmente di gran lunga prevalenti (svolte dalle famiglie, dalle badanti). Dobbiamo temere che nel tempo siano queste cure informali a divenire non più sostenibili, e non viceversa, come quasi sempre si sente affermare.

 

Come punto di arrivo del cambiamento, si propone che i) le risorse globali pubbliche spese per il settore della residenzialità siano in un rapporto 1:1 con quelle per la domiciliarità (oggi hanno un range di almeno 5-10 volte superiore, a favore della residenzialità, salvo eccezioni, ed in ogni caso con grandi divari territoriali); ii) come indicatore perequativo si potrebbe ricorrere, almeno come elemento di programmazione, a comparare le quote capitarie destinate all’uno o all’altro scopo di settore, distinguendo le diverse fonti-provenienze, se di parte sanitaria o sociale; iii) perseguire una logica di assistenza residenziale fondata sui paradigmi delle cure domiciliari e non di quelle ospedaliere. Da ciò deriva facilmente l’indicazione che – come avviene già da molti anni nei Paesi nordici – il luogo di vita residenziale deve visibilmente richiamare ambienti domestici-familiari, ad esempio con presenza di mobili, suppellettili, piccoli animali di affezione; simbolo è il campanello per entrare nella stanza, e così via. La vita in queste residenze “riformate” deve scorrere in un clima di riservatezza (privacy) uguale a quanto ciascuno di noi pretende quando si trova a casa propria. Se ora sorgesse l’obiezione che tutto questo non è realizzabile in presenza di deficit cognitivo, il nostro commento sarebbe: vero, infatti per queste condizioni servono strutture ed organizzazioni ad hoc, ma i punti di riferimento non mutano: rispetto della persona, tensione al rispetto della dignità, e così via. Se poi un’altra obiezione fosse la difficoltà a monitorare così le persone, la replica potrebbe essere che oggi la telemedicina-telemonitoraggio risolvono questo problema (v. oltre).

 

Il nuovo insieme di servizi residenziali e domiciliari e la sua governance

Il terzo elemento innovativo sta appunto nel capire di quale gamma di servizi residenziali, diversamente organizzati per target di utenza, livelli assistenziali, durata dei ricoveri, oggi dobbiamo disporre. Di questi tempi, la mente corre immediatamente alle nuove “residenze COVID”: strutture ad hoc per le persone portatrici di infezioni da coronavirus, trattabili al di fuori dell’ospedale con maggiore qualità e sicurezza; ogni territorio (distretto) deve esserne dotato. Va approfondito se sia vero che le strutture “piccole” (non grandi) hanno affrontato meglio l’epidemia e ottenuto risultati migliori. Del resto, le grandi “case di riposo” tendono certamente ad essere più spersonalizzanti. Occorre trovare quindi un punto di equilibrio tra giusta dimensione (si dice favorenti economie di scala) e giusta ospitalità (fonte di buona qualità di vita).

 

Il quarto elemento, che scaturisce da quanto sopra, è una domanda fondamentale: chi deve svolgere la governance di questo sistema in cui si collocano vari tipi di residenzialità e domiciliarità, contraddistinti da diversi target di utenza, offerte diverse per capacità assistenziali, impegno (costi) per l’utente ed i familiari ? E la risposta è per noi certa e univoca: è il Distretto, in quanto titolare della c.d. “assistenza territoriale”, sancita nelle articolazioni dei LEA distrettuali (da cui bisogna chiedersi: possono esistere LEA distrettuali senza distretto?) e testimoniata nei fatti da molteplici realtà positive in tutto il Paese. In queste, i Distretti sono responsabili dell’erogazione diretta dell’ADI (raramente in forma esternalizzata, in parte o totalmente) e del governo-regia (in pochi casi anche della produzione) dell’assistenza residenziale per non autosufficienti. Lo scenario si presenta molto complesso anche per la diversa natura aziendale-gestionale dell’offerta: privata no profit (ad es ASP, organizzazioni religiose) oppure profit (si stanno diffondendo i “grandi gruppi” della residenzialità, evidentemente consapevoli che è un buon business3, fatto che deve far riflettere; e si stanno riducendo i “piccoli” imprenditori locali di settore, molti dei quali capaci di imprenditoria “sana”). Ricordiamo che si calcola che attualmente circa l’80% della residenzialità in Italia è gestita da soggetti privati, con trend crescente. Dunque il Distretto può essere l’organizzazione pubblica che garantisce appropriatezza nella programmazione globale per tarare l’offerta verso i bisogni, svolge funzione di gestione, governo, committenza. Può inoltre favorire la correttezza quali/quantitativa ai due segmenti di attività, la loro inter-connessione, la continuità, il coordinamento, la coerenza degli stili e degli obiettivi di cura.

 

Un insieme diversificato di servizi, un unico approccio

Il quinto elemento proposto come chiave-guida è la presenza obbligatoria del care multidimensionale come approccio ubiquitario. Riteniamo che tutti i produttori di assistenza residenziale per questo specifico target di persone, non autosufficienti, per lo più anziane o di età molto molto avanzate, molto fragili, con polipatologie e politerapie, spesso costretti a letto, con deficit cognitivi anche avanzati, devono seguire sempre i paradigmi del care multidimensionale, della “person centred care”. Per accertarci di essere sulla strada giusta, basta che ci poniamo costantemente alcune semplici domande (anche su sollecitazione del Distretto, agente di advocacy). Ad esempio:

  • Sto seguendo la logica del care multidimensionale, quindi approcci e visioni olistiche?
  • Sto lavorando nella prospettiva riabilitativa e ricapacitativa, con l’obiettivo, pur se a prima vista improbabile (davvero impossibile?), di favorire il ritorno a casa in sicurezza del mio ospite?
  • Cosa mi sembra “manchi” a lei/lui perché si renda possibile il suo rientro a casa? Sono forse le sue instabili condizioni di salute? Oppure è condizionante il suo contesto abitativo? Sto lavorando per risolvere l’uno e l’altro? Quanto spesso mi pongo od ascolto la sua domanda “quando torniamo a casa?”
  • Quando è accertato come irreversibile il ricovero, questa vita in residenza quanto è distante dalle preferenze ed abitudini rispetto a quella domestica? Quanto sono accettati/accettabili i cambiamenti avvenuti (perdite)? Sono sopportabili ed accetti nel lungo-lunghissimo periodo?
  • I costi sostenuti dalla persona e/o famiglia generano impoverimento? Per quanto tempo sono sostenibili?

 

Rappresentare la nuova residenzialità: le persone e le case al centro

Il sesto elemento è imparare a diffondere la visione d’insieme, la capacità di comunicarla e condividerla con tutti i personaggi su questa scena. Allo scopo abbiamo composto una figura-schema (figura 1, scaricabile in allegato), con cui tentiamo di sintetizzare molti dei concetti fin qui spiegati. Potrebbe avere, come sottotitolo: “dalle parole per dire, alle immagini per fare”.

 

FIGURA 1 – Schema sintetico dei percorsi, raccordi e interconnessioni tra l’assistenza residenziale e domiciliare (al centro del sistema di cure territoriali per la persona non autosufficiente)

 

Nella parte centrale-alta della figura abbiamo immaginato ci siano tre ambiti di cura, che si affiancano tra loro; al centro stanno le persone e le case. Da qui e verso qui tutto si muove. E’ l’ambito delle cure a casa informali, che richiedono appunto l’esistenza di un’abitazione (domandiamoci sempre: è adeguata? giusta per le condizioni del suo abitante? ci sono barriere? quanto assicura qualità e sicurezza di vita? possiamo renderla adatta?).

 

E’ opportuno ricordare che in Italia l’80% delle abitazioni è di proprietà, ma talora questa diviene più un peso che una risorsa, quando non è più adeguata alla persona non autosufficiente. Rilanciamo anche noi qui l’idea, e ne sottolineiamo il valore, di dare incentivi statali/regionali per la ristrutturazione interna delle abitazioni, così da renderle compatibili con chi ha disabilità e perdite di autonomia. Genererebbero valore e benefici, in analogia con quanto sta avvenendo a seguito dei bonus per le facciate. Se vogliamo case belle fuori, perché non “buone” (e belle) anche dentro, quando abitate da persone fragili altrimenti destinate all’istituzionalizzazione, a scapito di tutti? Accanto agli “edifici” ci sono le persone di cura: la famiglia, le badanti e la comunità, contemplata come rilevante perché crediamo che nel capitale sociale sta la “chiave di volta” di un sistema sostenibile per la non autosufficienza. Va sostenuto.

 

Sopra e sotto, le cure informali convivono con quelle formali, di ambito sanitario (sopra) e sociale (sotto). Costituiscono quindi un insieme inscindibile, integrato. Sopra, l’assistenza domiciliare “ADI” è citata nei vari livelli di intensità (complessità) (oggi troppo spostati su quelli bassi, sostanzialmente prestazionali) ed al fatto che è un LEA. Ancora, è sottolineato il valore del team di cura, che CARD definisce appunto “home care team distrettuale”, con la raccomandazione sia presente in ogni Distretto.

 

Nella terza “fascia” abbiamo posto l’area dell’assistenza sociale “SAD”, che sostiene coloro che hanno perso funzioni delle ADL o IADL. L’accento è posto sul fatto che è selettiva, non universale, per un target deprivato. Questa assenza di universalità (LEA) penalizza grandemente le persone non autosufficienti. Speriamo che il “movimento” sceso in campo di recente, il Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza, cui CARD aderisce, possa contribuire a rimuovere questo ostacolo; ciò renderebbe il sistema molto più simmetrico e coerente.

 

Più a destra, nel riquadro “libera scelta o scelta della libertà?” lanciamo una provocazione. Nel momento in cui l’ipotesi del ricovero in “casa di riposo” si fa molto prossima, spesso accade che si tenti di “compensare” gli svantaggi di questa decisione (disvalore, per la persona, forse i familiari) enfatizzando che conta molto il “valore della libera scelta”. Riteniamo che questo presunto rispetto di un diritto del consumatore debba essere sostituito da quello del cittadino che vuole rimanere libero. Concetto rinforzato dalla “nuvoletta” soprastante con la domanda, tante volte da noi udita da queste sfortunate persone, “posso restare a casa?”.

 

Da quest’area centrale si dipartono quattro frecce: sono, schematicamente, le quattro opzioni di “uscita da casa”. Solamente due sono bidirezionali, mentre due hanno solo un verso, per la residenzialità permanente.

 

L’abitare possibile: vi si arriva con la prima freccia unidirezionale, ma è quella meno sfavorevole. La destinazione è indicata con una parola in via di diffusione, e sta ad indicare l’insieme delle forme di residenzialità innovative, chiamate anche “condomini solidali, case in comunità, co-housing” ed altre variazioni sul tema. Sono soluzioni abitative “protette” da un’assistenza continuativa condivisa tra molti abitanti-coinquilini dello stabile. Le accomuna la ricerca di raggiungere un compromesso tra vita indipendente ed assistita, in cui si cerca di ridurre al minimo l’impatto istituzionalizzante “classico” salvaguardando le esigenze di cura. In questi contesti stanno diffondendosi la domotica ed il telemonitoraggio, e gli strumenti di ICT, che certamente possono innalzare sicurezza e qualità della vita e dell’assistenza consentendo la permanenza a casa anche a chi soffre di patologie in cui è richiesto un monitoraggio continuo di parametri vitali ed ambientali (possibile anche a distanza). Giova ricordare che queste nuove tecnologie nate per l’uso domiciliare ben si adattano in questi casi, ed anche nelle strutture residenziali, conferendo il vantaggio di poter limitare la presenza del personale diffuso in tutte le stanze o abitazioni.

 

La seconda freccia, irreversibile, termina nella residenzialità definitiva-permanente: sappiamo che oggi riguarda in Italia circa 300.000 persone, 230.000 delle quali gravemente non autosufficienti 4. Il “permanente” sottolinea la rilevanza dell’irreversibilità dell’ingresso: scelta definitiva che stride con le domande “quando torniamo a casa?” e “starò bene come a casa ?” poste a sinistra. Il simbolo delle monete ricorda che qui queste persone sono clienti, paganti la quota di compartecipazione, salvo impossibilità accertata dai Comuni. Va ricordato che quando non vi è capacità economica della persona-famiglia (fenomeno crescente) accade la rinuncia a questa forma di assistenza. Per alcuni versi ed in alcuni casi potremmo rallegrarci, ma in realtà temiamo molto di più l’under use-treatment. Così si ritorna al tema del rispetto dei diritti alle cure (LEA). Nella stessa casella, con il termine “su misura” vorremmo attirare l’attenzione sulla necessità che sia regola la personalizzazione (e quindi umanizzazione) dell’assistenza, irrinunciabile quando il mancato rispetto di abitudini, preferenze, tempi e ritmi di vita della giornata vengono per sempre alterati.

 

Con la terza freccia il percorso prende la via della residenzialità temporanea: ci troviamo nel settore delle c.d. “cure intermedie”, che offrono varie tipologie di servizi sanitari e sociosanitari, dunque affidati al SSR e, per noi, al Distretto. Nelle cure intermedie si pratica riattivazione e riabilitazione estensiva, recupero di funzionalità perdute temporaneamente in seguito ad eventi acuti, a ricoveri in ospedale. Sono svolte dalle strutture di “post-acuzie e di lungodegenza”, termini che contestiamo quando accostati, perché creano confusione, in quanto le due funzioni sono totalmente diverse ed addirittura opposte. A nostro avviso il valore delle cure intermedie consiste esattamente nella negazione della rassegnazione della lungodegenza, perché valorizza lo scopo e l’impegno riabilitativo-ricapacitativo, al fine di creare ogni occasione per la persona di rientrare a casa (freccia bidirezionale!) Per questo residenze temporanee e permanenti devono essere sempre tenute distinte. Ancora, pur collocato a parte, si può annoverare l’ospedale di comunità, che merita una citazione individuale perché ben presente nel PNRR (attenzione: qui la degenza sarà interamente a carico del SSR, elemento molto rilevante, rispetto agli altri contesti residenziali).

 

Ed infine c’è l’ospedale: come noto, è una tappa frequente del percorso di cura dell’anziano non autosufficiente. L’alto tasso di ospedalizzazione di questa popolazione (nel range tra 300 e 500 per mille abitanti) è legato alle invalidità e alle comorbidità (importanti: cardio-respiratorie, metaboliche, neurologiche, renali, ed altre). Non infrequenti sono le richieste di ricovero dettate da bisogni più soggettivi che oggettivi, quali la “paura” per la comparsa di segni-sintomi, giudicati “minori” dai medici, ma invece “rilevanti” per la persona o i familiari, temuti perché interpretati come segnale di inizio di un aggravamento pericoloso. Sussiste poi la possibilità (ora non più, in epoca COVID) dei ricoveri “sociali-respiro”, quando l’ospedale rappresenta l’unica opzione assistenziale, aperta sempre (24/7). Un territorio “forte” deve dare alternative a questi ricoveri in ospedale, sia con cure domiciliari che residenziali, flessibili, credibili perché di qualità, gestite da personale altamente qualificato, di immediato accesso e fruizione. Va poi considerato che dall’ospedale la persona viene dimessa, con durata delle degenze tendenti all’accorciamento. Verso dove? Potrebbe essere sperabilmente a casa (intesa anche come casa di riposo, se da là si proviene), oppure verso una struttura di cure intermedie per un tentativo doveroso di “recupero” (se dovesse esserci un re-ingresso in ospedale va sempre accertato che non sia indice di cattivo programma di dimissione, prematura, o di difettosa presa in carico post-dimissione).

 

Il Distretto “regista” dei percorsi e della continuità

Il sistema sin qui descritto rende evidente la necessità che ci sia un regista dei percorsi e della continuità: è il distretto, a nostro avviso, che regola appunto i percorsi di cure offerte nei diversi setting: domiciliare, residenziale, ospedaliero e vigila sulla loro qualità.

 

Sottolineiamo questo ruolo centrale del Distretto, poco spesso preso in considerazione, che ci conduce al valore della visione di insieme, globale, unitaria del sistema; conta oggi avere uno sguardo congiunto di tutti gli elementi sopradescritti, da diffondere tra tutti gli attori di cura. Un Distretto “forte” facilita l’integrazione, la consapevolezza che “un pezzo va a posto solo insieme agli altri”. Così forse supereremo le logiche dei “silos”, vedremo cadere muri e costruire ponti che congiungono ambiti di azione molto vicini ma ancora spesso operativamente (e culturalmente) disgiunti, che si pongono (o sono posti) talora incredibilmente in competizione, con (auto)attribuzione di valori intrinseci di superiorità all’uno o all’altro (abbiamo conosciuto sostenitori – tifosi della residenzialità “contro” quelli della domiciliarità).

 

Per questo, riprendiamo l’idea iniziale di favorire la comparsa di molti provider attivi nel settore della non autosufficienza in entrambi i fronti, residenzialità e domiciliarità. Pensiamo che questo darebbe modo di costruire percorsi unitari e creare competenze professionali coerenti ed interrelate, possibilmente interscambiabili. Ci piace immaginare il vantaggio di avere in una gestione unica il personale che sa operare nelle cure domiciliari ed in quelle residenziali, che periodicamente lavora, a cicli, nell’uno o nell’altro luogo di cura, entrambi nobili. Si verificherebbe un interscambio di culture e capacità, sensibilità e competenze. Una circolarità completa, virtuosa. Ad esempio, a casa uno apprende uno stile di relazione che davvero umanizza e personalizza le cure, aumenta la considerazione ed il rispetto verso il paziente, opera con grandi margini di autonomia e capisce come questo implichi alti livelli di responsabilità, che richiedono alta competenza e capacità professionale. Nella cura residenziale, uno si giova del confronto continuo e vicino con chi può sapere di più, può sperimentare pratiche innovative, sfruttare la formazione sul campo. Si aumenta la reciprocità di “saperi” e ci si contamina nel “saper essere”, con maggiori e migliori possibilità ed occasioni di vero progresso globale nell’assistenza e nella cura di questo enorme, crescente, popolo di persone dalla vita molto, molto difficile, e dei loro familiari. Infine, ci sembra di scorgere anche qualche vantaggio di efficienza nell’uso delle risorse umane: per il datore di lavoro avere una doppia via di impiego su due settori potrebbe compensare cali contingenti di domanda sull’uno o sull’altro fronte, con possibilità di spostare il personale dove c’è maggiore bisogno o convenienza per l’organizzazione, sottraendo anche preoccupazioni e tensioni ai lavoratori di perdita o riduzione del lavoro. Questa serenità avrebbe certamente ricadute positive nei servizi resi agli assistiti.

 

Speriamo che su questi temi si ampli il dibattito. Cerchiamo critiche, non lodi. Saremo grati a chi vorrà confutarci o proporci nuovi stimoli.

Note

  1. Per approfondimenti si veda Lidia Goldoni, Chi si occuperà degli anziani?, Saluteinternazionale.info, 14 giugno 2021.
  2. Dati aggiornati sulle cure domiciliari e residenziali in Italia si trovano nel report di Italia Longeva Anno 2020, stress-test della Long-Term Care: riflettori accesi su malattie croniche e fragilità (in particolare si vedano le figure 2.1, 2.3, 2.5 e 2.6).
  3. Su questo aspetto si veda Antonio Massariolo, Indagine sulle RSA: un business che fa perdere di vista l’assistenza, Il Bo Live, 20 novembre 2020.
  4. Si veda Istat, Le condizioni di salute della popolazione anziana in Italia – Anno 2019, Statistiche Report, 14 luglio 2021.

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