13 Aprile 2022 | Programmazione e governance

Eccellenza e prossimità. Un binomio possibile?

L’approccio di prossimità è divenuto punto centrale del riordino della sanità e degli investimenti della missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Un’assistenza di prossimità che punta all’eccellenza richiede un profondo cambiamento dei modelli organizzativi con creazione di nuove infrastrutture sanitarie, nuovi modi di lavorare e nuovi strumenti di lavoro.


Quale può essere la relazione in sanità tra eccellenza e prossimità? Come è possibile garantire al paziente, anche residente in zone periferiche, servizi “eccellenti” e di qualità? È un matrimonio possibile o un fallimento certo?

 

L’eccellenza in sanità nell’immaginario collettivo

A che cosa normalmente le persone associano il termine “eccellenza” nel sistema sanitario? Certamente, in particolare prima della pandemia, il termine eccellenza nell’immaginario collettivo era legato ai grandi luoghi di cura ossia agli ospedali, meglio se di tipo universitario e di ricerca, con una rilevante dotazione di posti letto e attrezzati con tecnologie e macchinari avanzati. I media, negli ultimi anni, ci hanno proposto varie tipologie di “classifiche” e pagelle sulla performance degli ospedali e, non a caso, in cima ai ranking si trovano sempre ospedali grandi e rinomati. Legare il termine eccellenza a queste strutture non è un errore: là dove è possibile concentrare saperi, competenze e innovazioni tecnologiche si costruisce il miglioramento continuo dell’assistenza e degli esiti delle cure.

 

Ed i saperi e le competenze si formano dove si concentra un elevato volume di casistica che permette di “fare esperienza”, base fondamentale per garantire qualità delle cure. Su questi presupposti si basa il decreto ministeriale 70 del 2015 “Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera”. Questo regolamento ha recepito le evidenze di letteratura sulla relazione tra qualità e volumi necessari a garantire i requisiti di sicurezza e qualità delle cure. In questo senso l’eccellenza è associata alla concentrazione della casistica in un luogo fisico, alla massa critica che permette di ottenere i livelli di qualità.

 

Eppure qualcosa in questa prospettiva si è incrinato durante la pandemia. Abbiamo tutti compreso che gli ospedali, pur eccellenti, non sono stati in grado di rispondere da soli alla sfida del Covid-19. Proprio nei primi mesi del suo mandato, nel 2019, il ministro Roberto Speranza inizia con insistenza a utilizzare il termine “prossimità1, per descrivere la traiettoria che vuole imprimere nell’evoluzione del sistema sanitario nazionale.

 

La nuova accezione del termine prossimità

La pandemia da COVID-19 ha messo i servizi territoriali al centro del sistema di cure.  La riscoperta del valore della prossimità è stata evidente soprattutto durante la prima ondata pandemica, quando l’eccellenza nella cura si raggiungeva nel fornire assistenza a domicilio, evitando così l’accesso in ospedale o presso gli ambulatori.

 

La pandemia ha messo in evidenza ciò che era già chiaro agli esperti di sanità pubblica e di organizzazione dei servizi sanitari da più di quarant’anni, sin dalla dichiarazione della conferenza di Alma Ata nel 1978: l’eccellenza delle cure si ottiene quando l’assistenza è coordinata tra i diversi livelli ed integrata con quella primaria che garantisce servizi di prossimità al domicilio del paziente (Starfield, 1994; Starfield et al., 2005, Kringos et al., 2013; Schafer et al., 2019).

 

Le quarantene e i lockdown hanno portato a dare un peso maggiore all’assistenza. È infatti divenuto più evidente quanto siano rilevanti i luoghi di cura intermedi, di passaggio o comunque di supporto, non necessariamente sanitario, che prendano in considerazione anche l’ambiente in cui le persone vivono e la situazione familiare (come le soluzioni degli alberghi sanitari). La “casa come primo luogo di cura”, come riporta lo slogan ministeriale sintetizza l’idea di fondo degli investimenti futuri, investimenti che devono considerare come offerta non solo il trattamento della malattia ma anche l’assistenza complessiva della persona.

 

L’assistenza di prossimità richiede un cambio di paradigma dei modelli organizzativi e anche del modo di lavorare. Bisogna investire al più presto nell’introduzione della tecnologia nell’assistenza: la prossimità richiede un allontanamento dei professionisti dagli ambienti in cui vi è la possibilità di un confronto costante e continuo con i colleghi della stessa disciplina/professione o di discipline diverse/professioni diverse con il rischio di rimanere soli nel rispondere a bisogni complessi. Al contempo di tratta di un’assistenza che spinge a recuperare la dimensione umana e a considerare la persona nel suo insieme, non solo per l’evento singolo ma per il percorso di cura nel suo insieme.

 

Da qui l’importanza di spingere su figure che hanno già nella loro declaratoria professionale la centralità della persona nell’assistenza come l’infermiere di famiglia e comunità, il fisioterapista di famiglia o il farmacista fino alla proiezione su specialisti, come ad esempio l’oncologo2 che possono lavorare nelle cure primarie, con un’attenzione e un affiancamento alla presa in carico in momenti non acuti della malattia. Ciò rappresenta il futuro dei nuovi modelli organizzativi sanitari in cui la multidisciplinarità si sposta e si amplifica fuori dalle mura ospedaliere.

 

E’ necessario ripensare al ruolo che può avere l’alta specialità, generalmente associata all’ospedale, nel territorio. La sfida è quella di far sì che gli abitanti delle aree interne siano presi in carico anche dai grandi centri di eccellenza generalmente posizionati in luoghi ad alta intesità abitativa. Come raggiungere questo obiettivo? In questo ci vengono in aiuto le nuove tecnologie e il processo di informatizzazione in corso in tutto il sistema sanitario che può permettere, là dove è possibile garantire una adeguata connettività, un affiancamento tra specialisti ospedalieri dei centri di eccellenza con i professionisti sanitari e i pazienti stessi localizzati nelle aree interne.

 

Come rompere il circolo del declino che caratterizza le aree periferiche

E’ in questo periodo di riforme che si può puntare al rilancio delle aree interne, le aree in cui le cure sono associate al termine distanza più che al termine prossimità. Le aree caratterizzate da una più elevata presenza di persone anziane e che necessiterebbero di più di prossimità. Secondo il Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica le aree interne sono costituite da uno più comuni e vengono identificate e classificate in relazione ai livelli di offerta dei servizi di base come i servizi sanitari, l’istruzione e il trasporto (DPS, 2014).

 

Le aree interne rappresentano circa il 60% dell’intera superficie nazionale in cui abita circa il 20% della popolazione italiana. Date le caratteristiche di questi territori, vi è un alto rischio di attivazione nel “circolo del declino” rappresentato nella figura 1. Il circolo vizioso del declino, descritto dall’OCSE in un rapporto del 2006 si riferisce alle zone rurali, generalmente caratterizzate da una bassa densità di popolazione. Spesso proprio per la bassa densità abitativa il numero di servizi e infrastrutture è limitato o assente. Mancando una massa critica di domanda di servizi ovvero di utenti, per motivi di sostenibilità economica (ma a volte anche di qualità) alcuni servizi, anche primari, vengono chiusi. Numerosi sono gli esempi sia nel settore pubblico che nel privato. Rimanendo in ambito pubblico esempi classici sono la chiusura degli istituti scolastici o dei piccoli ospedali.

 

La chiusura o riduzione di questi servizi porta a una riduzione dei posti di lavoro derivanti non solo dall’occupazione prodotta in modo diretto (per esempio le insegnanti nelle scuole o il personale sanitario negli ospedali) ma anche indiretto attraverso l’indotto a esso correlato (per esempio le zone ristoro e bar). La mancanza di posti di lavoro, a sua volta, spinge molti abitanti a emigrare in altri luoghi lasciando nelle zone rurali (e/o aree interne) chi ha ancora un lavoro o chi è in pensione. La fuga di persone (tendenzialmente giovani) che non trovano lavoro ha un effetto immediato sulla riduzione della densità di popolazione che innesca a sua volta un altro giro di boa della spirale del declino.

Il circolo del declino delle aree interne
Figura 1 – Il circolo del declino delle aree interne

Lo scenario del prossimo quinquennio prevede investimenti massivi volti a creare le infrastrutture sanitarie (e non solo se si considerano anche le altre missioni) che possono davvero invertire questo circolo vizioso e farlo diventare virtuoso. Infatti, fra i tre assi strategici e trasversali del PNRR vi sono digitalizzazione e innovazione (gli altri due assi sono la transizione ecologica e l’inclusione sociale). La digitalizzazione, in combinazione con l’innovazione, rappresentano un fattore chiave per la realizzazione di servizi a distanza riducendo quindi la mancanza di offerta (quantomeno di alcuni) servizi.

 

Se l’asse “digitalizzazione e innovazione” può avere risvolti rilevanti soprattutto per le aree interne, è anche necessario creare le infrastrutture di base (come la connettività) che possano davvero interrompere la spirale del declino in uno dei suoi punti più importanti. La possibilità di ripristinare i servizi mancanti attraverso le nuove tecnologie può anche portare alla creazione di nuove occasioni di lavoro derivanti dagli investimenti in tecnologia e orientati alle cure domiciliari o in generale a servizi di prossimità previsti nella missione salute (missione numero 6).

 

Il PNRR prevede l’utilizzo su larga scala dell’innovazione tecnologica e digitale, cruciale per lo sviluppo del territorio inteso come setting assistenziale appropriato per garantire solidarietà sociale, continuità di cura e qualità dei servizi sociosanitari. Questa innovazione tecnologica e digitale permetterà anche un contatto diretto con i centri di eccellenza per far si che ai più lontani siano assicurate le migliori cure.

 

 

Nuovi ruoli e nuove competenze ma anche nuove opportunità di lavoro

La digitalizzazione può attivare la trasformazione dei servizi attraverso la riprogettazione dei modelli di erogazione dei servizi, dei processi produttivi in interventi volti a sostenere il cambiamento della combinazione delle competenze e dei ruoli. Prendendo ad esempio il caso della telemedicina, il medico può visitare i pazienti tramite televisita, riducendo la variabilità dei consumi medi per pazienti a pari stadio di patologia, grazie ad appuntamenti programmati con logiche proattive di medicina di iniziativa, generando quindi equità nei consumi e minimizzando rischio di prescrizioni eccessive da un lato e di mancanza di trattamento dall’altro (Anessi Pessina et al., 2021).

 

Per attuare concretamente la trasformazione digitale servono competenze cliniche e digitali ma anche nuovi ruoli e competenze informatiche. Servono competenze relative all’analisi di grosse quantità di dati per trasformare e mettere in relazione le informazioni in possesso del servizio sanitario in sistemi di allerta o raccomandazioni automatiche che aiutino pazienti e professionisti a ricordare eventi programmati ed evitare errori. In questo senso i professionisti del futuro dovrebbero avere competenze ibride sia clinico-assistenziali, organizzative e informatiche.

 

Nuovi ruoli possono nascere dal rafforzamento di alcune attività che da residuali divengono rilevanti e ricorrenti tanto da creare dei veri e propri ruoli, come nel caso del contact tracer che potrebbe diventare il contatto per il controllo della compliance o del monitoraggio di alcuni parametri/attività.

 

Fra i nuovi ruoli che possono nascere per rafforzare alcuni aspetti vi è lo stimolo a esercitare attività sociali, in alcuni paesi di lingua inglese vi sono vere e proprie figure professionali che effettuano ‘prescrizioni sociali’ per stimolare le persone a superare la barriera della solitudine. Altri ruoli che possono nascere sono i facilitatori delle tecnologie, figure in grado di risolvere problemi di accesso ai servizi digitali o all’utilizzo di alcuni dispositivi, non necessariamente sanitarie ma con competenze informatiche di base e con buone capacità relazionali.

 

 

Eccellenza e prossimità, possibile se…

Eccellenza e prossimità sono un binomio possibile ma serve prestare attenzione a una serie di aspetti, primo fra i quali la necessità di colmare i gap infrastrutturali delle diverse zone geografiche, in particolare nelle zone delle aree interne considerando non solo i servizi sanitari ma socio-sanitari e sociali che sono i principali determinanti della salute attraverso nuove forme di coinvolgimento dei vari soggetti istituzionali e del terzo settore (Longo e Barsanti, 2021).

 

Risulta inoltre fondamentale garantire sistemi di misurazione atti a monitorare i risultati ottenuti. Nell’epoca dell’aziendalizzazione, i sistemi di misurazione e di valutazione della performance si sono focalizzati sui dati medi senza prestare necessariamente attenzione alle differenze nella densità abitativa dei territori. Le analisi in genere sono state fatte sui livelli di governo quali le regioni, le aziende, gli ospedali o i distretti (se si pensa anche alla struttura tipica delle schede di budget) senza evidenziare in modo diverso ciò che accade nelle aree interne. Un focus di questo tipo porta ad avere misure sempre spostate sui risultati ottenuti dai territori con la popolazione maggiore (generalmente le città) o con il più alto numero di prestazioni (di nuovo le città) portando a quello che gli economisti chiamano l’ecological fallacy.

 

Ciò che non viene misurato non viene governato. Da qui la necessità di spostare il focus delle indagini sulle performance sanitarie in linea con il nuovo approccio emergente di prossimità che sarà a chiamato a valorizzare innanzitutto il livello territoriale della cura e dell’assistenza.

 

La sfida da affrontare sarà quindi duplice: misurare la performance del territorio (che ha sistemi e flussi informativi generalmente meno affidabili e più parcellizzati) e posizionare un faro sulle realtà che hanno maggiori bisogni, quali le aree interne.

Note

  1. Questo termine figurava al punto 8 del patto per la salute 2019-2021 relativo alla mobilità sanitaria quale diritto del cittadino alla prossimità dei servizi
  2. generalmente associati all’ambito ospedaliero che escono dalle proprie strutture per lavorare in team multidisciplinari

Bibliografia

Anessi Pessina E., Cicchetti A., Spandonaro F., Polistena., D’Angela D., Masella C., Costa G., Nuti S., Vola F., Vainieri M., Compagni A., Fattore G., Longo F., Bobini M., Meda F., Buongiorno C., et al. (2021), Proposte per l’attuazione del PNRR in sanità: governance, riparto,fattori abilitanti e linee realizzative delle missioni, in Mecosan, 119.

OECD (2006), The new rural pardigm: policies and governance.

DPS (2014), Strategia nazionale per le aree interne: definizione, obiettivi, strumenti e governance, n.. 31, Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica.

Kringos D., Boerma W., Bourgueil Y., Cartier T., Dedeu T., Hasvold T., Hutchinson A., Lember M., Oleszczyk M., Rotar Pavlic D., Svab I., Tedeschi P., Wilm S., Wilson A., Windak A., Van der Zee J., Groenewegen P., (2013), The strength of primary care in Europe: an international comparative study, in The British Journal of General Practice, 63(616), 742-50, Nov.

Longo F., Barsanti S., (a cura di) (2021), Community building: logiche e strumenti di management, Egea.

Schafer W., Boerma WGW., van den Berg MJ., De Maeseneer J., De Rosis S., Detollenaere J., Greß S., Heinemann S., van Loenen T., Murante AM, Pavlič DR., Seghieri C., Vainieri M., Willems S., Groenewegen PP., (2019), Are people’s health care needs better met when primary care is strong? A synthesis of the results of the QUALICOPC study in 34 countries, in Primary health care research & development, Vol. 20.

Starfield B., (1994), Is primary care essential?, In The Lancet 344(8930), 1129–1133.

Starfield B., Shi L., Macinko J., (2005), Contribution of primary care to health systems and health, in The Milbank Quarterly 83(3), 457–502.

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