Il “Decreto Rilancio” appena presentato contiene un nuovo finanziamento dello Stato per l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI). Si tratta di un evidente risultato della maggiore consapevolezza dell’importanza dei servizi domiciliari generata dalla pandemia.
In assenza di un profondo ripensamento della progettazione di questo fondamentale tassello dell’assistenza agli anziani, qualunque dotazione aggiuntiva di risorse rischia di rivelarsi un’occasione persa. Vediamo perché.
Un accresciuto interesse
È opinione condivisa che i servizi domiciliari siano in Italia complessivamente deboli, pur con notevoli eccezioni disseminate nella penisola. In merito all’esiguità dell’investimento pubblico non sussistono dubbi, come ci ricorda il confronto internazionale. Infatti, per l’assistenza agli anziani spendiamo meno del resto d’Europa e ai servizi domiciliari destiniamo una quota assai più modesta dei fondi disponibili. Da una parte, la spesa pubblica è del 20% circa inferiore alla media del continente. Dall’altra, solo il 17% di questo già contenuto budget arriva alla domiciliarità (rispetto al 54% all’indennità di accompagnamento e al 29% alle strutture residenziali). Perlopiù, le analisi sulla domiciliarità in Italia si concentrano sugli stanziamenti e, di conseguenza, veicolano il seguente messaggio: “se ci fossero maggiori mezzi si potrebbe assicurare ai cittadini l’assistenza domiciliare della quale hanno bisogno”. Ma le risorse, come si vedrà, rappresentano solo metà del problema.
La tragedia del Covid-19 ha acceso una nuova luce sul welfare territoriale, del quale i servizi domiciliari costituiscono una componente cruciale. La ragione è nota: in molte aree del Paese una maggior presenza del welfare pubblico nel territorio avrebbe consentito di meglio contrastare il Covid-19; avrebbe permesso, in particolare, di prevenire e non solo di inseguire il diffondersi della pandemia. A partire da questa triste vicenda, è maturato un rinnovato interesse tanto nei confronti del ruolo fondamentale che il territorio dovrebbe svolgere in un moderno sistema di welfare, quanto verso la necessità di un suo deciso rafforzamento in Italia.
I fondi previsti dal “Decreto Rilancio” rappresentano un frutto di questa maggior attenzione. E potrebbero essere accompagnati da ulteriori stanziamenti in futuro, per diverse ragioni. Primo, nei prossimi mesi giungerà in Italia una mole assai ampia di risorse fornite dai programmi straordinari di sostegno post Covid-19 finanziati dall’Unione Europea. Una quota significativa sarà destinata alla sanità; il riferimento principale (ma non esclusivo) è il programma Mes che – se verranno superati alcuni ostacoli tecnici e politici – renderà disponibili sino a 36 miliardi di Euro, con l’unico vincolo di destinarli alle spese per l’assistenza sanitaria e sociosanitaria. Secondo, un evidente effetto della pandemia risiede nella nuova rilevanza guadagnata dalla sanità pubblica. Dopo un periodo segnato dal controllo della spesa, è maturato un diffuso consenso – nella classe dirigente così come nell’opinione pubblica – sull’esigenza d’incrementare i fondi per il Servizio Sanitario Nazionale, quale che ne sia la fonte (europea o nazionale). Terzo, come anticipato, la vicenda della pandemia ha parimenti prodotto una forte concordanza sulla necessità d’investire maggiori risorse nel sistema territoriale extra-ospedaliero, di cui i servizi domiciliari rappresentano un elemento fondamentale.
Maggior fondi servono per affrontare il nodo della scarsità di risorse dedicate ai servizi domiciliari per gli anziani non autosufficienti. Questo, come anticipato, rappresenta metà della questione domiciliarità in Italia. L’altra metà, invece, riguarda i modelli d’intervento.
I nodi dei modelli d’intervento
A rendere difficile la discussione sui modelli d’intervento della domiciliarità nel nostro Paese sono la notevole eterogeneità territoriale esistente e la scarsità di informazioni e ricerche disponibili sui diversi contesti. Ciò premesso, è possibile individuare alcune generalizzate criticità di fondo, la cui origine non può venire ricondotta esclusivamente all’inadeguatezza dei fondi; d’altra parte, il fatto di riscontrarle in tante – e differenti – realtà suggerisce che non dipendano in toto da peculiarità locali. Le ricordiamo per sommi capi.
Il più diffuso servizio domiciliare, l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), di titolarità delle ASL, offre in prevalenza interventi di natura infermieristico-medica, intesi come singole prestazioni che rispondono a determinate necessità sanitarie, sovente in assenza di una presa in carico legata alla condizione di non autosufficienza dell’anziano. Si tratta di un servizio utile ma con caratteristiche diverse rispetto a quelle di cui parliamo qui. E’, in altre parole, guidato dalla logica della cura clinico-ospedaliera (cure), cioè la risposta a singole patologie, e non da quella del sostegno alla non autosufficienza (care), fondato su uno sguardo complessivo della condizione della persona e dei suoi molteplici fattori di fragilità.
Il servizio di assistenza domiciliare comunale (SAD), di natura tutelare, è da lungo tempo alla ricerca di un’identità sul ruolo che può svolgere nell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Ultimamente, l’immagine che il SAD proietta all’esterno è quella di un servizio residuale, del quale i Comuni si avvalgono soprattutto per rispondere a situazioni la cui complessità non dipende soltanto dall’eventuale stato di dipendenza, rivolgendosi ad anziani che, in misura crescente, alle precarie condizioni di salute affiancano anche la solitudine e il basso reddito. Si tratta, dunque, di un servizio guidato sempre più da una logica socio-assistenziale che, in parallelo alla non autosufficienza, nei fatti considera la carenza (o la debolezza) di reti familiari e di risorse economiche quali criteri prioritari per l’erogazione.
Le Unità valutative territoriali, variamente denominate nelle diverse regioni (UVM, UVG o altro), generalmente svolgono un’efficace funzione di governo della domanda, che consiste nell’indicare alle persone quali servizi possono ricevere in base alla loro condizione, contribuendo all’equità e all’appropriatezza nell’allocazione degli interventi pubblici. Spesso incontrano, invece, difficoltà a compiere una vera presa in carico, a connettere i diversi interventi in una logica di rete e a diventare un effettivo punto di riferimento delle famiglie nelle diverse fasi del percorso assistenziale. In sintesi, alla diffusa logica di governo della domanda si accompagna la scarsa presenza dell’ottica della presa in carico.
Il più rilevante profilo degli anziani non autosufficienti emerso negli ultimi 15 anni, la demenza, nonostante varie sperimentazioni e gli sforzi di alcuni territori, fatica ancora a trovare adeguate risposte dai servizi domiciliari. La sfida è senza dubbio complessa perché impone una presa in carico strutturata, mentre le prestazioni “slegate” tra loro, che caratterizzano il contesto attuale, non riescono ad andare adeguatamente incontro alle esigenze delle famiglie. Occorre inoltre prevedere per gli operatori una formazione specifica; ciò pone il problema di dover organizzare un servizio domiciliare su basi diverse da quelle abituali. Detto questo, si registra chiaramente la lentezza dei servizi domiciliari nell’adattarsi alla trasformazione dei bisogni esistenti nella società.
Ognuna delle singole questioni menzionate porta con sé un universo di tematiche, ma qui interessa la visione di quadro: la sintesi proposta in tabella mette in luce un insieme di nodi che non possono certo essere ricondotti esclusivamente al sotto-finanziamento del settore. Davanti a un siffatto scenario, focalizzare le cause delle difficoltà della domiciliarità solo sulla scarsità delle risorse dedicate significa abbracciare un punto di vista tranquillizzante (di chi non vuole vedere i problemi) o far propria una prospettiva sviante (di chi non vuole affrontare i problemi).
Tanto più che – considerati nel loro insieme – i diversi elementi evidenziati puntano nella stessa direzione: il ridotto impiego nei servizi domiciliari dell’approccio richiesto dalle specificità della non autosufficienza, fondato sulla peculiarità di uno sguardo complessivo, e multifattoriale, a tale condizione. Si tratti del prevalere della logica clinica, di quella socio-assistenziale o di quella del governo della domanda, è questo il filo rosso che unisce i diversi tasselli del puzzle.
Prima di tutto, definire la domiciliarità per l’Italia di domani
A questo punto, i contorni del rischio evocato all’inizio dovrebbero essersi chiariti. Se l’esito della rinnovata attenzione tributata ai servizi domiciliari consisterà nel reiterare – fedelmente ma su più ampia scala, grazie ai maggiori finanziamenti – le attuali criticità strutturali della domiciliarità, sicuramente un maggior numero di anziani verrà seguito a casa propria ma, altrettanto certamente, si sarà persa un’occasione fondamentale per rendere più adeguate le risposte ai loro bisogni.
Infatti, qualunque ipotesi di sviluppo dell’assistenza domiciliare non può prescindere da un sostanziale ripensamento sul ruolo che dovrebbe svolgere nel nostro Paese. Partendo dalle domande di fondo: di quali servizi domiciliari avranno bisogno gli anziani nel prossimo futuro in Italia? Quali sono le politiche e gli interventi da mettere in campo allo scopo? In altre parole, è necessaria un’approfondita riflessione sia sulla visione da adottare, sia sugli strumenti necessari per tradurla in pratica.
Per concludere, giova ricordare che l’unica volta che lo Stato italiano ha definito un proprio progetto per i servizi domiciliari, nell’ambito di un disegno sull’assistenza agli anziani nel suo complesso, è stato nel 1992, con il “Progetto obiettivo anziani” nazionale. È ormai tempo di cimentarsi di nuovo con questa sfida.
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