22 Febbraio 2022 | Professioni

La manutenzione emotiva del personale curante: patrimonio aziendale e linfa vitale per ogni professionista

I professionisti della cura sono frequentemente soggetti a situazioni potenzialmente stressanti. E’ importante che possano condividere le fatiche, le stanchezze, le insofferenze, le irritazioni e il dolore assorbito quotidianamente, per poter svolgere con equilibrio e sensibilità il proprio compito. E’ necessario che le strutture investano sul proprio capitale umano, da trattare esso stesso con cura.

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“Quando ti connetti con te stesso, cominci ad entrare in contatto più profondo con gli altri.
Senza il primo passo, il secondo non è possibile. Non dimenticare di dedicare ogni giorno
un po’ di tempo a comunicare in solitudine con te stesso.”

Thich Nhat Hanh

 

Ho dovuto impegnarmi spesso, nei lunghi anni della mia attività professionale, a sensibilizzare le Direzioni Sanitarie ed Amministrative per far comprendere loro l’importanza e la necessità di offrire spazi e tempi di manutenzione emotiva a chi svolge il delicato e difficile lavoro di cura. Non raramente ho trovato la resistenza di queste istituzioni, ma spesso anche degli stessi operatori non facilmente disposti a mettersi in gioco in primis come persone e poi come professionisti, poiché il lavoro su se stessi non solo è il lavoro più importante, ma sicuramente anche il più difficile.

 

Eppure sappiamo ormai con certezza che le professioni ad alta componente relazionale sono esposte al rischio burnout e che curare logora, ma non viene ancora sufficientemente riconosciuto come lavorare al miglioramento di sé sia importante per essere all’altezza di una simile professione.

 

Cosa accade nella mente e nel corpo di un operatore stressato?

 

Quali conseguenze si possono generare nelle relazioni con i pazienti, i colleghi, in famiglia?

 

Lo stress nell’uso popolare è venuto a significare tutte le pressioni a cui siamo sottoposti nella vita: è un elemento naturale ed inevitabile dell’esistenza che richiede un adattamento da parte dell’organismo.

 

In particolare si tratta della risposta non specifica dell’intero organismo mente-corpo a qualsiasi pressione o richiesta e lo stressor indica lo stimolo che produce tale risposta.

 

Il virus silente

In questo articolo non prenderò in considerazione l’eustress (dal greco eu= bene, buono) vitalizzante e necessario a vivere, bensì il distress, nocivo e distruttivo, pregno di quegli eventi che mettono in fatica e in grave difficoltà gli operatori, generando in loro conseguenze fisiche, emotive, relazionali e professionali. Tali eventi possono essere esterni (per esempio un sovraccarico di compiti da svolgere per carenza di personale, turni estremamente faticosi), ma anche interni come pensieri, sentimenti, stati d’animo consistentemente disfunzionali che costituiscono una seria minaccia per il benessere e la salute del professionista.

 

Spesso si assiste ad una cronicizzazione dello stress dovuto al carico emotivo che si genera durante il lavoro e che non sempre termina con il timbro del cartellino all’uscita, per esempio dalla casa di riposo o dall’ospedale, ma segue l’operatore, si trasferisce a casa sua, si insinua e si espande nella sua vita. Proprio come un virus, solo che in tal caso si tratta di un virus dell’anima, inizialmente silenzioso e via via sempre più ingravescente.

 

Ma proprio in quanto appartenente alla sfera psicologica, da sempre gode di scarsa considerazione perché sfugge ad una esatta misurazione e ha “il difetto” di appartenere al regno dell’intangibilità.

 

Alcune istituzioni, nel rispetto delle norme che lo prevedono espressamente, hanno sottoposto ai propri dipendenti dei questionari sullo stress lavoro correlato per valutare, attraverso liste di controllo e test convalidati, i potenziali indicatori di stress. Non è molto chiaro a che cosa abbiano portato queste inchieste, considerato che non sembrano aver prodotto un’adeguata formazione anzi, con l’avvento della pandemia, quel poco che veniva fatto è stato addirittura tagliato per risparmiare.

 

Non basta appurare l’esistenza dello stress, la cosa davvero importante è metterci le mani, è investire sul capitale umano, se viene riconosciuto innanzitutto come tale, da trattare quindi con cura proprio perché esso stesso deve curare. Occorre che sia compreso il bisogno degli operatori di essere aiutati, supportati, ascoltati, che possano condividere le fatiche, le stanchezze, le insofferenze, le irritazioni, il dolore che assorbono giorno dopo giorno.

 

Nel corso di tutti questi anni, invece, ho notato una credenza massicciamente radicata a partire dal management fino ad arrivare alla base, ovvero che mentre il corpo necessiterebbe di allenamento, addestramento, riabilitazione, la vita mentale ed emotiva sarebbe invece in grado di arrangiarsi e di cavarsela da sola.

 

Il percorso degli studi assolve al compito di produrre un titolo e una base di conoscenze professionali necessarie a lavorare e con esse ogni medico, ogni infermiere, ogni terapista della riabilitazione, ogni OSS, ogni educatore sarà in grado di svolgere adeguatamente, bene e per sempre, la propria funzione.
Ma non è così.

 

La formazione a cui mi riferisco non è proposta né caldeggiata dai percorsi accademici che si occupano esclusivamente di far apprendere abilità tecnico-sanitarie, non ritenendo allo stesso modo indispensabili la conoscenza e l’applicazione delle competenze emotive e comunicative, necessarie invece ad acquisire consapevolezza di sé e sensibilità nei confronti dei pazienti e dei loro familiari e capacità di gestire in modo appropriato e adulto le relative dinamiche relazionali.

 

Nonostante sia evidente da tempo che l’intelligenza costruitasi in ambito scolastico abbia ben poco a che fare con la vita emotiva (basti pensare a persone e/o professionisti brillanti che possono rimanere bloccati o incastrati in modi di essere fortemente impulsivi o incapaci di fronteggiare adeguatamente i marosi della vita) si continua a preferire l’expertise in senso stretto, che è una competenza di base, un fondamentale requisito-soglia, mentre ciò che fa veramente la differenza nelle professioni di cura è il come vengono svolte le prestazioni e la capacità di trattare con le persone.

 

Un team di professionisti di una nota struttura sanitaria lombarda, al quale avevo già erogato percorsi formativi, riconosciuti estremamente utili e molto graditi, mi aveva contattata per elaborare un progetto formativo orientato a supportarli nella fase critica della pandemia. La loro Responsabile SITRA (Servizio Infermieristico Tecnico Riabilitativo Aziendale) lo ha bocciato perché ritenuto “…troppo psicologico”.

 

Ancora una volta è stato ignorato e negato il fatto che le emozioni ci guidano quando affrontiamo situazioni e frangenti molto difficili che non possono essere affidati al solo intelletto e alla buona volontà.

 

Disconoscere il ruolo delle emozioni, e il fatto che i sentimenti contino almeno tanto quanto il pensiero razionale, dimostra una concezione della natura umana fortemente, e deplorevolmente, limitata.

 

Ci troviamo ancora una volta a notare che continua ad essere data un’esclusiva ed estrema importanza al valore della sfera puramente razionale (quella misurata dal QI) nella vita delle persone. Trovo a dir poco avvilente imbattermi ancora e molto frequentemente in queste ottusità e resistenze.

 

Le conseguenze dello stress nel lavoro di cura

Vorrei porre l’attenzione, in particolare, sugli eventi interni fonti dell’esaurimento emotivo e del logoramento del professionista definibili come cause soggettive di stress, che sono indubbiamente non sempre riconoscibili, non misurabili e di nuovo rientranti nell’intangibilità.

 

Come Martin Seligman ha evidenziato nei suoi studi su ottimismo e salute, lo stress non è una conseguenza automatica del potenziale stressor, ma è il modo in cui quest’ultimo viene percepito e interpretato dalla persona che determina la reazione ad esso.

 

Ciascuno di noi ne ha fatto sicuramente esperienza, basti pensare come a volte un avvenimento ci abbia scatenato una reazione sproporzionata. E’ quello che accade, per esempio, ad un operatore esausto che non si rende conto di reagire in modo squilibrato agli eventi. Hans Selye definì come Sindrome Generale di Adattamento la risposta maladattativa che un organismo mette in atto quando è soggetto agli effetti prolungati di molteplici tipi di stressor quali: stimoli fisici (per es. la fatica), mentali (affollamento di pensieri negativi, assillanti), sociali o ambientali (ad es. obblighi e richieste), che determinano l’insorgenza di una condizione patologica, inizialmente asintomatica, ma in progressivo sviluppo fino alla completa insorgenza di un quadro composto da varie patologie.

 

Molti operatori sono costantemente ansiosi e soffrono di stati tensivi cronici a livello muscolare in varie zone del corpo, ognuno poi ha la propria zona somatica “preferita” in cui vanno ad accumularsi ansietà e malinconie. Alcuni disturbi frequenti sono palpitazioni e aritmie cardiache, insonnia, emicrania, acufeni, orticaria. Queste reazioni sono soprattutto sollecitate da circostanze di stress quotidiano alle quali il corpo risponde automaticamente registrandole come minaccia o pericolo (nonostante non si tratti di pericolo di vita..). Ma anche la psiche non sfugge alle sollecitazioni negative che costantemente riceve e produce, che si fanno evidenti con demotivazione, stanchezza cronica, attacchi di panico, senso di impotenza, di vuoto, rabbia, angoscia che possono arrivare a sfociare in quadri depressivi, fino al suicidio nei casi peggiori (box 1).

 

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Box 1 – L’evoluzione dello stress

 

Durante il periodo pandemico sono venute molto più in evidenza le reazioni da stress incontrollate che una volta consolidate provocano gravi conseguenze sulla salute, come lo sviluppo di patologie croniche e/o menomazioni funzionali anche a distanza di anni dagli eventi scatenanti.

 

Quindi la prima forma di tutela è diventare consapevoli di queste reazioni inconsulte: la consapevolezza è la risorsa per eccellenza per cambiare le cose e vedremo come.

 

Prima però vorrei fare un’ulteriore precisazione: alcuni professionisti già prima dell’avvento della pandemia da Covid-19 presentavano fragilità psichiche per vari motivi appartenenti alla loro esistenza e alla loro storia o prodottesi proprio a causa del logoramento del curare nel corso della loro vita professionale. L’esperienza traumatica del Coronavirus è andata a risvegliare queste fragilità, riportando in evidenza le ferite non del tutto cicatrizzate; questo spiega come mai le reazioni al trauma non sono le stesse per tutti: ognuno di noi risponde in base alla propria realtà psichica e al proprio vissuto rispetto agli stressor ai quali la vita ci sottopone.

 

Dalla consapevolezza all’intelligenza emotiva

Quindi, come interpretiamo e valutiamo gli stressor determina il modo in cui li affrontiamo e il grado di stress che essi ci provocano.

Questo significa che abbiamo la possibilità di esercitare un controllo maggiore di quanto normalmente crediamo sulle cause del nostro stress, per esempio attivando la via della consapevolezza per migliorare fortemente la capacità e la qualità dell’attenzione, per vedere con maggiore chiarezza, per stabilizzarci e centrarci e da qui procedere a sentire, ascoltare e riconoscere gli aspetti fisiologici dell’emozione, in modo da percepirli vivamente grazie a questa attenzione potenziata.

 

Alla base dell’intelligenza emotiva c’è la consapevolezza ed è da qui che occorre partire per sviluppare tutte le competenze che questa intelligenza include.

 

Nei percorsi formativi da me condotti su questi temi, per cominciare ad esercitare i corsisti a riconoscere le emozioni, propongo loro molteplici esperienze come ad esempio questa esercitazione che favorisce appunto l’alfabetizzazione emotiva, in modo da iniziare a diventare sensibili ai segni sottili delle emozioni, nel momento in cui insorgono, con l’intento di nutrire una sempre maggiore intimità con se stessi che apra poi ad una sensibilità raffinata nei confronti degli altri attraverso la lettura della loro mimica, delle sfumature percepibili nel tono della voce, delle posture, dei loro atteggiamenti.

 

Esercitazione: “I miei panni emotivi”

Ad ogni partecipante chiedo di chiudere gli occhi e contemporaneamente suono tre tocchi ben scanditi di campana tibetana per favorire il passaggio ad uno stato di concentrazione. Ognuno dovrà tornare ad un’esperienza vissuta al lavoro che gli consenta di prendere contatto con un’emozione, piacevole o spiacevole. Una volta intercettata non dovrà pensarla in maniera distaccata, ma dovrà cercare di riviverla di nuovo, rientrando completamente in quella situazione come se la stesse vivendo in quel momento. A quel punto comincio a guidarli con la voce chiedendo loro di registrare le sensazioni fisiche interne (quelle cioè che sentono nel corpo, ma che gli altri non possono vedere come per esempio un peso sul petto, un nodo alla gola, farfalle nello stomaco etc). Successivamente li invito a prendere consapevolezza dei contenuti mentali che sorgono: pensieri, immagini, ricordi, poi è la volta degli impulsi ad agire – indipendentemente dal fatto che nella situazione rievocata siano passati davvero all’azione oppure no – quello che è importante è che si accorgano cosa avrebbero voluto fare o dire, infine chiedo loro di registrare anche le espressioni fisiche esterne rilevabili nella fisiologia del loro corpo.
Al termine devono individuare l’emozione provata e nominarla.
I tre tocchi di campana segneranno infine la conclusione di questa esperienza nel corso della quale è come se i partecipanti avessero condotto una disanima attraversando tutti gli ingredienti di cui è fatta un’emozione in modo da isolarli uno per uno: conoscere il loro insieme costituisce appunto la consapevolezza.
Il disegno della mano sulla lavagna a fogli mobili (figura 1) rappresenta una mappa orientativa per ricordare tutti gli elementi degli stati emotivi che si troveranno ad attraversare.

 

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Figura 1 – Mappa orientativa per il riconoscimento degli stati emotivi

 

Come evitare la trascuratezza emozionale o l’allagamento emotivo?

La sofferenza e la frustrazione favoriscono stati emotivi che possono condurre su chine comportamentali davvero riprovevoli quali l’indifferenza, la durezza, l’ostilità come forme difensive agite da quei professionisti che non hanno la formazione adeguata per gestire la relazione di cura. E allora non resta loro altra scelta che arroccarsi in se stessi e man mano inaridirsi nel tentativo di non farsi toccare dalla morte, dalla malattia, dalla demenza, dal declino fisico e psichico con cui vengono giornalmente in contatto. E’ un modo semplificato e brutale di prendere le distanze per proteggersi dalla paura di tutte queste possibili tragedie.

 

C’è poi chi corre invece un rischio opposto: si invischia in un massiccio coinvolgimento fino a sentirsi inglobato dai vissuti dei pazienti e risucchiato nel mare emotivo dell’altro. Questo appesantisce pericolosamente e inutilmente lo stato emotivo di chi aiuta.

 

Per trovare un equilibrio in questo mare di difficoltà, di grande valore e di indiscussa efficacia è lo strumento di formazione permanente della supervisione guidata da un professionista esperto ed esterno all’istituzione.
Prendiamone in esame alcuni obiettivi:

  • dare voce ai curanti in un luogo dedicato al pensiero e al confronto in modo che possano riflettere sulla loro operatività come individui e come gruppo;
  • permettere che le emozioni assumano forme comunicabili e che i vissuti vengano elaborati;
  • poter contare su questo strumento di formazione permanente come deterrente contro stati d’animo mortiferi e angoscianti per trasformarli in ricerca, crescita e disponibilità a stare con la sofferenza, in modo da nutrire risorse interiori utili alla nostra esistenza;
  • condividere informazioni, progetti, risorse, angosce, dubbi, fatiche, riflessioni;
  • promuovere un clima cooperativo, che è uno dei fattori necessari per la disciplina del lavoro di squadra e per alimentare un sentimento di coesione ed appartenenza che permetta ai singoli di sentirsi parte di un unico ambito affettivo e professionale.

 

La pratica della Mindfulness

In questo articolo desidero mettere in evidenza soprattutto l’importanza di sviluppare accoglienza, benevolenza e compassione nella relazione di cura ed essere più resilienti coltivando il proprio equilibrio.
Tutto questo richiede l’aumento delle risorse emotive interne quali:

  • la vicinanza al proprio mondo interiore, l’intimità con se stessi;
  • la consapevolezza emotiva di sé;
  • la meditazione che dona la possibilità di intuire e conoscere se’ stessi e di conseguenza la capacità di capire meglio gli altri, essere più disponibili ed empatici;
  • la fiducia in se stessi;
  • la capacità di sperare;
  • la gentilezza amorevole;
  • l’esercizio fisico.

 

Tali risorse sono una preziosa riserva che si consolida attraverso l’impegno, la pazienza e una disciplina costante.
Alimentare l’equilibrio psichico e conservarlo nel tempo necessita di un sottile e continuo lavoro.
La pratica della Mindfulness è un supporto straordinario di arricchimento poiché lavora in lungo e in largo, profondamente, nella psiche e nel cuore.
Permette infatti di imparare a stare con le emozioni, anziché reagirvi ed esserne cronicamente sopraffatti e ingabbiati.

 

Ritengo che non sia possibile gestire una tale complessità professionale senza sviluppare e alimentare costantemente dispositivi per costruire:

  • prima un rifugio interiore aperto, non giudicante per se stessi, in cui ripararsi contro le tendenze difensive abituali, reattive o nevrotiche;
  • successivamente saper trovare riposo e quiete in mezzo al caos, calmi nella situazione, per rappresentare un vero porto sicuro per gli altri, agendo da uno stato di saggezza e compassione;
  • infine dotarsi di saggezza, compassione e visione profonda per imparare a soffrire, in quanto dobbiamo mettere in conto che sviluppare e mettere in campo la capacità empatica comporta tollerare una certa dose di sofferenza.

 

Come ci indica il maestro Thich Nhat Hanh, soffrire bene è un’arte, pertanto se sappiamo prendere in carico la nostra sofferenza, anziché scappare per evitarla, soffriremo molto meno, inoltre potremo generare più serenità negli altri attorno a noi.

 

Ecco perché insegno da alcuni anni le pratiche meditative basate sulla Mindfulness, durante le quali è buona cosa invitare le persone a mettere la mano destra sul cuore e la sinistra sull’addome per imparare a stare e a ritornare, ogni volta che la mente porta altrove, nel momento presente: qui ed ora sono l’unico luogo di riposo e di calma. E da questo luogo di quiete dare il benvenuto a tutto quel che si presenta senza respingere nulla.

 

Questo invito significa – come indica Frank Ostaseski – che non possiamo lasciar fuori nessuna parte di noi stessi e della nostra esperienza: né la gioia, né la meraviglia, né la pena, né l’angoscia. Questi sentimenti sono tutti intrecciati nel tessuto della nostra vita. Quando abbracciamo questa verità, entriamo più pienamente nell’esistenza.

 

Ricchezza o carestia?

Occorre constatare, infine, che l’intelligenza emotiva varia a seconda delle organizzazioni: quelle non intelligenti non mettono i lavoratori in grado di trasformare la propria intelligenza in competenza emotiva ed organizzativa, quindi essi non potranno perseguire massimi livelli di sviluppo personale e professionale. Tali organizzazioni risultano essere un territorio privilegiato di azioni negative, di mobbing e di stress.

 

Quelle sanitarie per esempio hanno una struttura fortemente proceduralizzata, legata a schemi di funzionamento necessari a mantenere l’accreditamento. Un simile modello non tiene in particolare considerazione la salute dei dipendenti, la qualità della vita professionale, le loro emozioni, il loro benessere. La sordità su questi aspetti produce assenteismo, demotivazione, insoddisfazione e disagio psicologico.

 

Utilizzare, invece, strumenti e modalità di comprensione e supporto a livello più profondo rispetto alle dinamiche razionali trasformerebbe l’aridità e la carestia emozionale in linfa vitale e ricchezza.

 

Il patrimonio aziendale si rafforzerebbe nel conservare umanità ed equilibrio, nel trarre piacere dal lavoro grazie all’innalzamento del morale e della motivazione nel personale curante, potrebbe inoltre contare su una maggiore cooperazione e disponibilità al cambiamento oltre ad offrire modalità di comunicazione efficaci, gentili, empatiche, oneste e trasparenti a pazienti e familiari per essere sì professionali, ma restando umani.

Bibliografia

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