1 Settembre 2003 | Residenzialità

Hospice e RSA: un luogo per morire o un modo per morire?


“Gli americani vogliono morire a casa, circondati dalla famiglia e dagli amici, senza soffrire e con il pieno controllo della loro esperienza di morte. La realtà dei fatti è proprio l’opposto, le Nursing Home non sono preparate a prendersi cura dei morenti”. Così D. Parker Oliver (2002) sintetizza l’atteggiamento degli americani nei confronti della morte e la percezione del problema nelle nursing home (NH). Gli studi condotti negli USA negli ultimi anni denunciano, relativamente alle cure di fine vita, una situazione abbastanza chiara, per certi versi contraddittoria e forse non diversa da quella del nostro paese. Sinteticamente: un numero sempre più alto di persone muore nelle NH; il personale delle NH non è preparato a prendersi cura dei malati terminali; la valutazione e la cura del dolore sono largamente insufficienti; il ricorso all’hospice nelle NH è molto raro, nonostante la grande diffusione di questi servizi nella realtà locale (Parker-Oliver, 2002; Raudonis et al., 2002; Cartwright, 2002; Miller e Mor; 2001).

 

Sembra insomma che quello che L. Tolstoj definì “quell’atto formidabile e solenne che è la propria morte” avvenga, nella maggior parte dei casi, in un posto inadeguato, tra persone non preparate e in condizioni di sofferenza. E’ peraltro interessante ricordare, a proposito di luoghi dove morire, che Tolstoj, dopo 80 anni di vita da gentiluomo di campagna, andò a morire in una piccola stazione ferroviaria perduta nella steppa, nel tentativo ultimo e disperato di fuggire da una vita di profonde contraddizioni sociali e sentimentali. Oggi più del 20% delle persone termina la propria vita in una NH; tra vent’anni la percentuale salirà al 40% (Parker-Oliver, 2002; Ersek e Wilson, 2003; Weitzen, 2003).

 

Nonostante l’entità del fenomeno, pare che esista scarsa attenzione al problema e che l’impegno di chi lavora nelle case di riposo sia rivolto alla riabilitazione, al mantenimento delle funzioni residue ed alla cura delle condizioni acute intercorrenti che spesso colpiscono gli anziani ricoverati. Di fronte alla crescente instabilità clinica degli anziani ed all’impegno sanitario che essi richiedono, la tensione professionale è rivolta alle istanze di recupero, spesso ignorando le problematiche di fine vita, tra cui la cura del dolore e l’assistenza spirituale (Parker-Oliver, 2002). E’ davvero questa la situazione delle nostre case di riposo?

 

La storia non facile delle nostre RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) – storia che negli ultimi 15 anni ha subito una brusca accelerazione legata alla pressione del fenomeno dell’invecchiamento – converge su un aspetto che, riflette in modo inequivocabile la realtà, per quanto poco attraente sul piano dell’immagine, la RSA è il luogo dove si muore, dove le persone vanno a trascorrere l’ultima fase della loro vita. Anche se negli ultimi anni, in certe regioni d’Italia si è opportunamente valorizzato il ruolo vitale delle RSA (la riabilitazione, i ricoveri temporanei, i centri diurni), è innegabile che l’immagine più forte, e più radicata nell’immaginario collettivo è quella della casa di riposo come collo di bottiglia dell’esperienza terrena, ultima stazione della nostra esistenza. Appare quindi stridente che l’istituto dove si muore sia anche il luogo ove non esiste cultura del morire, con operatori non preparati ad affrontare questa fase della vita.

 

Di fatto, se pensiamo a quanto poco spazio si è dato nei programmi formativi alla cura del dolore ed alle scelte di fine vita, (assistenza tecnica e spirituale al malato terminale), non dobbiamo stupirci della diffusa impreparazione. I motivi di questa negligenza formativa probabilmente ci sono, e in qualche caso profondi o inconsci: si vuole forse, in questo modo, rimuovere la sgradita etichetta di istituti dove si muore; non si vogliono affrontare tematiche che impegnano la coscienza o la fede di ciascuno; o forse, più semplicemente, anche le RSA partecipano all’epocale processo di rimozione della morte che colpisce le società sviluppate. Quali che siano le motivazioni è certo che le RSA, accolgono anziani fragili, con un età media sopra gli 80 anni ed una sopravvivenza dopo l’ingresso breve dopo il ricovero.

 

Essendo luogo di assistenza, cura e residenza, le RSA non possono più rimanere estranee alla medicina palliativa. “Palliativisti” sono tutti coloro che possono contribuire ad alleviare il dolore: il medico che cura i sintomi, l’infermiera che accudisce il malato, lo psicologo che aiuta la comunicazione, l’assistente sociale che aiuta la famiglia, l’assistente religioso che aiuta a ritrovare il senso della vita e della morte. La valutazione e la cura del dolore, inteso come sofferenza del corpo e della mente, devono entrare nelle case di riposo, insieme alle scelte terapeutiche ed assistenziali che condizionano le ultime fasi della vita (nutrizione, idratazione).Queste scelte vanno supportate da una conoscenza tecnica ed etica e non lasciate, come accade, al caso o all’emergenza, rischiando di rappresentare involontariamente fenomeni di accanimento terapeutico o, al contrario di eutanasia passiva.

 

Come introdurre l’hospice nei nostri istituti? Come organizzare gli anziani terminali (per tumore o per altre malattie) le cure necessarie? L’esperienza USA cui si accennava all’inizio fa riferimento all’hospice come servizio, fornito ai malati terminali su richiesta dello staff della NH (Parker-Oliver, 2002; Zerzan et al., 2000). L’hospice, dunque, come équipe di specialisti esterni alla NH, composta in genere da medico, infermiere, assistente sociale, personale religioso. I risultati sin qui ottenuti da sono poco incoraggianti. Il ricorso allo staff dei palliativisti è molto scarso, dall’ 1 al 5% dei terminali, nonostante una persona su tre ricoverati in RSA muoia entro un anno. La responsabilità è attribuita ad alcuni fattori: in linea generale l’impreparazione ad affrontare le cure di fine vita; più in particolare, la scarsa capacità di valutare il dolore le necessità di assistenza morale, e la difficoltà a capire quando l’ospite ha bisogno di queste cure. Sembra che esista una scarsa propensione, da parte del personale delle NH, a ricorrere allo staff dell’ hospice, “a etichettare il malato come terminale” (Parker-Oliver, 2002). Probabilmente, anche nel nostro paese, dopo la cultura della riabilitazione, deve nascere una cultura della palliazione. E’ ancora vero, come diceva F. Bacon, che “i medici devono imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti ad uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità”.

 

Una seconda modalità di approccio al problema terminalità-case di riposo potrebbe essere l’istituzione, in seno alle RSA, di nuclei speciali dedicati a questi ospiti, con personale formato e ambiente fisico adeguato. In analogia con il modello del Piano-Alzheimer della regione Lombardia, questi nuclei potrebbero diventare luoghi di cura eccellente e inoltre modello di care da esportare nel restante ambito della RSA. L’ostacolo maggiore a questa ipotesi ci sembra la percezione negativa da parte dell’utente, che vedrebbe, all’interno di un luogo dove si va a morire, un reparto dove ancor più selettivamente sono avviati gli ospiti più vicini alla morte. La RSA, che deve già quotidianamente scontrarsi con pregiudizi culturali duri da superare, dovrebbe confrontarsi anche con questo ostacolo, più forte sul piano culturale che, su quello organizzativo-gestionale.

 

Accanto a queste due ipotesi (hospice come staff esterno/hospice come reparto speciale) si può presentare una terza, che in qualche modo le concilia: l’organizzazione di uno staff di palliazione costituito da personale interno alla RSA che intervenga là dove se ne ravvisa il bisogno. Questa diversa modalità presenterebbe due vantaggi: eviterebbe il ricorso a personale esterno e i conseguenti problemi di resistenza psicologica da parte del personale di RSA; favorirebbe, all’interno dell’istituto, la crescita di una cultura palliativista. A proposito di cultura dell’assistenza al malato terminale, si può affermare che la quotidiana osservazione di approccio del personale a questi malati induca anche a qualche riflessione ottimistica, un po’  in controtendenza con le pessimistiche analisi dei nostri colleghi d’oltreoceano. Se è vero che anche nel nostro Paese, manca la cultura della palliazione a tutti i livelli professionali, è altresì vero che nelle nostre RSA è diffusa, nel personale di contatto una sensibilità nei confronti dei malati gravi, talvolta profonda e ricca di connotazioni persino tenere e affettuose. Manca l’impianto di conoscenze teoriche o l’adesione consapevole a procedure e linee-guida, che garantiscano un’efficace e professionale risposta ai bisogni; è presente però, una forte componente umana di sensibilità e attenzione alla persona, che costituisce un’ottima base di partenza.

 

La morte come fase da gestire è ancora assente dal nostro bagaglio professionale. Quanto siamo lontani, nella nostra agnosia della morte, dalla struggente consapevolezza di Publio Adriano (“..un istante ancora, guardiamo insieme le rive famigliari, le cose che certamente non vedremo mai più.. cerchiamo di entrare nella morte a occhi aperti”. Forse anche noi, pur abituati a lavorare con malati che non guariscono, siamo così impregnati di quella impostazione ideologica che vede la medicina trionfare sulla malattia, da far fatica ad accettare di affrontare le ultime fasi di vita come una transizione da gestire con strumenti tecnici oltre che umani.

 

L’hospice deve entrare nei nostri istituti per anziani come atmosfera diffusa, attitudine di care, tecnica capace di conciliare in alto grado qualità umane e competenza professionale. Le modalità con le quali questo processo si realizzerà dipenderanno da orientamenti di politica sanitaria e dalle abilità organizzative e gestionali dei singoli enti. Il compito nuovo delle RSA, oggi, è quello di affiancare alle competenze assistenziali e riabilitative, indirizzate al miglioramento, alla guarigione e al recupero, competenze palliativiste: ancora una volta alle RSA, un po’  casa e un po’  ospedale, un po’  istituzione un po’  residenza, si chiede la duttilità organizzativa e culturale necessaria per garantire ai malati terminali di uscire da questo mondo con “dolcezza e serenità”.

Bibliografia

Cartwright JC. Nursing homes and assisted living facilities as places for dying. Annu Rev Nurs Res 2002; 20: 231-64.
Ersek M, Wilson SA. The challenges and opportunities in providing end-of-life care in nursing homes. J Palliat Med 2003; 6(1): 45-47.
Miller SC, Mor V. The emergence of Medicare hospice care in US nursing homes. Palliat Med 2001; 15(6):471-80.
Parker-Oliver D. Hospice experience and perceptions in nursing homes. J Palliat Med 2002; 5: 713-720.
Raudonis BM, Kyba FC, Kinsey TA. Long term care nurses’ knowledge of end-of-life care. Geriatr Nurs 2002; 23(6): 296-301.
Weitzen S, Teno JM, Fennell M, Mor V. Factors associated with site of death: a national study of where people die. Med Care 2003, 41(2): 323-35.
Zerzan J, Stearns S, Hanson L. Access to palliative care and hospice in nursing homes. JAMA 2000;

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