Che cosa è la città amica della persona con demenza? E’ una città che rende reale il principio dell’accoglienza a tutti i livelli, soprattutto verso i più fragili come sono le persone affette dalla malattia di Alzheimer o da altro tipo di demenza. Una comunità dove ogni cittadino è “preparato” a conoscere e sostenere le persone malate e le famiglie. Il luogo dove la normalità reale è un concetto alla portata di tutti, dove ogni cittadino si impegna a cadenzare, senza profonde modifiche, i suoi ritmi di vita, la quotidianità di chi non può più ricordare, costruendo ponti tra la persona ed il suo ambiente vitale, quasi una protesi che sostituisca quanto è stato cancellato dalla malattia. Un impegno che, senza stravolgere in modo sostanziale le abitudini, si prefigge di realizzare intorno alle persone affette da demenza un’atmosfera di particolare attenzione, che tenga conto delle sue fragilità e abbia una consapevole comprensione verso le sue differenti capacità. Una città che crea le condizioni affinché ciascuno, indipendentemente dal suo stato di salute o dall’età, possa essere incluso nelle varie attività.
La “città amica” sa leggere e comprendere il bisogno nelle strade e nelle case, combatte la solitudine, comprende, accoglie, offre supporto nelle difficoltà, non ha reazioni di ilarità o irritazione di fronte alla diversità di comportamenti.
La solitudine, emblema del nostro tempo
Anche senza essere un sociologo definirei questa l’epoca della solitudine, della ricerca, spesso implicita, di un contatto che dia la vicinanza. Viviamo sommersi di vocaboli, parliamo tutti in continuazione senza quasi mai comunicare né tanto meno ascoltare.
Ho un ricordo meraviglioso di un condominio dove ogni porta aveva la sua chiave bella in vista sulla parte esterna della serratura, ci si scambiava lo zucchero o le patate, i successi e le sconfitte, gli abbracci ed anche le chiacchiere soffocate. Quando si laureava qualcuno del palazzo era l’orgoglio di tutti, l’ultimo giorno dell’anno si tirava fuori il servizio buono di bicchieri, si brindava insieme condividendo sogni e progetti; se poi alcuni riuscivano nella vita e divenivano famosi era “gloria” collettiva. Ora tutto questo fa parte di un mondo antico, quasi preistorico.
Nessuno di noi è fatto per vivere solo, tutti abbiamo necessità estrema di sentirci parte di una comunità reale. Lungi dal demonizzare i social, va bene, ma essi sono complementari, non sostituivi dei contatti veri. Spesso, invece, sono un surrogato di amicizie che danno l’illusione di non essere soli per poi, però, una volta spento il pc o il telefonino, sentirsi schiacciati da un silenzio fatto di mille like che non possiamo toccare né tanto meno abbracciare. Abbiamo 5000 amici su facebook ma non sappiamo a chi chiedere aiuto nel caso abbiamo un problema o, semplicemente, vogliamo parlare con qualcuno. Fino ad arrivare ai tragici paradossi, in un’epoca in cui la tecnologia dovrebbe facilitare la comunicazione e la socialità, assistiamo periodicamente a fatti di cronaca che raccontano di persone decedute senza che nessuno se ne fosse accorto. Persone spesso anziane che vivevano sole in condomini, della cui scomparsa ci si accorge dopo mesi per il cattivo odore. E non succede solo nelle grandi città, capita in ogni parte, anche nei piccoli centri.
Lo scorso anno la Gran Bretagna ha istituito il Ministero per combattere la solitudine e l’AIP, da un’idea del Prof. Trabucchi e del Prof. De Leo, ha dedicato una Giornata Mondiale alla lotta contro la solitudine che si celebra il 15 Novembre. Scrive l’antropologo Marc Augé (Augé, 2019) nel suo recente volume “Chi è dunque l’altro?”: “Gli esseri individuali esistono solo in virtù della relazione che li unisce”. La solitudine fa ammalare come se si fumasse per tutta la vita 15 sigarette al giorno.
L’isolamento della persona malata di demenza e del suo familiare
Il quadro si amplia, diventa drammatico, quando si parla di solitudine della persona fragile, semplicemente perché si corre il rischio, serio, che non ci sia il tempo del “riscatto”. Solitudine sorda, che parla di abbandono, di isolamento, di inadeguatezza del contesto da comprendere e sostenere. Ha l’odore sgradevole del ferro, un odore metallico che fa da barriera escludendo la persona fragile ed il caregiver da ogni possibile socialità, la quotidianità diventa una condanna da scontare, finendo per amplificare le conseguenze di una malattia non facile (ma quale patologia lo è?!), che diventa quindi spesso ingestibile.
Quando si vive un’esperienza di demenza il senso di abbandono e la condizione di solitudine divengono drammatici: la famiglia si chiude e, nel contempo, parenti e amici, sentendosi inadeguati a gestire la nuova condizione, tendono a favorire l’isolamento. Ci si trova improvvisamente, nella stragrande maggioranza dei casi, in un tunnel senza una via d’uscita, improvvisamente strappati da quella che era la quotidianità, fatta di incontri, luoghi, persone, situazioni che hanno per anni caratterizzato la giornata. All’arrivo della diagnosi spesso la porta si chiude repentinamente per la persona malata ed il caregiver, l’abitazione non è più un posto di conforto ma, quasi, una specie di prigione.
Non è la malattia ad impedire la socialità ma la nostra (globale sia dei familiari che dell’intera società) incapacità a gestirla in modo adeguato. Molte volte, da quando è stata attivata la linea telefonica come Alzheimer Uniti Italia, abbiamo sentito dire dal familiare o dalla persona malata che chiamava: ”Volevo solo parlare un po’”. Oppure, dopo l’avvio del Progetto della Città amica, alla prima uscita in pizzeria, abbiamo visto persone commuoversi perché erano anni che non andavano al ristorante… Questa la dice lunga su tanti, troppi, luoghi comuni o credenze sbagliate da combattere. Ho conosciuto una signora che assisteva il marito da 13 anni che da 8 anni non usciva più se non per brevissime rapide “fughe” al supermercato. Ciò perché le avevano detto che il marito poteva innervosirsi e dare problemi a se stesso e agli altri. Vero che la confusione, il rumore eccessivo possono dare problemi di comportamento alla persona malata, ma non è un motivo valido per segregare una persona, anzi due, in casa peggiorando poi il quadro psicologico e fisico. E’ necessario creare la condizioni giuste: se la comunità è preparata nel suo complesso (commercianti, sacerdoti, bambini, impiegati degli uffici ecc. ecc.) l’atteggiamento sarà completamente differente, la persona fragile si sentirà accolta e compresa e potrà così seguitare ad avere una socialità vera che migliora significativamente la qualità della vita.
Una risposta all’emarginazione: La città amica della persona con demenza
La città amica è una possibile reale risposta per sconfiggere la solitudine e migliorare la qualità della vita della persona malata e delle famiglie (ma dall’esperienza che stiamo facendo anche di ogni cittadino…). Rende reale il principio dell’accoglienza soprattutto per i più fragili come sono le persone colpite dalla malattia di Alzheimer o da altro tipo di demenza. Non si tratta di costruire un recinto riservato alle persone con demenza, anzi, esattamente il concetto opposto, quello di realizzare una città aperta e gioiosa, dove tutti trovano accoglienza senza barriere, vecchi e giovani, sani e ammalati. Certamente non una città ospedale, ma una città ospitale, dove ci sia spazio per chi si trova nella sofferenza. Il luogo dove la normalità è un concetto alla portata di tutti.
Alzheimer Uniti Italia sta portando avanti da anni il Progetto della Città amica, un cambio di mentalità radicale, un modo di porsi differente, una comunità che, senza stravolgimenti dei propri ritmi, cadenza la quotidianità di chi è in difficoltà. Un vero Rinascimento del sociale per realizzare il quale occorrono preparazione, competenza, cuore, disponibilità, generosità, coraggio, sensibilità, altruismo. Non si improvvisa nulla e la buona volontà da sola non basta; è per questo che Alzheimer Uniti Italia ha stilato le Indicazioni per realizzare la Città amica.
Un cammino che vede tutti coinvolti, nessuno escluso. Il logo che è stato scelto è l’abbraccio (donato dal pittore Gatrillo) che è l’emblema di quanto l’associazione si propone di fare, un’intera comunità che avvolge e sostiene la persona fragile.
Combattere la solitudine vuol dire combattere il pregiudizio, l’abbandono, l’isolamento, lo stigma e tutte le situazioni in cui la persona con demenza e la famiglia vivono. Sperimentando la Città amica ci accorgiamo di quanto, ognuno di noi, ha bisogno di sentirsi parte di qualcosa per dare un senso profondo alla propria esistenza.
Ogni volta che incontriamo le forze dell’ordine piuttosto che gli studenti per spiegare quanto stiamo provando a fare, cogliamo subito un atteggiamento di grande ascolto e collaborazione. Certo, occupandosi di demenza, abbiamo chiamato la progettualità Città amica della persona con demenza, ma è Città amica della persona. Tutti noi cerchiamo l’appartenenza: fare parte di una comunità dà forza e toglie la paura che impedisce di guardare al domani. Stiamo assistendo al miglioramento della qualità di vita per tutti in quanto, favorire le relazioni e proiettarsi verso chi ha bisogno, dà un valore aggiunto a qualsiasi individuo. Perciò è importante stimolare fra tutti i cittadini un’alleanza strategica, volta al rispetto della dignità e della libertà della persona, indipendentemente dal suo stato cognitivo.
Ma come si fa concretamente a realizzare una città amica della persona? Come già detto ci si rivolge a tutti i cittadini che dovrebbero acquisire una sensibilità che li porti a considerare come conterranei “normali” le persone affette da demenza. Importante è avviare un percorso di formazione rivolto alle persone che hanno particolari funzioni all’interno della città come i vigili urbani, i gestori degli alberghi, i commercianti, le persone che lavorano nei bar, nelle banche, gli organizzatori di momenti di svago, sacerdoti. In questo modo la Comunità Solidale diventa un’opportunità per tutte le persone e categorie sociali per conoscere la malattia della demenza e condividere le esperienze di vita con le persone affette da demenza o con chi si prende cura di loro.
L’obiettivo ultimo è fornire, ad ogni categoria sociale, un suo bagaglio culturale affinché le persone che interagiscono più comunemente con le persone con demenza possano supportarle nel continuare a svolgere una vita “normale” all’interno della loro comunità. A tal fine si agisce, in generale, sulle conoscenze dei cittadini, perché cancellino lo stigma che spesso circonda la vita degli ammalati, sviluppando la consapevolezza che la demenza è una patologia come molte altre. Si agisce inoltre su tutte le realtà che nella vita di ogni giorno entrano in contatto con malati e famigliari, perché le relazioni siano naturalmente caratterizzate da un atteggiamento di aiuto.
La difficoltà più grande è trasmettere il senso di cambiamento culturale, far capire che il progetto della città amica non è una singola azione, ma un percorso lento, graduale, composto da tante azioni parallele che hanno due macro-obiettivi:
- Favorire lo sviluppo di un contesto sociale che sia il più possibile vivibile per le persone con demenza e le loro famiglie, consentendo una normale quotidianità: passeggiare tranquillamente per le strade, frequentare i negozi, andare al bar piuttosto che in chiesa…
- Dimostrare il miglioramento della qualità di vita per tutta la Comunità in quanto favorire le relazioni e proiettarsi verso chi ha bisogno dà un valore aggiunto a qualsiasi individuo.
Attraverso convegni e incontri abbiamo sempre cercato di ribadire che il diventare una città amica è un percorso necessariamente lento, perché non si modificano con facilità atteggiamenti e convincimenti (e talvolta pregiudizi) di lunga durata; inoltre il progetto va contestualizzato e modificato in base alle necessità di un territorio. Solo in questo modo la “città amica” saprà leggere e comprendere il bisogno nelle strade e nelle case, diventare accogliente, combattere la solitudine, essere comprensiva di atteggiamenti che, in altre circostanze, potevano sembrare inaccettabili, offrire supporto nelle difficoltà, prevenendo crisi all’interno delle famiglie che talvolta possono portare alla rottura del sistema delle cure, con gravissimo danno per l’ammalato.
E’ possibile affermare che un’ulteriore difficoltà si è incontrata nella sensibilizzazione dei commercianti che faticano a seguire una formazione teorica ad un orario prestabilito. E’ stato ovviato a tale problema andando a fare formazione/sensibilizzazione nel loro locale, organizzando presso i bar e ristoranti eventi iniziative con le persone con demenza; ovviamente tale percorso è molto più dispendioso in termini di tempo, ma si è rivelato l’unico efficace per coinvolgere i commercianti.
Conclusioni
Se la città si chiude, la casa si chiude. E non protegge più, ma imprigiona. Combattere la solitudine vuol dire combattere lo stigma, l’abbandono, la marginalità e tutte le condizioni in cui la persona affetta da demenza e la famiglia si sentono estranee alla collettività.
Proprio mentre scrivevo questo articolo ho avuto modo di partecipare ad una serata nella quale persone della città amica si sono trovate per il gusto di stare insieme. Diverse persone malate hanno mangiato pizza e cantato oppure semplicemente battuto le mani con noi, operatori, impiegati, familiari, anziani, bambini, giovani, autisti, commesse. Un clima di festa “normale” senza distinzione di stato di salute o anagrafico (come dovrebbe sempre essere), impensabile appena qualche anno fa. E’ questa la rivoluzione del sociale, augurandosi che ogni città, comune, paese, frazione, borgo possa essere una Comunità amica della persona con demenza e che l’accoglienza e la comprensione diventino uno stile di vita per ognuno. Sentire una signora malata dire “che bello” o un familiare affermare che non andava a mangiare una pizza da 8 anni, beh, credo basti per spronarci nel continuare in questo Rinascimento del sociale che è già realtà.
Bibliografia
Augé M., (2019), Chi è dunque l’altro?, Verona, Raffaello Cortina