1 Settembre 2003 | Programmazione e governance

Le politiche legislative per la popolazione anziana fra stato, regioni ed enti locali

La complessità, i LEA, l’ADI

Introduzione

Le politiche legislative dello stato italiano per le persone anziane vanno collocate nel quadro delle tendenze socio-demografiche della popolazione: accrescimento quantitativo delle fasce d’età successive ai 60 anni; aumento dell’ aspettativa di vita; differenziazione delle forme di convivenza relazionale in rapporto al maggiore tempo disponibile per sè; necessità di adattarsi alle patologie croniche tipiche della vecchiaia; crescita esponenziale di patologie invalidanti come l’Alzheimer.

 

Negli anni ’50 il termine più usato per i programmi legislativi orientati al benessere (da cui l’inglesismo ormai entrato nel linguaggio comune di “Welfare State”) era quello di “sicurezza sociale” , che comprendeva sia la previdenza (tutela dei lavoratori e loro famiglie), sia l’assistenza (tutela dei cittadini in stato di bisogno). Oggi questa terminologia è entrata in disuso e tuttavia appare ancora molto appropriata per configurare le aspettative e gli obiettivi di un sistema di tutela per la fase di vita anziana: redditi di mantenimento sostitutivi del reddito di lavoro, tutela della salute in un periodo di sua progressiva compromissione; sostegni sociali sostitutivi delle reti familiari.

 

Le risorse economiche ed i servizi che diventano sempre più strategici per questa fascia di età possono essere classificati in tre categorie:

  • le pensioni, suddivise in diverse tipologie ed erogate dal sistema previdenziale
  • i servizi sanitari e socio-sanitari ad elevata integrazione, erogati dal Servizio Sanitario Nazionale attraverso la rete delle ASL (Aziende Sanitarie Locali), dei diversi tipi di Ospedali e delle RSA (Residenze socio assistenziali)
  • i servizi sociali, erogati dai comuni attraverso la pluralità delle forme di gestione che si sono andate definendo in particolare dagli anni Novanta

 

Si tratta di un insieme di attività professionali ed organizzative che sono continuamente attraversate da forti mutamenti normativi miranti ad adeguare le strutture ai bisogni. Nel Quadro n. 1 si indicano in forma sintetica i diversi settori delle politiche sociali che interessano gli anziani (Ferrario, 2001).

 

Legislazione per la popolazione anziana
Quadro 1 – Legislazione e popolazione anziana

 

1. Pensioni

A partire dalla fine del 1992 il sistema previdenziale italiano è stato attraversato da numerosi interventi correttivi. L’obiettivo di tali azioni è stato quello di riequilibrare, nel lungo periodo, l’evoluzione della spesa pensionistica rispetto al prodotto interno lordo, tentando di bilanciare gli effetti negativi dell’invecchiamento sul bilancio pubblico, dovuti alla diminuzione dell’occupazione ed al rallentamento della crescita economica. La “questione pensioni” è sempre al centro dell’agenda politica italiana (Fornero, 1994). Dal punto di vista della storia recente è opportuno ricordare le leggi di riforma del 1968-1975, che hanno realizzato un “patto previdenziale” tra le forze politiche e sindacali e la successiva incessante attività legislativa, tesa a modificare continuamente gli istituti previdenziali esistenti.

 

Una caratteristica di fondo del sistema pensionistico italiano consiste nel suo finanziamento basato sul modello della “ripartizione” (i contributi versati dai lavoratori non sono accantonati o “capitalizzati”), ma versati immediatamente ai pensionati. Un simile meccanismo finanziario resta in equilibrio solo fino a quando il gettito dei contributi copre le somme necessarie al pagamento delle pensioni. Ma nel corso del tempo si è aggravata la forbice fra le entrate e le uscite, determinando un’attenzione sulla gravità degli squilibri creatisi e sollecitando l’individuazione di azioni legislative correttive.

 

Uno fra gli aspetti di più evidente iniquità del sistema era costituito dalle pensioni di anzianità, introdotto nel 1965, come “misura temporanea” per favorire i processi di ristrutturazione industriale in un periodo di recessione. Sotto il profilo previdenziale, la pensione di anzianità consente ad un lavoratore di godere di una rendita dopo un certo periodo di versamenti contributivi, indipendentemente dall’età anagrafica. La conseguenza è che, a parità di contributi versati, i pensionati di anzianità godono di un “rendimento implicito” del proprio risparmio previdenziale nettamente superiore a quello ottenuto dai pensionati di vecchiaia (Boeri e Perotti, 1997).

 

Dagli anni Novanta si sono susseguite varie politiche legislative di correzione:

  • 1992-1994: il governo Amato promuove un primo riordino del sistema previdenziale dei lavoratori dipendenti privati e pubblici con gli obiettivi di: stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo; garantire trattamenti pensionistici omogenei; favorire la costituzione su base volontaria, collettiva o individuale di forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari
  • 1994 – 1995: il governo Berlusconi presenta una proposta non negoziata con i sindacati1 che, per il modo in cui viene proposto e per i suoi contenuti, provoca uno scontro sociale durissimo ed una successiva caduta di questo governo
  • 1995: nella stessa legislatura la riforma delle pensioni viene ripresa dal governo Dini.

 

Questa volta la negoziazione avviene anche con riferimento alle proposte dei sindacati (Accordo siglato l’8.5.1995), centrate sulla separazione tra spesa previdenziale e spesa assistenziale, sulla flessibilità dell’età pensionabile e su un calcolo della pensione legato all’intera vita lavorativa. Il compromesso finale tiene conto di queste indicazioni e introduce innovazioni di sostanza nel metodo di calcolo delle rendite pensionistiche con il passaggio da un sistema retributivo ad un sistema contributivo.

 

La conseguente riforma delle pensioni (Legge 335, 1995) tende alla creazione di un sistema previdenziale fondato su tre pilastri:

  1. sistema previdenziale pubblico, obbligatorio per tutti i lavoratori iscritti all’INPS – Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, o ad altro ente
  2. fondi pensione su base aziendali o di categoria, per dare una prima integrazione alla pensione di base
  3. contratti di assicurazione sulla vita per coloro che desiderano precostituirsi rendite ulteriori secondo le proprie necessità e disponibilità.

 

Con l’approvazione di questa legge la crisi della politica pensionistica trova una provvisoria soluzione e il dibattito, talvolta aspro, tra le forze politiche e sindacali si attenua, anche se ciclicamente tende a riproporsi. L’attuale Governo Berlusconi ha in agenda un’ulteriore riforma basata sui seguenti principi: obbligo di versare il Trattamento di fine rapporto (TFR) ai Fondi pensione; nuovi incentivi per dilazionare il pensionamento; riduzione dei contributi versati dalle imprese (di 3-5 punti rispetti all’ attuale 33 %) per i neoassunti che però avrebbero comunque diritto ad una pensione piena, grazie alla copertura dello stato. Più in generale la prospettiva che si è finora affermata è quella di un “sistema pensionistico misto” che integri flussi finanziari provenienti dal risparmio contributivo pubblico e da quello individuale, tenendo conto che solo l’8,7 % dei lavoratori coperti dal sistema previdenziale pubblico versa contributi ad un regime pensionistico integrativo (Il sole24Ore, 2003).

 

2. Servizi Sanitari e Progetti-Obiettivo

Con le riforme amministrative delle ASL (D.Lgs. 502, 1992a) sono stati introdotti alcuni principi di modifica sostanziale del modello organizzativo del Servizio sanitari nazionale, introdotto in Italia nel 1978 (Legge 833, 1978).

  • aziendalizzazione delle USL- (Unità sanitarie locali) e degli ospedali: la USL, da struttura operativa dei comuni, diventa azienda “con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale” disciplinata con “atto aziendale di diritto privato” (D.Lgs. 502, 1992b)
  • istituzione di centri di costo con la funzione di controllare e verificare i livelli di efficacia e di efficienza conseguiti dalle singole aziende, rendendo anche possibile analisi comparative dei costi dei rendimenti e dei risultati (D.Lgs. 502, 1992c)
  • introduzione del “finanziamento a prestazione” per regolare i rapporti fra le ASL e gli altri enti pubblici e privati cui può essere affidata l’erogazione di prestazioni sanitarie
  • introduzione degli strumenti amministrativi dell’accreditamento per finanziare l’erogazione dei servizi.

 

La regolazione dei rapporti fra Servizio Sanitario Nazionale e gli altri enti pubblici e privati cui può essere affidata l’erogazione dei servizi sanitari, avviene secondo i seguenti criteri:

  • L’Unità Sanitaria Locale assicura ai cittadini l’erogazione delle prestazioni specialistiche ivi comprese quelle riabilitative, di diagnostica strumentale e di laboratorio e ospedaliere contemplate dai livelli di assistenza secondo gli indirizzi della programmazione e le disposizioni regionali. Allo scopo si avvale dei propri presidi, nonché delle aziende e degli istituti ed enti, delle istituzioni sanitarie pubbliche, ivi compresi gli ospedali militari, o private, e dei professionisti. Con tali soggetti l’Unità Sanitaria Locale intrattiene appositi rapporti fondati sulla corresponsione di un corrispettivo predeterminato a fronte della prestazione resa (D.Lgs. 502, 1992d ).
  • I rapporti tra enti pubblici e soggetti privati sono regolati con le procedure amministrative dell’accreditamento sanitario che la Corte costituzionale ha così definito (Sent. C.C. 416, 1995):
  • L’accreditamento è un’operazione da parte di un’autorità o istituzione (nella specie Regione), con la quale si riconosce il possesso da parte di un soggetto o di un organismo di prescritti specifici requisiti (cosiddetti standard di qualificazione) e si risolve, come fattispecie, in iscrizione in elenco, da cui possono attingere per l’utilizzazione altri soggetti (assistiti – utenti delle prestazioni sanitarie).

 

Secondo queste definizioni e le successive applicazioni, si può sostenere che in Italia si è andata strutturando una procedura di “accreditamento istituzionale” scandita attraverso le seguenti fasi:

  • autorizzazione all’esercizio: verifica di requisiti minimi (D.P.R., 1997) e loro accertamento attraverso verifiche periodiche
  • accreditamento: accertamento da parte delle Regioni della funzionalità delle strutture autorizzate rispetto ai propri indirizzi programmatori e conseguente iscrizione nell’elenco dei potenziali “fornitori” di prestazioni sanitarie o socio-sanitarie
  • accordi contrattuali: in rapporto alle riconosciute condizioni di garanzia sulle capacità a fornire le prestazioni sanitarie, la Regione e le ASL selezionano i soggetti erogatori, anche attraverso valutazioni comparative della qualità e dei costi, e stipulano i conseguenti rapporti amministrativi

 

Entrando più nel dettaglio, la normativa del 1997 è basata sul principio che una struttura, per esercitare le sue attività, debba possedere una serie di requisiti minimi, indipendentemente dal fatto che sia successivamente accreditata. Fra le strutture interessate a queste formule amministrative ci sono le Residenze sanitario assistenziali – (RSA), che in tal modo entrano nei flussi di spesa del sistema sanitario, spostando così l’identità del servizio da quella della “casa di riposo”, (struttura per ospiti autosufficienti e/o parzialmente non autosufficienti, con la componente sociale assistenziale preponderante) a quella di una struttura sempre più caratterizzata per le componenti sanitarie e centrata su ospiti con gravi condizioni di non autosufficienza. La capacità ricettiva minima viene fissata in 20 posti letto e quella massima a 120. La struttura viene suddivisa in tipologie di aree distinguendo quelle destinate a: residenzialità; valutazione e terapie; socializzazione; generali di supporto.

 

Sotto il profilo organizzativo i requisiti per l’autorizzazione al funzionamento della RSA sono specificati sulla base dei seguenti indicatori:

  • valutazione multidimensionale, attraverso appositi strumenti validati
  • stesura di piani di assistenza individualizzati
  • controllo continuo delle attività di assistenza attraverso la raccolta ed elaborazione dei dati ricavati nelle valutazioni multidimensionali
  • coinvolgimento della famiglia dell’ospite
  • personale medico, infermieristico, di assistenza alla persona, di riabilitazione e di assistenza sociale adeguato alle dimensioni ed alle tipologie delle prestazioni erogate

Quest’insieme di regole è particolarmente incisivo per quanto riguarda le strutture residenziali per gli anziani, poiché questa rete di offerta solo in parte appartiene al sistema pubblico, ed è invece organizzata da un pluralismo di enti appartenenti al privato imprenditoriale e non profit.

 

La costruzione della rete di offerta è pertanto affidata ad una trama di relazioni interistituzionali, nelle quali sono cruciali i due seguenti processi organizzativi:

  • la capacità di organizzare il servizio secondo criteri di qualità, efficacia ed efficienza da parte degli enti pubblici, dei soggetti del terzo settore e dei soggetti privati
  • la conseguente necessaria e complementare capacità di controllare i requisiti di funzionamento ed operatività, sempre nella prospettiva dello sviluppo della qualità dell’offerta.

 

Alla definizione delle regole amministrative ed organizzative si sono accompagnati i processi di programmazione sanitaria che hanno attraversato varie fasi istituzionali:

  • prime esperienze di programmazione esclusivamente riservata agli ospedali (1968-1975)
  • modello di programmazione sanitaria complessiva adottata tramite atto del Parlamento (1978)
  • prima introduzione di standard organizzativi finalizzati alla riconversione degli ospedali italiani (1984 e 1991)
  • attribuzione al Governo dei compiti programmatori ed introduzione degli strumenti operativi: “Progetto Obiettivo”; “Azione programmata” (1985)
  • Progetto Obiettivo anziani (1992)
  • Atto di intesa Stato e Regioni e Piano sanitario nazionale 1994-1996
  • Piano sanitario nazionale 1998-2000
  • Piano sanitario 2003-2005

 

Il primo progetto obiettivo “Tutela della salute degli anziani” (1992) era stato preceduto da una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla dignità e condizione sociale dell’anziano istituita dal Senato della Repubblica e che si era conclusa con una relazione presentata il 27 luglio 1989. Occorre ancora ricordare che a quell’esito ha anche contribuito una incisiva azione dei sindacati pensionati, che avevano promosso una forte pressione sul governo per arrivare a quel risultato (Acc. Min San., 1991).

 

I principali orientamenti programmatici del progetto obiettivo anziani si possono riassumere nei seguenti punti:

  • obiettivi: integrazione dei servizi socio-assistenziali e sanitari per una risposta unitaria e globale; attività di prevenzione per i futuri anziani a partire dal 50° anno di età; promozione di azioni orientate a favorire la permanenza degli anziani in famiglia; individuazione di priorità per gli anziani non autosufficienti, e tra questi, per gli anziani con deterioramento mentale
  • sviluppo dell’offerta di servizi: istituzione delle Unità di valutazione geriatrica (UVG), con funzione di valutazione delle condizioni dell’anziano per l’accesso alla rete dei servizi, in almeno tutte le ASL dove esiste una Divisione Ospedaliera di Geriatria e, in via sperimentale, in alcune ASL nel territorio; attivazione di servizi di assistenza domiciliare integrata (Adi) per l’erogazione di prestazioni sociali, infermieristiche e mediche a domicilio; attivazione, in via sperimentale, di programmi di ospedalizzazione a domicilio; realizzazione delle RSA, attraverso le risorse della legge finanziaria del 1988; istituzione di un dipartimento geriatrico all’interno del quale le unità di valutazione geriatria (UVG) dovrebbero garantire una funzione di orientamento del paziente anziano sulla base della preliminare valutazione multidimensionale; attivazione di servizi di assistenza domiciliare integrata per almeno il 2% degli ultrasessantacinquenni non ospitati in RSA; ospedalizzazione domiciliare sperimentale per il 10% dei casi con diagnosi di ospedalizzazione per 46.000 casi/anno; realizzazione di posti letto in strutture residenziali per il 6% degli anni ultra sessantacinquenni, con il 2% garantito dalle RSA; realizzazione di 30.000 posti residenziali distinti in: 60% per non autosufficienti; 25% per parzialmente autosufficienti; 15% per autosufficienti ad alto rischio di invalidità; copertura di parte del fabbisogno di RSA attraverso il ricorso al privato convenzionato per un totale di 10.000 posti residenziali.

 

All’interno di questo progetto obiettivo le RSA si configurano quali strutture residenziali di base facenti parte del Servizio Sanitario Nazionale e dedicate all’assistenza dell’anziano in situazione di elevata fragilità, che non trovi adeguate risposte ai propri bisogni nell’assistenza domiciliare integrata e nell’intervento ospedaliero.

 

Il Piano sanitario nazionale 1994-1996 ha, successivamente, recepito il Progetto Obiettivo del 1992 affermando il principio che “scopo precipuo dell’assistenza all’anziano è il mantenimento e il recupero dell’autosufficienza, la cui perdita, secondo la classificazione IDH dell’ OMS (1980), è dovuta alla compromissione concomitante di più fattori, quali il deficit organico, il disagio psico-affettivo e lo svantaggio sociale”. Si richiama anche l’attenzione per le patologie invalidanti e cronico-degenerative e tra i “livelli uniformi di assistenza” si inserisce un livello di “assistenza sanitaria residenziale a non autosufficienti e lungodegenti stabilizzati”, mentre nel “livello di assistenza specialistica semiresidenziale” vengono ricompresse le prestazioni ambulatoriali e di assistenza diurna.

 

Un ulteriore passaggio legislativo è rappresentato dal Piano Sanitario Nazionale 1998/2000, che contiene anche la previsione per un successivo progetto obiettivo anziani. Il Piano è stato proposto come un “Patto di solidarietà” cui sono chiamati ad essere protagonisti: i cittadini, gli operatori, le istituzioni, il volontariato, i produttori, il mondo della comunicazione e la Comunità Internazionale.

 

Scopo fondamentale del PSN 1998-2000 è introdurre condizioni di maggiore equità nell’erogazione dei servizi, avendo presenti i seguenti obiettivi di carattere generale:

  • promuovere il mantenimento ed il recupero dell’autosufficienza degli anziani
  • adottare politiche di supporto alle famiglie con anziani bisognosi di assistenza a domicilio (anche a tutela della salute della donna, sulla quale ricade nella maggior parte dei casi l’onere dell’assistenza)
  • promuovere l’assistenza continuativa ed integrata intra ed extraospedaliera a favore degli anziani
  • favorire l’integrazione interna al sistema sanitario e con l’assistenza sociale
  • migliorare l’assistenza erogata alle persone che affrontano la fase terminale della vita, attraverso le seguenti azioni: potenziamento dell’assistenza medica e infermieristica al domicilio, erogazione di assistenza farmaceutica al domicilio tramite le farmacie ospedaliere, potenziamento degli interventi di terapia antalgica, sostegno psico-sociale al malato e ai suoi famigliari, promozione e coordinamento del volontariato di assistenza ai malati terminali.

 

In sintesi, il PSN 1998-2000 ripropone l’UVG territoriale già introdotta dal Progetto Obiettivo Anziani del 1992 allo scopo di garantire: un’integrazione gestionale (traduzione sul piano operativo delle scelte di carattere politico effettuate con l’integrazione istituzionale), e un’integrazione professionale. Non viene esplicitamente espressa la figura del case-manager all’interno o a supporto dell’UVG, anche se l’esercizio di questo ruolo appare indubbiamente essenziale per garantire la gestione dei processi di aiuto dal momento dell’insorgenza del bisogno e della domanda, fino alla utilizzazione dei vari nodi disponibili nella rete dei servizi territoriali.

 

L’ultimo Piano Sanitario Nazionale 2003-2005, riproponendo il problema della crescita della cronicità, mira a “tentare di combinare interventi di trasferimento monetario alle famiglie con l’erogazione di servizi finali, allo scopo di sostenere il lavoro familiare ed informale di cura” . Gli obiettivi sono così definiti (PSN, 2003-2005):

  • regolare e stimolare la pluralità dell’offerta dei servizi, introducendo meccanismi competitivi fra le varie istituzioni (pubbliche e private)
  • sostenere le famiglie che si occupano dell’assistenza
  • sperimentare nuove modalità di organizzazione dei servizi, facendo ricorso a collaborazioni con i privati
  • attivare sistemi di garanzia della qualità e controlli sugli erogatori dei servizi.

 

3. Servizi sociali comunali e l’integrazione socio sanitaria

Il ruolo dei comuni e le attribuzioni in materia assistenziale si sono andate sempre più ampliando nel corso del tempo, con una particolare accelerazione a partire dagli anni Settanta fino alla recente legge sui servizi sociali (L. 328(a), 2000).

Questa riforma va collocata nel quadro degli intensi cambiamenti che sono stati introdotti nell’amministrazione pubblica italiana durante gli anni ’90:

  • nuova regolazione normativa dei Comuni (L. 142, 1990)
  • mutati rapporti Stato – Regioni (D.Lgs., 1998)
  • crescita di ruolo dei soggetti del “terzo settore” (L. 381, 1991)
  • orientamento alla qualità, tramite le Carte dei servizi (Dir. Pres.Cons. Min, 1994).

 

 

Un importante principio generale della legge di riforma che riguarda anche la popolazione anziana è il riconoscimento del diritto soggettivo a fruire di “livelli essenziali e omogenei di prestazioni”. Un altro è quello della sussidiarietà, intesa come orientamento di politica sociale che valorizza la partecipazione di tutti i soggetti istituzionali e sociali alla produzione dei servizi alla persona: la famiglia in primo luogo, se in grado di intervenire; la comunità locale, se capace di esprimere azioni solidaristiche; il comune quale ente locale rappresentativo degli interessi dei cittadini che lo abitano; la provincia quale ente intermedio; la regione quale ente che oggi possiede un potere legislativo autonomo anche rispetto a quello dello Stato.

 

Per quanto riguarda il sistema degli interventi e lo sviluppo della rete di protezione per gli anziani, è di particolare rilievo progettuale ed organizzativo l’identificazione delle prestazioni che dovranno essere realizzate negli ambiti territoriali di azione dei comuni:

  • servizio sociale professionale e segretariato sociale con funzioni di informazione e consulenza
  • il servizio di pronto intervento sociale
  • l’assistenza domiciliare
  • le strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociale
  • i centri di accoglienza residenziale o diurni a carattere comunitario

La legge definisce anche un ambito di livelli minimi essenziali in materia di erogazioni economiche: infatti lo stanziamento complessivo del fondo per le politiche sociali (da cui dipende la determinazione dei livelli essenziali) deve comunque garantire la copertura delle prestazioni relative all’invalidità civile, cecità e sordomutismo (L. 328(b), 2000).

 

Di particolare significato per le politiche sociali rivolte alle persone in situazione di fragilità sono le prestazioni rivolte specificatamente a tre tipologie di utenza:

  • disabilità (L. 328(c), 2000). si prevede la possibilità di accedere a progetti individuali di inserimento scolastico, lavorativo e/o famigliare, realizzato attraverso intese tra i comuni e l’azienda sanitaria
  • anziani in situazione di non autosufficienza (L. 328(d), 2000): viene riservata una quota di Fondo Nazionale per le politiche sociali allo scopo di sostenere il nucleo nell’assistenza domiciliare. Una quota dei finanziamenti è riservata al potenziamento dell’integrazione socio-sanitaria, con particolare riferimento all’assistenza domiciliare integrata
  • la famiglia: per la valorizzazione e sostegno delle responsabilità famigliari (L. 328(e), 2000) si prevede l’erogazione di assegni o di altre prestazioni economiche, atte a favorire i compiti di cura e di accoglienza della famiglia; la messa a punto di politiche conciliative tra tempi di lavoro e tempi di cura; la realizzazione di servizi formativi e informativi a sostegno dei compiti educativi della famiglia.

 

L’insieme delle prestazioni erogabili dal sistema dei servizi sociali può essere offerto dai comuni secondo varie modalità amministrative ed organizzative:

  • gestione diretta: cioè mediante propri servizi
  • gestione mediante contratti di appalto: cioè attraverso l’affidamento di attività a soggetti erogatori esterni
  • gestione mediante accreditamento: cioè un procedimento di riconoscimento del valore professionale ed organizzativo dei soggetti erogatori esterni
  • attraverso la concessione di “titoli validi per l’acquisto di servizi sociali” (i cosiddetti buoni servizi) purchè vengano organizzati e utilizzati “nell’ambito di un percorso assistenziale attivo per l’integrazione o la reintegrazione dei soggetti beneficiari” (L. 328(f), 2000).

 

Poiché il sistema normativo italiano ha nettamente distinto i titolari dei servizi sanitari (Regioni e ASL) dai titolari dei servizi sociali (i Comuni) il problema del finanziamento dei servizi ad elevata integrazione diventa cruciale. La questione è stata ripresa attraverso un atto di indirizzo e coordinamento sull’integrazione fra i due sistemi (D.P. Cons. Min., 2001). Il provvedimento mira a favorire, esclusivamente sotto il profilo dei flussi di spesa, le connessioni fra l’area sanitaria e quella socio-assistenziale. Il contenuto delle prestazioni socio-sanitarie è così individuato: “attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire anche nel lungo periodo la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione”.

 

In base a questo tentativo di identificazione la normativa distingue:

  • le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale: attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento degli esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite
  • le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria: attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute
  • le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria: caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria (nell’area materno-infantile; anziani; handicap; patologie psichiatriche; dipendenze da droga; alcool o farmaci; patologie per infezioni da HIV; patologie in fase terminale; inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative)

 

Le prestazioni socio-sanitarie sono definite in base a vari criteri: la natura del bisogno (funzioni psico-fisiche; attività del soggetto e relative limitazioni; partecipazione alla vita sociale; contesti ambientali e famigliari); complessità dell’intervento assistenziale (composizione dei fattori produttivi e professionali impiegati; loro articolazione nel progetto personalizzato); intensità e durata dell’intervento assistenziale. L’esplicitazione dei criteri e le conseguenze relative ai tipi di prestazione hanno l’obiettivo di attribuire il costo o sui fondi sanitari o su quelli sociali. In particolare le “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” diventano di competenza dei comuni; le “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” sono di competenza delle ASL e a carico delle stesse; le “prestazioni socio-sanitarie a elevata integrazione” sono erogate dalle ASL e quindi a carico del fondo sanitario.

 

Questa complessa architettura, condizionata dai vincoli di spesa, si conclude con l’elaborazione di alcune tabelle (per le aree: materno-infantile; disabili; dipendenze da droga alcool e farmaci; patologie psichiatriche; patologie da HIV; anziani e persone non autosufficienti con patologie cronico-degenerative) che mettono in evidenza l’imputazione dei costi. Emerge un modello socio-sanitario, in parte delineato a livello nazionale ma da applicare concretamente nelle singole regioni, finalizzato a presidiare le crescenti dinamiche di costo attraverso un tentativo di distribuirne i carichi. E’ evidente che il nodo critico è rappresentato dalla spesa sanitaria. Infatti una volta definiti le prestazioni a carico di questo sistema, ne derivano di conseguenza i carichi finanziari sulle famiglie o (nei casi insufficienza di reddito) sugli enti locali.

 

4. Residenze Sanitario Assistenziali (RSA) e servizi domiciliari

Il programma legislativo riguardante le Residenze sanitario assistenziali va inquadrato nell’ambito della legge finanziaria del 1988 (L.67, 1998) , che definiva l’obiettivo di realizzare 140.000 posti in struttura residenziale per anziani non assistibili a domicilio. La previsione era di ricavare tali strutture attraverso la riconversione di aree e spazi derivanti dalla modifica funzionale di alcuni ospedali. Obiettivo esplicito di questa azione programmatoria era pertanto quello di ridurre progressivamente i posti letto ospedalieri, ed in particolare l’ospitalità prolungata nei reparti ospedalieri, per costituire un sistema socio-sanitario parallelo basato sulla rete di RSA da finanziare attraverso la combinazione di tre flussi economici: i redditi delle famiglie, la finanza locale, il fondo sanitario. Successivamente a quella legge sono state introdotte nell’ordinamento le regole edilizie generali riguardanti il settore delle RSA (D.P.C.M., 1989).

 

Già in questa prima fase dello sviluppo delle RSA appare chiaramente l’obiettivo di costruire una rete di residenze caratterizzate dalla lungo-degenza, soprattutto al fine di ridurre una parte del carico assistenziale sugli ospedali, favorendone così la loro vocazione di centri per l’attività diagnostica e terapeutica in fase acuta. Va anche osservato che in questi provvedimenti la principale attenzione è dedicata agli standard strutturali, ossia agli aspetti ambientali caratteristici per le strutture dedicate ad una residenzialità protratta. Scarsa attenzione è data, all’opposto, agli standard gestionali, ossia alla cruciale questione del personale sanitario, infermieristico, assistenziale, riabilitativo, psico-sociale e di animazione, che invece sono importantissimi per la qualità dei servizi erogati.

 

Questi aspetti sono stati di fatto demandati alle regioni, alcune delle quali hanno provveduto ad elaborare specifiche politiche in ordine a: requisiti del personale, distinti per qualifica professionale; formazione di base e la riqualificazione, con particolare riferimento alla figura degli operatori assistenziali per la cura della persona (definiti in vari modi nelle specifiche normative regionali: ausiliari socio-assistenziali; addetti all’assistenza; assistente domiciliare e dei servizi tutelari).

 

Dopo la normativa del 1989, sono stati successivamente elaborati altri numerosi atti di indirizzo nazionale (norme di legge, circolari, linee-guida) che hanno precisato ancora più diffusamente le caratteristiche tipologiche, strutturali e funzionali delle RSA. Fra questi si ricordano:

  • le linee-guida “Indirizzi sugli aspetti organizzativi e gestionali delle residenze  sanitarie assistenziali” (Min. San, 1994), che inquadrano le RSA nella rete dei servizi territoriali di primo livello e che ne ridefiniscono alcuni aspetti organizzativo gestionali, 1994
  • i criteri generali per la fissazione delle tariffe di assistenza specialistica, riabilitativa, ospedaliera e di assistenza residenziale extra-ospedaliera (D.M. S, 1994), 1994
  • la seconda fase del Programma straordinario di investimento per la riconversione ospedaliera e lo sviluppo delle RSA(L. 21, 1997)
  • le linee- guida per l’erogazione (Min. San, 1998) di interventi di riabilitazione estensiva o intermedia anche presso le RSA, 1998
  • il piano sanitario nazionale 1998-2000 che colloca le RSA all’interno dell’assistenza distrettuale quali strutture operative di servizio necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di assistenza continuativa ed integrata a favore degli anziani, 1998
  • la terza riforma amministrativa delle ASL e la riforma dei servizi sociali, che ribadiscono la necessità di attivare strutture residenziali ad elevata integrazione socio-sanitaria per le persone non assistibili a domicilio all’interno di ambiti territoriali individuati dalle regioni e di norma coincidenti con i distretti sanitari(D. lgs 299, 1999; L. 328(g), 2000).

 

E’ opportuno sottolineare gli ulteriori caratteri funzionali assegnati dalla legislazione a queste particolari strutture extra-ospedaliere. Nel 1997 (D.P.R., 1997) le RSA sono ridefinite come: “presidi che offrono a soggetti non autosufficienti, anziani e non, con esiti di patologie fisiche, psichiche, sensoriali o miste, non curabili al domicilio, un livello medio di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa, accompagnata da un livello “alto” di assistenza tutelare ed alberghiera”. Ancora secondo questa normativa, le RSA dovrebbero prevedere “ospitalità permanente di sollievo alla famiglia non superiore ai 30 giorni, di completamento di cicli riabilitativi eventualmente iniziati in altri presidi del Servizio Sanitario Nazionale”.

 

L’attivazione della politica di sviluppo delle RSA è leggibile soprattutto in relazione alle seguenti scelte (Taccani et al. 1997; rebba, 2000; Trabucchi et al., 2002):

  • riportare l’ospedale alla sua prevalente missione di fornire assistenza sanitaria in fase acuta
  • trasferire le funzioni di assistenza di tipo riabilitativo e di lungodegenza ad altre tipologie di servizio residenziale solo parzialmente facenti parte del settore sanitario, coinvolgendo in tal modo nel concorso al costo sia gli enti locali (fondi sociali) sia i redditi delle famiglie

 

In questa operazione (non ancora generalizzata sul territorio nazionale) è comunque ravvisabile un orientamento importante sul piano dell’organizzazione del servizio. In queste residenze le direzioni e gli operatori socio-sanitari sono impegnati a rendere possibile condizioni di maggior attenzione alla qualità della vita dell’anziano. In tali strutture, infatti, obiettivi importanti non sono solo quelli sanitari, ma anche altri, fra cui l’attenzione relazionale, lo sviluppo di attività di animazione e di sostegno psicologico, il tentativo di riallacciare rapporti con le famiglie di appartenenza, i gusti alimentari, le caratteristiche ambientali, ecc(Ferrario et al., 2002).

 

I riferimenti normativi del circuito organizzativo dei servizi domiciliari vanno ricercati, oltre che nelle leggi regionali in quella sull’handicap (L. 266, 1991; L. 104, 1992). Quest’ultima, infatti, contiene affermazioni importanti per la valorizzazione della domiciliarità:

  • principi (art. 1): pieno rispetto della dignità umana e diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata; piena integrazione nella famiglia; prevenzione delle forme invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana; raggiungimento della massima autonomia
  • obiettivi (art. 5 e 7): mantenere la persona handicappata nell’ambiente familiare; assicurare la collaborazione della famiglia, della comunità e della persona handicappata nella scelta e attuazione degli interventi; garantire servizi di aiuto personale o familiare, strumenti e sussidi tecnici; promuovere, anche attraverso l’apporto di enti ed associazioni, iniziative per la prevenzione, cura, riabilitazione e inserimento sociale; garantire il diritto di scelta dei servizi; promuovere il superamento di ogni forma di emarginazione e di esclusione sociale; effettuare interventi di cura e riabilitazione a domicilio
  • strumenti per l’integrazione (art. 8): interventi di carattere socio-psico-pedagogico, di assistenza sociosanitaria a domicilio, di aiuto domestico e di tipo economico; interventi per assicurare il diritto di accesso agli edifici pubblici e privati; organizzazione e sostegno di comunità alloggio, case-famiglia e servizi residenziali inseriti nei centri abitati

 

Un altro significativo riferimento è contenuto nel Piano sanitario nazionale 1994-1996, dove viene affermato che: “gli anziani ammalati, compresi quelli colpiti da cronicità e da non autosufficienza, devono essere curati senza limiti di durata nelle sedi più opportune, ricordando che la valorizzazione del domicilio come luogo primario delle cure costituisce non solo una scelta umanamente significativa, ma soprattutto una modalità terapeutica spesso irrinunciabile”.  Infine è da richiamare l’introduzione dei programmi di ADI – Assistenza domiciliare integrata, affidati al comparto sanitario (Rebba, 2001). L’ADI si configura come un sistema integrato di interventi domiciliari, di natura sanitaria e socio-assistenziale, a favore di persone che necessitano di un’assistenza continuativa, per consentire loro di rimanere nel proprio ambiente, evitare il ricovero, garantire un soddisfacente livello di qualità di vita.

 

L’ADI dovrebbe essere orientata a rendere disponibile:

  • prestazioni sanitarie: assistenza di medicina generale; consulenza medico-specialistica; assistenza infermieristica;  assistenza riabilitativa e di recupero funzionale; fornitura di ausili e presidi sanitari; prelievi per esami clinici
  • prestazioni socio-assistenziali: aiuto domestico; igiene della persona; consegna di pasti caldi; servizio di lavanderia; collegamento con altri servizi sociali; effettuazione di pratiche amministrative; utilizzo del telesoccorso.

 

Conclusioni

In Italia non c’è una legge – quadro sui servizi rivolti alle persone anziane. Tuttavia il sistema normativo è individuabile facendo riferimento alle diverse diverse aree problematiche che strutturano questo periodo della vita: reddito; salute, supporto relazionale. Nello sviluppo dei servizi socio-sanitari sono cresciuti in quantità ed anche in qualità due tipologie di offerta: le RSA, con funzioni intermedie fra gli ospedali e per acuti e gli altri servizi territoriali, ed i servizi domiciliari a diversa intensità assistenziale. Inoltre la regolazione di tutto il sistema di offerta tende a spostarsi verso le regioni e gli enti locali.

 

In tale quadro di tendenziale frammentazione delle politiche e delle modalità organizzative si accrescono le responsabilità dello stato sull’obiettivo di garantire i diritti essenziali di cittadinanza.

Note

  1. Punti chiave: l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne viene anticipata al 2000; il coefficiente di ricalcolo viene abbassato all’1,75% a partire dal 1996, con possibili ulteriori abbassamenti; possibilità di andare in pensione dopo 35 anni di contributi, ma con una penalizzazione del 3% dell’importo pensionistico per ogni anno che manca al compimento dell’età; annullamento della scala mobile per le pensioni del 1995 e, dal 1996, agganciamento all’inflazione programmata.

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