In questo numero della rivista è pubblicato un dossier sul documento LEA che riguarda gli anziani. Il lettore troverà una spiegazione esauriente sui contenuti di un testo di grande importanza teorica e pratica nel nostro campo; in queste righe mi limito a trarre alcune considerazioni strategiche, perché i documenti predisposti rappresentano un punto di partenza per una serie di ricadute e di progetti ai quali non possiamo restare estranei.
Un primo aspetto consiste nella definizione della non autosufficienza dell’anziano come obiettivo primario degli interventi. È essenziale che la geriatria dia un contributo per evitare caratterizzazioni generiche, soprattutto quelle che mirano a negare la specificità della condizione delle persone anziane. A noi sembrano ovvietà, ma nel dibattito politico si trovano ancora residui di posizioni che negano il rapporto tra malattie e disabilità e quindi una peculiarità indiscussa della condizione clinica dell’anziano. Contigua a questa problematica vi è quella degli strumenti di valutazione; non senza imbarazzo dobbiamo ammettere che è stato impossibile definire uno strumento adottabile in tutte le regioni. Pur comprendendo i motivi storico-psicologici di queste difformità, non possiamo accettare che in nome della comune “scienza” geriatrica non si possano trovare punti di incontro. Tra i danni che queste differenze provocano vi è anche quello di rendere difficile una raccolta di dati a livello nazionale, che permetta una realistica programmazione della risposta al bisogno. Su questo tema la geriatria italiana deve gratitudine a Enrico Brizioli che nel progetto “Mattoni” si è speso con coraggio e intelligenza per arrivare ad una proposta unitaria.
Un secondo aspetto riguarda la dotazione di servizi a livello nazionale. Come indicato negli articoli, vi sono enormi, inaccettabili differenze tra le regioni, ma soprattutto un forte gradiente nord-sud. Se fino a qualche tempo fa le differenze potevano essere giustificate dalla struttura della famiglia, più compatta e capace di assistenza nelle regioni meridionali, oggi questa giustificazione è meno valida. Cosa si può fare? Come convincere la politica dell’importanza dei servizi per le persone anziane fragili? Siamo sicuri che da parte nostra (cioè la Sigg nelle diverse articolazioni regionali) non sia mancata un’adeguata azione di sollecito? Per quanto riguarda il rapporto tra l’assistenza domiciliare nelle sue varie forme e l’assistenza residenziale abbiamo saputo dare indicazioni precise al programmatore? Quanti di noi si sono lasciati impressionare dalle esigenze delle case di riposo (nelle varie espressioni),dimenticando che il luogo primario della vita della persona anziana è la sua casa? Confrontando i dati italiani con quelli di molte realtà europee si nota non solo un’offerta limitata in senso assoluto, ma anche una scarsa chiarezza nell’allocazione degli anziani nei servizi. Abbiamo largamente utilizzato il termine appropriatezza, ma nei nostri ambiti manca la modellistica di fondo sulla quale poter costruire un sistema equilibrato, efficace e a costi controllati. Si pensi, a questo proposito, anche ai servizi di riabilitazione dell’anziano e alla confusione che ancora domina il settore rispetto all’area della postacuzie. Questa fase dell’assistenza è un misto di convalescenza e di riabilitazione; separare i due elementi è difficile. Di conseguenza sono state proposte soluzioni tra loro molto diverse e non sempre razionali.
Un altro aspetto riguarda l’esigenza sempre più sentita di arrivare rapidamente ad una definizione dei risultati che la rete dei servizi per l’anziano riesce a raggiungere. L’autorefenzialità che ha caratterizzato quest’area per molti anni ha impedito una sua valorizzazione, ma soprattutto ha impedito una seria programmazione dei vari segmenti, perché non sapendo a cosa servono è difficile definirne il fabbisogno. Fortunatamente sono sempre più numerosi gli studi e le sperimentazioni che contribuiscono a sottrarre quest’area al pessimismo per il quale le malattie croniche non possono essere modificate da interventi di cura. Si dovrà arrivare, in un futuro non lontano, a definire una remunerazione dei servizi in base al risultato ottenuto, indipendentemente dagli strumenti utilizzati. Solo in questo modo ci si potrà sottrarre al dominio della burocrazia da una parte, e ad atteggiamenti parafraudolenti dall’altra. Sarà una strada lunga, con molti nemici, ma chi mette la condizione dell’anziano come obiettivo primario del proprio lavoro non può non concordare.
In questa logica incentrata sul risultato potrebbe trovare posto anche la sperimentazione di organizzazioni low cost dei servizi. Quanto del risultato è rinunciabile in cambio di una maggiore diffusione dei servizi stessi? Ovviamente si tratta di discussioni di grande delicatezza, ma in tempi di restrizioni economiche dobbiamo – proprio come operatori in prima linea – avere il coraggio di affrontare i problemi per essere pronti a proporre ai politici ed ai programmatori soluzioni che rispettino la dignità e la libertà delle persone anziane ammalate. E chi meglio dei medici e degli altri operatori geriatrici è in grado di definire e di rilevare queste condizioni? Molti altri sono i problemi attorno ad un’organizzazione moderna dei servizi all’anziano.
Il merito della commissione Lea è stato quello di averli portati all’attenzione della comunità scientifica, oltre che dei responsabili nazionali e regionali. Speriamo che le indicazioni vengano colte, si apra un dibattito impegnativo e si arrivi presto a soluzioni rilevanti. Il punto cruciale è sempre lo stesso: a quanto i diversi punti di vista culturali, professionali, politici sanno rinunciare delle proprie posizioni di fronte ad un bisogno sempre più pressante e variegato? Ciascuno deve fare la sua parte, anche noi geriatri.