20 Maggio 2020 | Programmazione e governance

Domiciliarità: richiedere più fondi non basta. Serve un Distretto forte per nuove idee, programmi innovativi, risposte coerenti con i bisogni

Inserendosi nel dibattito sollevato dall’editoriale di Cristiano Gori e Marco Trabucchi (Taccuino n. 5), gli autori sottolineano che solamente nuove idee e piani innovativi, associati all’aumento delle risorse per le cure domiciliari, potranno soddisfare molti dei bisogni ancora scoperti. Il Distretto viene proposto come struttura operativa territoriale più idonea a costruire “un sistema territorio” con cardine nella home care, anche giovandosi delle tecnologie/ICT, per favorire migliore presa in carico, continuità di cura, congiunzione con le cure residenziali e le cure domiciliari informali.


Cristiano Gori e Marco Trabucchi nel loro Taccuino del quindici maggio su “Domiciliarità: richiedere più fondi non basta” aprono un dibattito in cui proviamo ad inserirci, quali rappresentanti di una Società Scientifica delle Attività Territoriali (CARD) che da molti anni ha fatto della home care una propria bandiera.

 

Vediamo anche noi come favorevoli, per rilanciare il settore delle cure a domicilio, l’interesse sul tema e la concreta possibilità di nuovi finanziamenti, due fattori che fino ad oggi hanno frenato il decollo delle cure domiciliari istituzionali. Ci sembra tuttavia pertinente aggiungerne altri due:

  1. la mancanza di certezze del quadro organizzativo in cui le cure a casa vengono inserite;
  2. la debole domanda di questo servizio, sia da parte dei professionisti che della cittadinanza.

 

Le incertezze dell’attuale quadro organizzativo per le cure domiciliari

I due Autori ricordano molto puntualmente che ADI e SAD costituiscono attualmente le due principali forme di assistenza domiciliare istituzionale presenti nei nostri territori.

 

L’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) è per lo più interpretata come pratica da affidare ai MMG ed in cui la “I” non si riferisce all’integrazione con la parte socioassistenziale (assistenza integrata “doc”) ma all’eventuale compresenza degli infermieri, che non in tutti i territori hanno consistenze quali/quantitative tali da creare servizi domiciliari affidabili, credibili. In questa ADI a centralità sanitaria, sia i MMG sia gli infermieri sono incoraggiati dalle Aziende Sanitarie a comportamenti prestazionali, monitorati per questo con indicatori che poco fanno capire i loro reali impatti. Incerta poi è la collocazione delle responsabilità del servizio: talora è posto in capo a Distretti, talora ai Dipartimenti (aut similia), in modo molto variegato. Globalmente, questo segmento di assistenza domiciliare costituisce attività aziendale residuale, in termini di assorbimento di risorse e fattori produttivi di una ASL (circa 1-2% dei bilanci). Ovvia la scarsa energia e forza conseguente, e pertanto simmetrica la domanda, che resta debole ed incerta. Ancora, questa “magrezza” dell’ADI si accompagna ad una generale fragilità dei Distretti, spesso con risorse calanti negli ultimi anni; da qui le debolezze da un lato della home care e, dall’altro, delle attività “territoriali” nel loro insieme. Eppure, oggi ci si è accorti che “senza territorio” non si raggiungono i successi attesi.

 

Rispetto alla home care, occorre sottolineare la minoranza delle realtà territoriali (leggi: distrettuali) che riescono ad impegnarsi con qualche fondamento (risorse, mandati, supporto) per elevare sia il grado di copertura della popolazione assistita a domicilio (anche ora usato dal Ministero come unico obiettivo di performance), sia i livelli di intensità di cura, personalizzati, verso l’alta intensità e complessità, con il traguardo obbligatorio dell’apertura h 24, 7 giorni su 7; la crescita delle azioni integrate multi-disciplinari-professionali, necessarie per i bisogni complessi, quindi con più integrazione verticale (intrasanitaria, tra cure generaliste/primarie e specialistiche, al plurale perché la comorbidità oggi è regola più che eccezione) ed orizzontale (quantomeno sociosanitaria, se non intersettoriale, dato che “le disgrazie sociali accompagnano quasi sempre quelle sanitarie”).

 

Norme, fatti, letteratura scientifica indicano che un’organizzazione di servizio territoriale con capacità di “regia-governo” unitario conferisce maggiore efficienza e genera migliori risultati. I Distretti “forti” nel Paese hanno già mostrato di essere lo strumento “giusto” per questi giusti scopi, per azioni appropriate nel territorio, rendendo plausibile l’equazione sanità del territorio=distretto e viceversa. Le invocazioni al rafforzamento del “territorio” proclamato anche ora indispensabile per rendere solido il SSN/SSR raramente hanno portato alla valorizzazione coerente dei Distretti, interpretati in modo fantasioso nelle varie Regioni e addirittura all’interno delle stesse. Interpretazioni variegate che hanno impedito lo sviluppo di una omogenea e stabile identità di sanità territoriale, di cure domiciliari. Raramente il “distretto” infatti è facilmente identificato, associato come portatore di “cure domiciliari”, mentre rimane prevalente, ma monca e parziale, l’equivalenza tra assistenza domiciliare e MMG.

 

Il SAD resta confinato nel suo “Mondo sociale” e quindi siamo così fermi ai silos, alla frammentazione, perdendosi la possibilità di creare un’offerta di servizio essenziale continuativo (h 24, 7 giorni su 7), unitario, capace di esprimersi anche nell’alta intensità e complessità di cura, ovvero di una presa in carico globale ad elevata capacità di relazione empatica (da cui la preferenza di parlare di home care, termine omnicomprensivo), elemento fortemente richiesto dagli utenti e dichiarato da loro come primo difetto.

 

La mancanza della domanda di cure domiciliari

Questo secondo elemento è forse ancora più incidente. In sanità nascita e crescita di un servizio dipendono dalla domanda dei cittadini o, più spesso, dei professionisti, non sempre sorretta da bisogni oggettivi. La mancata convinta domanda di home care è provata dalla scarse notizie di pressioni dell’opinione pubblica nel richiederle, né ci risultano ferme prese di posizione dei cittadini sul mancato soddisfacimento di questo fondamentale LEA, aspetto troppo spesso negletto: siamo nel campo dei diritti, non delle preferenze. A ciò si aggiunge l’“ignoranza” (nel vero senso di ignorare la questione) di moltissimi medici – più avanzati sono gli infermieri – a considerare la home care quale opzione assistenziale vantaggiosa per i loro programmi di continuità, da richiedere (del resto, ammettiamolo: spesso non sanno a chi chiederle!) come potenziale valida alternativa ad altri setting di cura tradizionali (ricovero in ospedale, residenza). Per entrambi, cittadini e professionisti, (salvo lodevoli eccezioni di alcuni territori-Distretti) il circolo vizioso “difficile accesso- scarsa offerta-scarsa qualità- scarsa convinzione di utilità o affidabilità- scarso interesse – debole domanda ” perpetua disinteresse o disaffezione verso la home care.

 

Oggi la domanda di home care sorge sulla scia dell’emergenza Coronavirus. Occorre essere consapevoli che rifondarla e rilanciarla in questa prospettiva di cura dell’acuzie (COVID) la allontana dalla sua caratteristica “naturale” di servizio proprio invece della Long-Term Care. Sono fondati i timori che si consolidi la tradizionale visione, molto limitante, di iniziativa volta ad “alleggerire l’ospedale”, rafforzando prospettive ospedalocentriche.

 

Abbiamo invece bisogno di:

  1. spostamento del baricentro sulla community care;
  2. chiarimento dei mezzi con cui essa si possa sviluppare e di chi su essa debba ricevere chiari mandati, obiettivi, risultati attesi.

E’ un errore non identificare il Distretto come snodo della questione.

 

Proviamo ad affrontare la questione da un altro punto di vista: di chi è paziente una persona curata a casa? Molti risponderebbero: “del MMG”. Ma non sarebbe del tutto vero. A riprova, il fatto che le AFT dei MMG non sembrano aver avuto grande efficacia nell’emergenza COVID, tanto che sono nate le USCA, in cui operano non MMG ma Medici della Continuità Assistenziale (convenzionati, ma privi di propri assistiti). Come CARD proponiamo quest’altra risposta: “La persona curata a casa è del Distretto, che agisce con un insieme di ‘propri’ professionisti (non importa con quale contratto o appartenenza lavorativa) coordinati ed integrati tra loro, verso un obiettivo unitario ben condiviso. Questo Distretto opera con responsabilità piena di impegno, mezzi e risultati, di cui rende conto all’Azienda Sanitaria/Regione (ecco il vero budget di Distretto: risorse vs obiettivi), alla Comunità dei residenti (i quali parlano così del “mio” distretto) ed anche alle singole persone prese in carico, in maniera illimitata nel tempo, proporzionata alle necessità della persona e al decorso delle malattie (al plurale, perché la comorbidità è la regola).

 

Tre prime proposte

Da quanto sopra, due nostre prime proposte. La prima: occorre diffondere una nuova forte cultura del domicilio, suscitare una domanda appropriata, nella cittadinanza e nel mondo sanitario, per avere più cure a casa, più “care” oltre che “cure”, per sostenere oggi, tristemente, i problemi di contagiosità, e domani (ma anche oggi) per assistere persone non autosufficienti, con comorbidità e multiproblematicità-fragilità accentuate. Certamente idonee nel long term, ma anche nella continuità di cura a casa dopo una dimissione dall’ospedale, post riacutizzazione-aggravamento di una (o più) patologia cronica (short term). La seconda: in tutte nelle Regioni la gestione della home care va affidata a solide strutture organizzative tarate sulla community care (o Primary Health Care) con ben chiari mandati e risorse ad hoc: i Distretti, nella nostra visione.

 

Posto di aver “risolto” il nodo del contenuto (home care) e del contenitore (il Distretto), resta aperto quello del contesto: la casa, che è essa stessa risorsa e strumento di cura. Da ciò nasce la terza proposta, secondo noi né irrituale né banale, ma fondamentale. Perché non pensare di utilizzare questi fondi aggiuntivi per adeguare gli alloggi, siano di proprietà degli stessi cittadini (85% degli italiani possiede la casa dove abita) o di Enti pubblici (ad es. Istituti di edilizia popolare), quando non sono idonei ad essere abitati in sicurezza e comfort da chi deve affrontare prolungati momenti di vita difficile, ad esempio per rimediare a barriere architettoniche, riscaldamento e servizi igienici inadeguati. Quanti proprietari saprebbero affrontare lavori di modifica e manutenzione? Non ci potrà mai essere una vera home care senza una vera “home”. Perché non rimediare?

 

La quarta proposta: valorizzare le cure intermedie

I fondi aggiuntivi potrebbero risolvere la metà dei problemi. Per l’altra metà serve altro. Proviamo ad aggiungere il problema del ritorno degli investimenti. Da molte parti si invita a costruire nuovi ospedali o reparti COVID. Suggeriamo prudenza, ricordando come, verso la fine degli anni ’70, ci fu una corsa a costruire nuovi ospedali durante l’esplosione del problema HIV/AIDS che si affermava avrebbe sconvolto il mondo. Come andò a finire è ben noto a tutti.

 

Viceversa, due sono i fronti su cui a nostro parere gli investimenti sarebbero validi per l’oggi e durevoli nel tempo (oltre fase COVID), con giusto ritorno degli investimenti:

  • Investimenti per le nuove Infrastrutture di ICT per home care.
  • Investimenti per una residenzialità diversificata per molteplici tipologie di assistiti e di intensità assistenziale.

 

Se seguiamo la logica di un rinascimento del SSN/SSR con “più TERRITORIO, meno ospedale”, serve pensare in termini di “cure intermedie”, nell’accezione di “intermediate care” del mondo anglosassone, in cui molti autori includono insieme home plus residential care. Questo è il binomio vincente del futuro, per:

  1. creare contiguità e continuità razionale tra i tipici setting di cura territoriali, e tra questi e le cure ambulatoriali ed ospedaliere, creando un quadrilatero perfetto (casa, ambulatorio, residenza, ospedale) di interconnessioni ed interdipendenze reciproche, bidirezionali, molto strette (una rete di servizi intelligente);
  2. affrontare il problema della impossibilità oggettiva ad una home care, vuoi per inadeguatezza della stessa abitazione, vuoi dei suoi abitanti (famiglie mono o bi-cellulari oggettivamente impossibilitate a reggere a casa situazioni a drammatica rapida involuzione, come accaduto per i casi COVID+).

 

Nuove Infrastrutture di ICT per una moderna home care

Le cure domiciliari devono giovarsi dell’innovazione, organizzativa (v. sopra), ed anche strutturale, innanzitutto tecnologica. L’Information Communication Technology (ICT) fornisce un insieme di moderni strumenti che possono davvero essere di grande aiuto. Sostanzialmente sono costituiti da una piattaforma che include, basicamente:

  1. la cartella elettronica personalizzata (single record for all – tutt’altra cosa che il FSE), alimentata ed accessibile da tutti gli attori di cura, formali ed informali, per realizzare un diario permanente di tutto ciò che accade e viene fornito all’assistito;
  2. i dispositivi per il controllo in remoto di parametri vitali (per il follow-up proattivo delle patologie croniche) ed ambientali (per sicurezza degli abitanti);
  3. strumenti di educazione terapeutica e di supporto individuale personalizzato (reminder, agenda farmaci, esercizi riabilitativi guidati, ecc.);
  4. strumenti per il telecontrollo/telesupporto psicologico (anche per i caregiver) e teleconsultazione specialistica/telediagnostica. I costi sono assolutamente abbordabili, nell’ordine di grandezza (per tutto il Paese) di milioni di euro vs le centinaia di milioni necessari per le soluzioni ospedaliere o residenziali. I ritorni di investimento avvengono in archi temporali ridotti (qualche anno); i costi di manutenzione sono molto bassi.

 

Riguardo agli utenti-assistiti: è provato che anche persone di età elevata, bassa scolarità possono – opportunamente istruite – usare queste tecnologie; riguardo agli utenti-professionisti: MMG, USCA, specialisti, infermieri, terapisti della riabilitazione, psicologi, operatori del sociale sanno tutti coralmente trarre vantaggio da queste infrastrutture.

 

Riguardo al SAD: in alcune esperienze questi servizi municipali sono molto progrediti grazie a questa innovazione, che consente di esplicare meglio la fase valutativa integrata del bisogno, e di congiungerla favorevolmente con quella della presa in carico.

 

Questa “nuova” home care con tecnologie arricchisce, non snatura il valore delle relazioni tra assistiti ed assistenti, allarga gli interventi degli specialisti. Diventa realmente alternativa ai tradizionali setting di cure ospedaliere e residenziali, così da essere cost-effective (non lo sarebbe se fosse opzione solamente aggiuntiva).

 

Questi strumenti di ICT possono stabilizzare il valore delle USCA, dei loro giovani medici, volenterosi, di buona e fresca preparazione, perfettamente pronti ad utilizzarle. Conviene far transitare le USCA da forme temporanee a stabili, per costituire dei team per la home care ed intermediate care del Distretto. Gioverebbero ad elevare anche le attività dei MMG aggregati e rendere davvero continuativo il servizio di medicina generale, nelle 24 ore.

 

Riguardo agli obiettivi di questa home care potenziata, il primo indicatore da scegliere per misurare il valore dei risultati ottenuti (value for money) è la qualità di vita degli assistiti. Tema delicato, per apprezzarne il cui valore bisogna affrontare temi di etica e deontologia su cui ancora poco ci si confronta. Sarebbe invece fuorviante porsi di ottenere “risparmi”. Questa home care con ICT, specialmente nel primo periodo, non è certo che induca, ad esempio, riduzione del numero dei ricoveri ospedalieri; anzi, potrebbe accadere addirittura il contrario. Più probabile potrebbe essere la riduzione del numero totale delle giornate di degenza (hospital stay), aspetto interessante anche in un approccio di Short-Term Care.

 

Residenzialità diversificata per tipologie di assistiti e intensità assistenziale

Un uso diffuso delle moderne tecnologie rafforzerà anche l’assistenza residenziale, rendendola più capace di assumersi la responsabilità di casi più complessi o non stabilizzati. Del resto, la crescente prevalenza ed incidenza di longevità e non autosufficienza/cronicità impone di congiungere, affiancare, non di separare i due setting di cura (domiciliare e residenziale). Quali lesson learned abbiamo appreso dalle vicende COVID e case di riposo?

 

Concordiamo con chi sostiene che le strutture residenziali devono ormai assumere connotati di alta rilevanza-capacità clinica, per cui è necessario disporre di operatori con capacità e competenze specifiche e strutture “logistiche” diverse, migliori di quelle per lo più presenti nelle attuali “case di riposo”. Infine, per tenere aperta l’agenda dei temi indifferibili, in questo periodo si è riconfermata l’importanza di trovare soluzioni residenziali specifiche per i bisogni espressi dalle persone con demenza senile.

 

Mappa orientativa per non concludere, ma iniziare

Anziché indulgere sulle “diagnosi” (spesso inutili), proviamo ora a tracciare una mappa di nuove azioni, possibili grazie alle nuove risorse:

  1. Realizzare piani pluriennali chiari per cui in ognuno dei circa 500 Distretti in Italia si potranno creare solidi team di cure domiciliare, con definizione collegiale di dotazioni minime standard di personale (medici ed infermieri+OSS in primis), di mezzi (ICT, automobili, sedi), per sostenere percorsi intelligenti di Long-Term Care (per la cronicità e NA) ed anche Short-Term Care (post dimissione da ospedale).
  2. Monitorare questi servizi con indicatori facilmente misurabili di risultato e di risorse impiegate.
  3. Introdurre la quality of life come primo indicatore di valutazione sintetico (fondamentale anche nei casi COVID), da applicare sia nell’assistenza domiciliare che residenziale.
  4. Utilizzare parte dei fondi aggiuntivi per adeguare le abitazioni, luoghi di Long-Term Home Care, al fine di renderle idonee a ricevere buone pratiche di buone cure.
  5. Realizzare, con tempestiva gradualità con i nuovi fondi, modifiche nelle strutture residenziali esistenti, dotandole di molte stanza singole e le rimanenti al massimo doppie (stop alle camere a 3-4 letti o più), tutte di maggiori superfici, più confortevoli, con il bagno in stanza (tutto questo avrebbe sicuramente ridotto i contagi tra i residenti e degli operatori).
  6. Introdurre la ICT anche per congiungere le fasi della mediazione tecnica integrata del bisogno (UVD et similia) con quelle della presa in carico, per far sì che i “valutatori” si occupino anche della successiva presa in carico, grazie alla cartella elettronica personalizzata, formidabile strumento di continuità in tutte le transizioni assistenziali.
  7. Individuare e rimuovere le barriere organizzative e professionali impedenti questi cambiamenti (change management), in primis trovando consenso e partecipazione attiva dei decisori ed attori coinvolti nel campo.

 

Nel momento in cui scriviamo (19 maggio 2020), sono state rese note le prime anticipazioni governative sulle risorse aggiuntive per la sanità. Merita prenderne nota e confrontarle con i ragionamenti qui esposti. Sembra che al territorio si vogliano assegnare 1.256 milioni in più (bene, all’ospedale se ne assegnano 1.467: a riprova di un inguaribile ospedalocentrismo?). Nei documenti preliminari non compare mai la parola “Distretto”, che mai è citato come destinatario o come “utilizzatore” di questi fattori produttivi (brutto segno?). Mai come “regista” dei prospettati nuovi infermieri di quartiere/comunità (otto ogni 50mila abitanti), che a noi sembrano invece “naturalmente” parte di un’organizzazione distrettuale, mentre sembra diverranno “proprietà” delle USCA (in verità è scritto “anche a supporto delle Usca”; ma ci domandiamo chi le governerà, così arricchite?). Peccato. Invitiamo a correlare i primi numeri disponibili ad una operatività e senso possibile, nei 500 distretti in Italia: per personale e servizi alle cure domiciliari, 734 milioni di euro; alle USCA, 61 milioni. Per infermieri di quartiere/comunità, 332 milioni di euro (corrispondono a circa 9.000 nuove assunzioni), cui si aggiungono 32 milioni di euro per assistenti sociali (circa 900 nuovi operatori). Infine, per le centrali operative regionali, attrezzate per telemonitoraggio e telemedicina, 72 milioni di euro.

 

In conclusione, si torna alla domanda iniziale: bene le nuove risorse, ma basteranno? No, se cadranno in vecchi scenari. Servono invece nuovi indirizzi per la loro gestione intelligente (intelligere i bisogni!), per fare saggia programmazione; per conseguire migliore attuazione, evitando frammentazioni specialistiche. Senza alcuna volontà di togliere entusiasmi e speranze, ma al contrario, rilanciamo il valore strategico e tattico di inserire queste nuove risorse ed opportunità in adeguate, appropriate organizzazioni territoriali adatte a questi scopi: i Distretti. Rilanciamoli per rilanciare il territorio, per costruire “un sistema territorio”. Operiamo per renderli necessari, perché – come afferma la CARD, Associazione degli Operatori dei Distretti Italiani – “Dare forza ai distretti è nell’interesse dei singoli e della collettività”.

 

 

Foto di Alexas_Fotos da Pixabay

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