Questo articolo è scritto da una persona totalmente priva di competenze mediche o professionali, che si è trovata ad adempiere al ruolo di assistere – per circa dieci anni – la madre affetta da Alzheimer, da poco deceduta. Una testimonianza, un breve contributo a partire dalla mia esperienza concreta, per raccontare le vere difficoltà che i caregiver affrontano ogni giorno, senza teorie utopistiche e senza fronzoli, e per sfatare luoghi comuni e castronerie che ho trovato scritte in alcuni libri e persino in riviste specializzate. Infatti, mi capita di leggere sulla stampa titoloni come “Trovata terapia contro l’Alzheimer“, e poi si scopre che gli studi sono ancora in fase embrionale, con risultati non ancora adeguatamente verificati. Oppure ancora “Il SSN rimborserà le rette RSA dei malati di Alzheimer“, ma si tratta, di fatto, di pochi casi isolati nei quali, a fronte di lunghi, perigliosi e costosi iter giudiziari, è stato previsto un rimborso.
Una riflessione di base sulla malattia di Alzheimer
Parto dall’assunto più semplice e banale che c’è: essere caregiver è faticoso e stressante. È come stare in una morsa che si stringe ogni attimo che passa. Parti dall’aiuto al tuo caro in cose semplici e, man mano che la malattia avanza, la morsa ti strozza: già di per sé i deficit di memoria, di linguaggio, i disturbi cognitivi richiedono una buona dose di attenzione. Poi si passa alle difficoltà nel compiere le attività quotidiane: prima la perdita di quelle strumentali, poi di quelle basilari1ed infine i disturbi del comportamento del malato che richiedono sforzi da psicologi, una pazienza da santi ed una resistenza fisica da supereroi.
Nelle fasi più avanzate della malattia il tempo non basta mai: preparare i pasti, vestire il malato, lavarlo, pulirlo, sorvegliarlo in continuazione, capirlo, confortarlo, coccolarlo. Ed è qui che cominciano le discrepanze tra vita vissuta e teoria bibliotecaria o da emeroteca.
Le vere difficoltà, gli ostacoli reali, nudi e crudi
Partiamo dall’aspetto psicologico per approcciarsi al malato: un giorno mamma era piuttosto agitata, non stava ferma e dopo circa un’ora di tentativi verbali di calmarla sono riuscito nell’intento di placare le sue ansie e la sua frenesia. Ma due minuti dopo si arrabbia, prende un ferro da stiro ed un paio di scarpe ed esce di casa prendendo una direzione a caso. Sono dovuto andare a ripescarla in mezzo alla strada e riportarla all’ovile. Questi rimedi improvvisati sono “hic et nunc”, valgono da un secondo all’altro e sfiancano il caregiver. Non c’è una soluzione riutilizzabile, il comportamento è spesso imprevedibile e, per il familiare onnipresente, giorno e notte, subentra la disperazione: l’assistente senza aiuti terzi finisce sempre sconfitto.
Ambiente di casa
Appaiono giuste le soluzioni di ampliare o rimodulare gli spazi spostando i mobili, rendendo la casa quanto più essenziale, rimuovendo gli ostacoli e nascondendo oggetti potenzialmente pericolosi, ma quando sento dire o leggo di ritinteggiare i muri con colori vivaci, o di mettere indicazioni sulle porte (ad esempio WC su quella del bagno) o di schermare le porte mi cascano le braccia. Chi paga il pittore? Chi paga gli interventi di adattamento dell’ambiente? Un malato in fase avanzata riesce a capire il cartello? No. Nella mia esperienza, nel nucleo Alzheimer dove mia madre era ricoverata, le porte schermate con disegni di librerie o panorami lacustri non servivano a tenere lontani dall’uscita gli ospiti in attesa dei propri parenti, o di chissà chi, ogni volta che qualcuno suonava il campanello per entrare.
Interessi ed hobby
Tutti gli autori dicono che noi caregiver non dobbiamo perdere i nostri interessi durante il periodo di assistenza al malato. “Continuate a leggere, ad incontrarvi con gli amici, andate in palestra, fate una passeggiata”, questi i consigli che riceviamo. Nei giorni che apparivano più calmi del solito, quando mamma era tranquilla sul divano, provavo ad ascoltare questi consigli: sfogliavo un libro e, lette due righe, mamma si alzava e scompariva dalla zona giorno. Assicurarmi che non facesse danni o non si facesse male diventava la preoccupazione principale: “Dove sarà andata? Cosa starà facendo di là?” E addio ai propositi di lettura…
Ora, se un caregiver non riesce nemmeno a leggere qualcosa a casa, come può permettersi di incontrare degli amici anche solo per un caffè o andare in palestra, lasciando il proprio familiare a casa da solo? Per me non era possibile. L’ansia mi prendeva già quando uscivo a fare la spesa o per andare in farmacia. Talvolta era difficile gestirla anche in questi luoghi e quindi dovevo assentarmi e fare queste commissioni con la preoccupazione di lasciarla sola, anche se per pochi minuti. Figuriamoci se potevo considerare di abbandonarla per altre attività non indispensabili.
Aiuti esterni
Ai caregiver serve aiuto, è indispensabile. La prima cosa che avevo pensato era di assumere una badante… ipotesi subito scartata. I costi per assumerla regolarmente erano pari o addirittura superiori ad una mensilità di una retta in una RSA e, in più, non avrei avuto a disposizione una figura professionalmente adeguata. Mio nonno ne aveva assunte due per curare mia nonna, anche lei affetta da Alzheimer. Il risultato? Era stato sfortunato: si era imbattuto in una badante che non somministrava le medicine a mia nonna, e in un’altra che utilizzava il telefono fisso, a consumo, per lunghe telefonate personali. Chiaro, questa è la mia esperienza e, certamente, ci saranno badanti preparate ed attente… ma a dirla tutta io non ne ho conosciute, né personalmente né dal racconto di altri. Sento piuttosto che il fenomeno delle assunzioni delle badanti risulta in calo, e per forza!
I caregiver non ricevono orientamento per trovare queste figure, e quando le trovano spesso devono fidarsi di loro, affidando la cura del proprio familiare fragile, consegnando loro la casa, il denaro, talvolta le carte di credito2. Poi, capita pure che si coalizzino in una sorta di sindacato, e chi dà loro torto? Nessuno, il datore di lavoro resta col cerino in mano, cornuto e mazziato.
Invalidità ed accompagnamento
Abbandonato l’aiuto fisico provammo con quello economico, l’indennità di accompagnamento, il grande tabù di coloro che la richiedono. Una storia di burocrazia! Lo specialista del Centro per i Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD) presso cui eravamo in carico, aveva redatto la relazione della visita con la magica formula “il malato non è in grado di compiere gli atti quotidiani della vita“. Dopo questa visita, siamo dovuti andare dal medico di base per il certificato, poi da un CAF per la presentazione della domanda. Poi siamo stati convocati dall’ATS per un’ulteriore visita… le solite domande “Chi fa la spesa? Chi fa da mangiare?“. Infine arrivò il responso della commissione INPS. La prima volta non andò poi così male: indennità di accompagnamento ottenuta per un anno (diagnosi di demenza da corpi di Lewi). L’anno dopo, alla visita di revisione dell’INPS, presentammo tutti i report delle visite fatte nel corso dell’anno precedente. Cosa accadde: l’indennità venne sospesa per mancanza del requisito sanitario. Ma una demenza di questo tipo è reversibile?
Quattro mesi dopo mamma peggiorò e, con un certo tono brusco, chiesi alle geriatre di scrivere tutto il possibile per far capire la situazione in cui si lei si trovava. Annuirono subito, mamma era affetta da Alzheimer, non c’era dubbio, e caso strano non riusciva a compiere gli atti quotidiani della vita… mica le stavo addosso 24 ore al giorno per niente. Ricominciò la trafila tra ambulatori e uffici e, finalmente, quella volta l’assegno le venne riconosciuto “a vita”. Quattro mesi prima per l’INPS era sana come un pesce.
Presidi sanitari
Feci un tentativo presso l’ATS3di zona per avere presidi medico-sanitari, e magari per avere qualcuno che accudisse mamma per alcune ore per un paio di giorni a settimana. Al telefono il funzionario mi chiese: “Quanto ha di invalidità la signora?” , “100%” risposi. “Allora si faccia fare un’impegnativa del medico di base e poi ne riparliamo“. Il messaggio era chiaro: ancora moduli, ancora attese, ancora burocrazia. Non ho voluto approfondire. Ho visto che i nove pannolini comprati al supermercato per 6 euro facevano il loro dovere ed ho continuato con quelli per circa sei mesi, fino a che mamma non è stata ricoverata in RSA.
Caregiver professionale
Si puntano molto i riflettori su questa nuova figura nelle riviste e nei forum. Una sola domanda. Chi ne ha mai sentito parlare o chi ne ha mai visto uno nella mia zona?
La salvezza
La soluzione ideale per uno come me, che se lo è potuto permettere, è stato il ricovero in RSA. Il tentativo di ricevere una presa in carico in ospedale è stata, nella mia esperienza, la cosa più inutile. Avevo mamma ancora a casa, a un certo punto non si reggeva più in piedi, cadeva procurandosi continuamente dei piccoli traumi, per fortuna solo superficiali. All’ennesimo episodio, dopo essermi procurato una carrozzina, disperato sono andato dal mio medico di famiglia che mi consigliò di recarmi al Pronto Soccorso di zona, che a sua volta mi avrebbe indirizzato verso strutture idonee per questo tipo di situazioni. Mi recai quindi al pronto Soccorso chiedendo se ci fossero aiuti per i problemi di mia madre, ma la risposta fu negativa e perentoria: “Non abbiamo strutture di questo tipo, non facciamo servizi di questo tipo“.
Ho voluto tenere mia madre con me, a casa, finché ho potuto.
Certo, la RSA è costosa, ma per come ho vissuto questa esperienza con lei è stata una scelta vitale. Pasti corretti, idratazione idonea, evacuazione regolare, sonno più o meno buono, terapia adeguata, fisioterapia, musicoterapia, pet-therapy, visite garantite tutti i giorni. Per quanto ho potuto vedere gli operatori erano cortesi e professionalità, anche se circolavano voci di comportamenti inaccettabili da parte di alcuni operatori. D’altronde mamma non parlava ed io non sapevo niente di eventuali maltrattamenti.
Riflessioni finali
Purtroppo l’Alzheimer non perdona e presenta il suo conto, prima o poi, e in un modo diverso da malato a malato. A mia madre ha causato disfagia, non deglutiva e quindi non mangiava più; se n’è andata troppo giovane, a 73 anni, dopo nemmeno un anno e mezzo di ricovero. La sfida era già persa in partenza, ma quello che ho descritto sopra rappresenta la vita reale del caregiver, senza sconti. Le istituzioni dovrebbero agire sui veri ostacoli di coloro che assistono familiari anziani fragili, semplificando loro una vita già di per sé troppo complicata. Non aggiungendo ulteriori complicazioni!
Una legge che pone in carico le rette delle RSA al SSN c’è già, ma non viene applicata. È ora di finirla con le tarantelle tra uffici e tribunali: qui si tratta di mettere le risorse dove servono davvero. Le risorse ci sono, basta volerlo.
Chi scrive o parla di collaborazioni, sinergie, protocolli ed altri termini così astratti che alla fine restano sulla carta, o addirittura si volatilizzano in parole vuote, dovrebbe guardare in basso, dove il povero popolaccio fatica. Bisogna investire sulle strutture, e bisogna migliorare e potenziare i servizi sul territorio. Non credo che questi investimenti raggiungano cifre impossibili. Bisogna anche formare e incentivare il personale, oggi sempre più scarso. Questo problema, tutto a carico dei familiari, si amplificherà esponenzialmente nel prossimo futuro ed una cura efficace per le demenze è ancora un miraggio.









