17 Novembre 2021 | Dati e Tendenze

Covid, cifre e sofferenza mentale

La pandemia determinata dal Covid 19 ha provocato disturbi psicologici, nei malati, nel personale di assistenza, nella popolazione generale. Tuttavia non è facile capire perché alcuni soggetti sviluppino sofferenza mentale e altri no. Non ci sono ancora del tutto note le interazioni fra determinanti genetici e ambientali, fra fattori stressanti e fattori protettivi. Di conseguenza non è facile mettere a punto strategie preventive.

 

Questo articolo è stato pubblicato anche su Psicogeriatria n. 3/2021.

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Introduzione

Da quando imperversa l’epidemia di SARS-Cov2-19 in più di una occasione ho ricevuto sollecitazioni a cimentarmi nel prevedere e poi raccontare le possibili conseguenze dell’epidemia sulla salute mentale della popolazione e, più in particolare, degli operatori sanitari. Sono sempre stato piuttosto riluttante ad affrontare questo tema, non perché lo ritenga di scarsa importanza, tutt’altro; ma perché si tratta di una di quelle questioni sulla quali si può scrivere molto ma non sempre per dire qualcosa di utile, a causa della diffusa tendenza che abbiamo all’eccesso di semplificazione nel trattare argomenti complessi.

 

Sicuramente l’impatto con l’epidemia e le sue conseguenze sulla popolazione, sui pazienti e sui sanitari ha comportato e comporterà conseguenze di natura psicologica. Tuttavia, detta questa prima e ovvia verità, la strada che si può fare per proseguire nella direzione giusta non è molta. Mi spiego meglio. Non è difficile compiere indagini, fotografare la situazione (di un Reparto, di un gruppo di pazienti o di una equipe sanitaria) riempire report e – per così dire – gettare il sasso nello stagno, dove peraltro molti altri hanno già buttato notizie e avvertimenti preoccupanti. Ciò che invece rappresenta un enigma non facilmente decifrabile sta “dietro” alle cifre e a ciò che le cifre, da sole, non possono dire. Un esempio: in un documentato articolo di Bernardo Carpiniello (Brown, Harris, 1989) vengono riportati i risultati di numerosi studi e di molte review compiute in tutto il mondo. Prendendo a caso uno di queste – una metanalisi riguardante molte decine di migliaia di operatori sanitari esposti al Covid-19 (Salazar de Pablo et al., 2020) – si può leggere che 37,9% di loro ha sviluppato insonnia, il 29,0% sintomi ansiosi e il 26,3% sintomi depressivi. Questi dati descrivono una situazione certamente preoccupante. Tuttavia non ci dicono (poiché non sono in grado di farlo!) attraverso quali modalità psicologiche in un buon numero di operatori si producano questi tipi di sofferenze e come mai invece in altri individui (pazienti o sanitari), sottoposti ai medesimi stressor, non si manifestino sintomi clinicamente rilevabili. Ci accorgiamo subito che sarebbe addirittura più utile capire perché, tornando alla metanalisi citata, più del 60% dei professionisti esposti ai medesimi eventi stressanti, non abbia sviluppato disturbi del sonno, il 71% non abbia avuto sintomi d’ansia e ¾ circa non abbia presentato alcun segno di depressione. Conoscere qualcosa di più sulle ragioni di queste differenze ci darebbe una quantità di informazioni che potrebbero orientarci nel suggerire strategie protettive rivolte agli operatori sanitari, ai pazienti che contraggono il virus e alla popolazione generale, cioè nel darci indicazioni su come si potrebbero limitare i danni sulla salute mentale di molte persone. Invece i dati che ci vengono presentati ci colpiscono (questo indubbiamente si!) ma non sono in grado di dirci/darci nulla di più. Sono dunque inutili? No certamente, ma oltre alla reazione di preoccupazione che possono destare in noi, dovrebbero farci senza alcun dubbio capire che non esiste un rapporto causa-effetto diretto fra esposizione agli effetti provocati dall’impatto del virus e la sofferenza delle persone, contagiate o no, e degli operatori che si prestano ad assistere coloro che hanno contratto il virus.

 

Se da una parte dunque non è troppo complicato individuare quali sono i fattori stressanti che hanno messo a dura prova tutti noi, è invece molto più difficile riuscire a delineare le possibili ripercussioni sui singoli individui, provocate dall’impatto con gli stressor specifici di questa esperienza, sia nel breve che nel lungo periodo. Non riuscire a predire con precisione queste ricadute, rende di conseguenza arduo il tentativo di fare previsioni sugli effetti che potrebbero determinarsi. Questo perché, mai come nelle situazioni più drammatiche e di stress intenso e prolungato, le “risposte” individuali tendono a differenziarsi, anche di molto.

 

Oltre ai fattori che verranno analizzati di seguito, un elemento che contribuisce a rendere così differenziata la risposta dei singoli è l’importanza del significato soggettivo che qualsiasi evento possiede per il vissuto individuale (Brown, Harris, 1989).

 

Il problema della interazione geni-ambiente e della multifattorialità

Come avviene in un buon numero di disturbi mentali (ma anche in molte malattie del corpo) la loro insorgenza non è determinata da una sola causa, ma dal coinvolgimento e dalla interazione di più agenti che sono responsabili di un processo dinamico molto più complesso (anche da decifrare!) di quanto non siano invece gli eventi provocati dal rapporto – diretto e lineare – che una singola causa ha nei confronti dell’effetto che produce. Nella situazione specifica della risposta all’impatto con l’infezione da Covid-19, oltre a ragioni – ancora oggi largamente imperscrutabili – di tipo genetico, ve ne sono alcune altre (ma anche queste non si sottraggono alla influenza, di vario grado, del patrimonio genetico dei diversi individui) la principale delle quali è certamente la resilienza di cui gli individui sono dotati in maniera differenziata.

 

Di fronte agli stessi avvenimenti e ai medesimi insulti emotivi, la vera differenza la fanno alcuni requisiti individuali che sono in grado di renderci capaci di maggiore o minore resistenza agli eventi vulneranti. Una ragione che determina risposte tanto diverse fra gli individui riguarda alcune caratteristiche strutturali della personalità, la principale delle quali è la capacità di adattamento di cui è dotato quell’individuo. Questa attitudine è molto variabile da soggetto a soggetto: ad un estremo ci sono persone dotate di maggiore duttilità; all’altro, invece, soggetti che utilizzano strategie molto più rigide (e poco redditizie) per confrontarsi con le avversità.

 

La adattabilità all’ambiente è una funzione fondamentale degli esseri viventi che permette loro di accrescere le probabilità di sopravvivenza e riproduzione (Asioli, 2020). Il concetto di resilienza, che indica la prerogativa di un individuo di fare fronte con successo ad eventi avversi implica, fra l’altro, quella di essere in grado di adattarsi anche a condizioni esterne particolarmente sfavorevoli.

 

Da alcuni anni le ricerche (Brown, Harris, 1989; Goldberg, Goodyear, 2009) hanno evidenziato che, perché si manifestino alcuni disturbi mentali comuni (fra questi, ansia e depressione), è necessaria l’azione combinata di fattori distali (genetici, neonatali, esperienze di vita precoci negative) – che costituiscono elementi in grado di determinare la vulnerabilità – con fattori prossimali (cioè attuali). Questi ultimi vengono anche chiamati agenti provocanti, in quanto le caratteristiche che rendono vulnerabile l’individuo non sono in grado “da sole” di dare origine ad un disturbo di ansia o depressivo ma, quando sono presenti, agiscono come condizione necessaria perché gli agenti provocanti possano dare origine all’esordio dei sintomi.

 

Fattori stressanti specifici della pandemia

Come ripetutamente già messo in evidenza da più parti, una caratteristica particolarmente nociva per la nostra mente è determinata dalla invisibilità del nemico con cui ci si deve confrontare, perché quando il nemico è visibile è più facile difendersi. Non solo sul piano militare, ma anche da quello biologico e psicologico. Nella attuale situazione di emergenza sanitaria, ad esempio, i sensi non possono aiutare ad identificare l’avversario, né a mantenere alto lo stato di vigilanza e la prudenza con cui affrontare il virus. In queste situazioni, a causa soprattutto della stanchezza, è molto più facile abbassare progressivamente la guardia e far aumentare conseguentemente i livelli del rischio (Rozzini, 2020a). La noxa è ovunque, si dilata nell’attesa come i fantasmi dei Tartari invasori evocati da Dino Buzzati (1945) e nella non visibilità. In questa sospensione, dilaga come un incubo ad occhi aperti, reso vivo e attivato ogni giorno dalle notizie che ci assediano, e dalle previsioni di esperti che non riescono a tranquillizzare più dell’oracolo di Delfi (Ferro, 2020).

 

La seconda caratteristica vulnerante di questa vicenda è la sua perduranza nel tempo. Come tutti gli studi sull’argomento ci dicono, un evento puntiforme, che avviene in un periodo temporale circoscritto – per quanto grave – è meno traumatico e i meccanismi difensivi (somatici e psicologici) di cui siamo dotati sono più in grado di affrontarlo. Al contrario, nello stress cronico viene continuamente rimandata e rinviata la possibilità della nostra mente di potere elaborare quanto successo (in quanto sta ancora accadendo).

 

Per i sanitari una ulteriore caratteristica critica riguarda la fatica, fisica e psicologica. La prima, sulla quale non aggiungo nulla più di quanto non si sappia già, è determinata dal “non fermarsi mai”, da turni che si prolungano per giorni interi ed oltre, etc. Piuttosto evidente, ma meno esplicita, la fatica psicologica sulla quale invece conviene soffermarsi, data la sua poliedricità. Il termine inglese con cui si definisce la fatica emozionale è compassion fatigue, espressione che rende subito evidente, rispetto all’italiano, il problema emotivo che si determina nel medico, dovuto alla frustrazione per la apparente inutilità dei suoi atti compassionevoli, al senso di impotenza e al timore della inefficienza delle cure erogate, ciò che determina il dubbio di non avere fatto tutto il possibile per chi è morto (Rozzini, 2020b). E poi l’esposizione massiva con la morte, a causa dei tantissimi pazienti deceduti, evento che ogni giorno si è ripetuto in spregio alla fatica assistenziale (a volte addirittura sacrificale) profusa. Questo imponente contatto con la morte non può non avere contribuito a ridurre (e, in alcune persone, a disintegrare) la “normale” propensione che gli uomini di oggi hanno ad utilizzare la rimozione di questo evento, nel tentativo di scacciare la morte dalla propria esistenza, come se fosse questo una possibilità che non li riguardasse.

 

Infine la paura. Quel tipo di paura, peraltro del tutto “giustificata” (diversa da quella incontrollabile, panica, patologica, insomma), determinata dalla natura e dall’entità dell’epidemia. Paura che si presenta come una doppia lama tagliente: quella del venire infettati, quindi di essere vittime del proprio lavoro e della propria dedizione; e quella del poter infettare i propri cari, diventando responsabili e, pertanto, colpevoli della loro malattia. Questo è un elenco, abbreviato, semplificato, didascalico, del coacervo di problemi e del loro impatto emozionale sulle menti degli operatori, con cui essi sono chiamati a fare i conti.

 

Fattori protettivi

E’ evidente che in questo caso non ci si riferisce ai fattori protettivi che siano in grado di moderare il risultato della vulnerabilità individuale, bensì a quelli di tipo universale, cioè quelli che mostrano una certa capacità di proteggere – almeno entro certi limiti ed in generale – tutto il gruppo preso in considerazione, indipendentemente dalle singole caratteristiche specifiche di vulnerabilità individuali. Si tratta di osservazioni e suggerimenti piuttosto scontati e che, pur essendo sostenuti nella loro validità da prove scientifiche, godono di scarsa considerazione da parte del pubblico.

 

Uno dei principali di questi fattori è rappresentato dalle relazioni basate sulla confidenza che il soggetto ha la fortuna di avere sia sul lavoro, che nell’ambiente extralavorativo. Per quanto tenute poco in considerazione, queste relazioni costituiscono un sicuro fattore moderante le avversità (Brown, Harris, 1989; Notarius et al., 1984). Fra queste, la più importante è quella di una relazione sentimentale stabile. Al contrario, come ci mostrano tutte le ricerche, la solitudine e il sentirsi soli rappresentano un fattore di rischio aggiuntivo (De Leo, Trabucchi, 2019), perché questa condizione aumenta la percezione di essere indifesi e la mancanza di interesse da parte degli altri.

 

Nelle situazioni di grande emergenza vissute nel corso della pandemia, a causa delle richieste assistenziali, nel personale sanitario è completamente “saltata” la separazione fra mondo lavorativo e famigliare, fra vita pubblica e privata, fra lavoro e riposo, con la conseguente rottura di ogni confine e di ogni limite. Queste demarcazioni, rappresentano invece un importante elemento protettivo per la salute mentale (e anche fisica) dei professionisti (Nahon, 2020). Limiti e barriere costituiscono elementi – poco evidenziati (forse perché non appartenenti ad una visione “romantica” delle professioni di aiuto) ma indiscutibilmente utili – che permettono la “sopravvivenza” mentale (oltre che fisica) degli operatori i quali, nel loro lavoro quotidiano “normale”, sono chiamati a fare i conti, senza tregua alcuna, col il dolore dei pazienti e con il proprio dolore, quello che la sofferenza dei pazienti evoca in ciascuno di loro. Nelle condizioni straordinarie di impegno provocate dalla pandemia, energie e tempi degli operatori sono stati impegnati sul lavoro e di conseguenza ne sono risultate trascurate proprio quelle relazioni (affettive e famigliari) che hanno le caratteristiche protettive di cui si è detto.

 

Anche sul lavoro esistono elementi che rivestono un valore protettivo, ad esempio, un buon clima di collaborazione e di condivisione nel gruppo di lavoro: di fronte allo stress e alle difficolta, la percezione di operare per lo stesso scopo rafforza la coesione e lo spirito di appartenenza fra i membri della stessa equipe che può estendersi fino al sentimento di protezione reciproca e a far sì che nessuno si senta (troppo) solo. Al contrario, avere la percezione di essere soli e in una condizione di isolamento rende molto più probabile il determinarsi dell’elemento psicologico in grado di scatenare la sofferenza attraverso la perdita di senso per quello che si sta facendo e per la fatica che si sta sopportando. La deprivazione di emozioni, di sensorialità può riportarci ad aree di formazione del Sé il cui attraversamento è risultato traumatico proprio perché carente di stimoli, di scambi attivi e fecondi.

 

Conclusioni

Come si è detto, riuscire a mettere a punto programmi preventivi rispetto ai disturbi che possono originarsi a seguito dell’impatto con la pandemia risulta un’impresa – almeno oggi – difficilmente praticabile e con caratteristiche di notevole genericità, data la estrema individualità dei fattori di vulnerabilità, non solo a causa degli aspetti genetici che determinano questa vulnerabilità. Questi ultimi oggi non possono (ancora) essere modificati, così come carenze precoci di attaccamento non possono essere compensate, né è possibile modificare retrospettivamente esperienze infantili negative o traumatiche.

 

Gli obiettivi che sarebbe utile perseguire sono di due tipi: il primo è focalizzato sulle caratteristiche del gruppo di lavoro, la sua formazione, la sua omogeneità e il suo funzionamento, sia interno che con i pazienti. Investire in questa direzione costa (energie e risorse), ma una buona organizzazione del gruppo di lavoro e un clima interno sereno e collaborativo ha documentate ricadute positive sul piano della protezione dei singoli dal rischio di burn out (oltre che garantire miglior livelli di qualità assistenziale) (Pellegrino, a cura di, 2020). La seconda direzione riguarda i singoli individui. Nella formazione professionale, sia in quella che si svolge nelle Scuole, sia quella che avviene sul campo, è di grande utilità affrontare in modo esplicito il valore che rivestono il coltivare interessi extralavorativi, il praticare attività fisica regolare e il mantenere il più possibile una separazione fra vita privata e vita lavorativa. Spesso questi messaggi educativi – benché tutti ne intuiscano l’importanza sulla capacità di protezione rispetto all’usura emotiva causata dal lavoro assistenziale – non vengono affrontati, a causa del malinteso (e fuorviante) timore che possano essere vissuti come un incoraggiamento a non dare tutto ciò che si ha (e si è) sul lavoro.

Bibliografia

Asioli F. (2020), Quali le conseguenze della epidemia sugli operatori sanitari?, Psicogeriatria Suppl. 1, pp. 133-136.

Brown GW., Harris TO. (1989), Life events, Unwin Hyman.

Buzzati D. (1945), Il deserto dei Tartari, Mondadori.

Carpiniello B. (2020), I servizi di salute mentale al tempo del Covid-19, Noos, 26, pp. 153-170.

De Leo D., Trabucchi M. (2019), Maledetta solitudine, Edizioni S. Paolo.

Ferro FM. (2020), Note di psicopatologia al tempo del Covid, Noos, 26, pp. 183-191.

Goldberg D., Goodyear I. (2009), Origine e decorso dei disturbi mentali, Centro Scientifico Editore.

Nahon L. (2020), Comunicazione personale, marzo.

Notarius C., Pellegrini D. (1984), Marital processes as stressors and stress mediators: implications for marital repair, in Duck S. (Ed), Personal relationships 5: Repairing Relationships, Academic Press.

Pellegrino F. (a cura di) (2000), La sindrome del burn-out, Centro Scientifico Editore.

Rozzini R. (2020a), In corsia vedere i segni e trovare le parole, Giornale di Brescia, 29 marzo, p. 10.

Rozzini R. (2020b), Energie agli sgoccioli. Ma si pensa al futuro, Giornale di Brescia 2 aprile, p. 9.

Salazar de Pablo G., Vaquerizo-Serranoa J., Catalana A., Arango C., Moreno C., Ferre F., Il Shin J., Sullivan S., Brondino N., Solmi M., Fusar-Polia P. (2020), Impact of coronavirus syndromes on physical and mental health of health care workers: systematic review and meta-analysis, J Affect Disord, 275, pp. 48-57.

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