Lo scopo di questo articolo è mettere in evidenza gli errori che si compiono nell’estendere all’età anziana il significato di alcuni noti e diffusi fattori di rischio valutati in età adulta. Non si tratta quindi di una revisione sistematica di tutta l’immensa letteratura disponibile, ma di una scelta di studi pubblicati a sostegno di questa tesi. Per quanto corposa e il più possibile onesta resta pur sempre una scelta, e di questo avvisiamo i lettori.
Peso, composizione corporea, sopravvivenza e capacità funzionale
Dopo una lunga diatriba, ormai viene dato per assodato che negli anziani esiste una relazione a forma di U – o di J – tra mortalità e peso rapportato all’altezza: mentre nei giovani al crescere del peso la mortalità – generale e cardiovascolare – sale progressivamente (1), ad età progressivamente più elevate la relazione tende ad appiattirsi ed a modificarsi nella sagoma, così che il massimo di mortalità [per le magrezze ed obesità estreme] si colloca agli estremi opposti della curva, il cui punto di minor rischio è situato in corrispondenza di un moderato sovrappeso.
Un indice cui si fa correntemente ricorso è l’“Indice di massa corporea” (Body Mass Index – BMI) determinato dal rapporto tra il peso (espresso inkg) ed il quadrato dell’altezza (espresso in m2). Per le decadi a partire dalla settima, i valori corrispondenti alla minima mortalità sono indicativamente compresi tra 25 e 30; il valore protettivo di un livello moderato di sovrappeso – facendo riferimento alle categorie canoniche stabilite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – sembra valere per differenti etnie (2). L’indice di massa corporea non riesce a distinguere la componente grassa da quella magra del corpo: ad esempio, tra gli adulti maschi sani, BMI elevati si correlano solo con alti livelli di massa grassa, non con la massa magra. Inoltre, l’indice di massa corporea può sottostimare la perdita di massa magra che si realizza negli scompensi respiratori, nelle neoplasie od in caso di dialisi.
Perciò è più utile conoscere il significato che possono assumere in età avanzata le componenti grassa e magra del corpo, anche perché sono suscettibili a modificazioni selettive mediante interventi specifici, centrati su apporti alimentari ed attività fisica mirati. In questa prospettiva, assume particolare valore l’indagine compiuta a Ginevra su oltre 3.000 uomini e donne di circa 80 anni, le cui età e cause di morte sono sovrapponibili a quelle della popolazione svizzera generale. In tali soggetti, la massa grassa e quella magra sono state studiate mediante impedenzometria, e rapportate all’altezza, creando così rispettivi indici in analogia all’indice di massa corporea. La composizione corporea è risultata ininfluente sulla mortalità nelle donne, in un lasso di tempo compreso tra 1 e 22 anni. Viceversa, indici di massa magra più alti (superiori a 19,5 kg/m2) hanno conservato un significato protettivo rispetto alla mortalità anche dopo aggiustamento per svariati fattori, compresa la comorbosità (3). Va ricordato che anche per la capacità funzionale vale tra gli anziani la relazione ad U con l’indice di massa corporea, ove il massimo rischio di malfunzionamento si situa agli estremi della curva, per i valori più alti e più bassi di ponderosità (4).
Lo sbilanciamento tra componente corporea magra e grassa, sia per gli uomini ma ancor più per le donne anziane, costituisce un rischio di limitazione funzionale (5, 6). Peso ed assetto corporeo sono coinvolti anche in riferimento alla “fragilità”: una condizione di vulnerabilità che riguarda circa 1 anziano su 10 – ma molti di più nel caso siano presenti solo alcuni degli elementi/criteri che definiscono tale sindrome (debolezza, lentezza, perdita di peso, inattività, esauribilità).
Il sovrappeso e l’obesità presenti nella quinta decade hanno rispettivamente raddoppiato e quintuplicato l’eventualità di diventare “fragili”, nei maschi inizialmente sani, studiati a distanza di 26 anni nell’Helsinki Business Study (7). Superata la soglia dei 65 anni, ed anche adoperando due definizioni concettualmente differenti di “fragilità”, in 3.055 uomini e donne nell’English Longitudinal Study of Ageing nuovamente si ripresenta la curva “ad U”, ove il rischio minore di fragilità si situa tra 25 e 25,9 di BMI. Circonferenze addominali superiori a 88 cm per le donne e a 102 cm per gli uomini si associano a maggiori probabilità di essere “fragili”, per qualsiasi valore di BMI, comprese le persone sottopeso, a sottolineare il ruolo della “obesità tronculare” – quindi con un “giro-vita” elevato, magari isolato rispetto alla composizione corporea globale (8).
Invecchiamento metabolico ed invecchiamento cerebrale
Il rapporto tra cambiamenti nell’indice di massa corporea e l’incidenza di demenza è stato studiato in 4181 maschi di 65-84 anni nell’ indagine, condotta a Perth, in Australia, a partire dal 1996-1998 fino al 2001-2004. Rispetto a chi ha mantenuto stabile il proprio indice di massa corporea, le persone che hanno avuto perdite in BMI superiori a 1 kg/m2 sono andate incontro al rischio più alto di sviluppare demenza (quasi un raddoppio di rischio): questa tendenza è risultata valida per tutte le categorie ponderali (sottopeso, normali, sovrappeso, obesi). La relazione tra i cambiamenti nell’indice di massa corporea e l’incidenza di demenza assume una forma a J rovesciata, dove il livello di rischio più basso riguarda le persone il cui BMI rimane stabile (9). Nella stessa città, su un campione più ampio di 12.407 maschi di età compresa tra i 65 e gli 84 anni, seguiti dal 1996 al 2009, l’attenzione è stata focalizzata sul rapporto tra “giro-vita” e “giro-fianchi”, per il quale viene usualmente posta una soglia di attenzione a valori maggiori od uguali a 0,9.
Rispetto al rischio di sviluppare demenza, è stata ricavata una relazione a forma di J rovesciata, ove il punto di minor rischio riguarda le persone in sovrappeso con rapporto nella circonferenza vita/fianchi di 1 (10). Il ruolo sfavorevole rispetto allo sviluppo di demenza (di vario tipo) per il sovrappeso e l’obesità in età adulta (con incrementi rispettivamente del 20-30% e del 100% circa), è un dato ormai acquisito, come confermato anche da una meta-analisi che ha incluso 15 studi prospettici, seguendo complessivamente decine di migliaia di persone per 36 anni (11).
Nelle persone anziane, la situazione può modificarsi sino a ribaltarsi: valori più alti di indice di massa corporea, ed un relativo declino più lento, sono risultati associati ad un rischio ridotto di sviluppare demenza, nel Kame Project, che ha seguito 1.836 americani di origine giapponese di circa 72 anni, per quasi 10 anni (12). Anche in una coorte statunitense multietnica composta da 2.476 ultra75enni di entrambi i sessi, residenti nella zona nord di New York, la sindrome metabolica non è risultata associata al rischio di sviluppare demenza, a differenza del diabete e della iperinsulinemia (13). Le cose sembrano ulteriormente complicarsi se, invece del peso in quanto tale, si studia, in persone mature o decisamente anziane, la distribuzione dell’adipe, come indicato da una ricerca su 1.301 americani di origine “latina”, residenti a Sacramento, di 60 – 101 anni all’inizio di un’osservazione durata anche oltre 8 anni. Rispetto a quelle col più basso indice di massa corporea, le persone in sovrappeso ed obese sviluppano circa metà demenze o deterioramento cognitivo senza demenza, ma quelle dal girovita più largo vanno incontro ad un rischio quasi doppio rispetto al gruppo più snello. La ragione di questa apparente contraddizione tra l’effetto protettivo del maggior peso e quello svantaggioso del grasso addominale può consistere, prima ancora che in differenti composizioni corporee, nell’associazione del grasso viscerale con dis-regolazioni metaboliche (14, 15).
Anche in una popolazione di ultra75enni maschi taiwanesi sono stati rilevati risultati contraddittori. In 276 soggetti aventi in media 82 anni, l’età cronologica e l’obesità centrale costituivano fattori di rischio per il declino cognitivo, ma la sindrome metabolica giocava un ruolo protettivo, comunque venisse definita: secondo i criteri “National Cholesterol Education Program” (NCEP) – “Adult Treatment Panel III Guideline” (ATPIII) o secondo i criteri “International Diabetes Federation” (IDF) (16). Peraltro l’associazione tra sindrome metabolica e declino cognitivo sembra tenere solo per le persone di età inferiore a 70 anni: in una meta-analisi che ha coinvolto 19.522 soggetti di età compresa tra 59 ed 85 anni reclutati in 13 studi longitudinali, al di là degli aspetti metodologici sottolineati nell’editoriale di commento, nelle conclusioni si afferma che “l’età sembra modificare la relazione tra sindrome metabolica e declino cognitivo.
Questi risultati enfatizzano l’importanza di modelli predittivi del rischio di demenza stratificati per età in soggetti con disordini metabolici cronici” (17, 18). Nella demenza di origine vascolare, il ruolo dei fattori di rischio cardiovascolare tradizionali sembra confermato. Lo studio delle 3 città francesi: Digione, Montpellier e Bordeaux, condotto su 7.738 ultra65enni seguiti per 4 anni, riporta una maggiore incidenza di demenza vascolare – ma non di tipo Alzheimer, in caso di “sindrome metabolica” [definita – secondo criteri NCEP ATPIII – dalla presenza di almeno 3 tra le caratteristiche: ipertensione arteriosa (> 130/85 mmHg), circonferenza addominale > 88 cm per le femmine e 102 cm per i maschi, trigliceridemia > 150 mg/dL, colesterolemia HDL < 40 mg/dL per i maschi e < 50 mg/dL per le femmine, ed iperglicemia (> 110 mg/dL a digiuno o > 200 mg/dL non a digiuno) – oppure l’assunzione di ipoglicemizzanti]. Solo l’ipertrigliceridemia, tra le singole componenti della sindrome metabolica, è risultata associata ad un rischio aumentato di demenza da tutte le cause (quasi del 50%) e specificamente di origine vascolare (di oltre il 100%) (19).
La mancata associazione dell’ipercolesterolemia in età avanzata con la demenza di Alzheimer – a differenza di quanto riscontrato in età adulta – viene generalmente interpretata negli studi epidemiologici attribuendo all’ipocolesterolemia senile il significato di segno pre-clinico della malattia degenerativa cerebrale; un discorso simile viene avanzato per il ruolo ambivalente dell’obesità: collegata alla demenza di Alzheimer in età adulta/protettiva in età avanzata (20). L’attenzione degli studiosi si è focalizzata nel tempo sui singoli componenti della sindrome metabolica rispetto al declino cognitivo. Uno studio finlandese su 101 donne seguite per 12 anni a partire dai 60-70 anni ha rimarcato il ruolo sfavorevole di bassi valori nella colesterolemia HDL (21).
In una fase dello Studio Longitudinale sull’Invecchiamento di Amsterdam sono stati investigati 1.183 partecipanti di età compresa tra 65 ed 88 anni. All’interno dell’associazione tra sindrome metabolica e cattiva prestazione cognitiva – specialmente in presenza di alti livelli di infiammazione, misurata mediante i tassi in Proteina C Reattiva – un ruolo particolare è stato giocato dall’iperglicemia – stimata indirettamente attraverso la fruttosaminemia (22). Anche uno studio trasversale italiano su 159 donne 70enni ha sottolineato il rapporto tra iperglicemia a digiuno e bassi valori al Mini Mental State Examination (23).
Un’indagine particolarmente accurata dal punto di vista statistico – metodologico (lo studio “NOMAS”) è stata condotta nella area nord Manhattan su 1.290 soggetti multietnici di origine prevalentemente ispanica, che avevano circa 65 anni all’inizio dell’indagine. La sindrome metabolica ed i rispettivi componenti sono risultati stabili a distanza di 10 anni; la (prima) valutazione neuropsicologica è stata condotta (tra il 2003 ed il 2008) quando i partecipanti avevano in media 71 anni, parallelamente all’esecuzione di una risonanza magnetica encefalica [la ri-valutazione cognitiva è in corso]. Se la sindrome metabolica è risultata in generale sfavorevole rispetto alla cognitività, solo la componente ipertensiva ha conservato – dopo vari aggiustamenti – un rapporto negativo con funzioni esecutive, linguaggio e prestazioni visuo-motorie, ma non con la memoria, alla prima valutazione cognitiva. Il risultato viene rinforzato dal collegamento tra immagini di lesioni cerebrovascolari e minori flessibilità cognitiva e velocità psicomotoria, tra i soggetti ipertesi. I risultati di NOMAS si allineano con altre osservazioni citate in discussione, per cui sia da studi longitudinali che trasversali viene ribadito fino alla quantificazione il ruolo negativo dell’ipertensione arteriosa in età adulta rispetto al declino successivo a decadi di distanza (24).
Ipertensione, fattore ambiguo
Un fattore di rischio cardiovascolare e cognitivo che con l’età presenta dati contraddittori è certamente l’ipertensione. Si sa che l’età gioca un ruolo importante per la presenza di ipertensione così come per la patologia cardiaca e per la prevalenza e incidenza delle demenze e dell’impairment cognitivo. La discussione sul significato fisiopatologico di questa associazione età-ipertensione fa parte del dibattito geriatrico da moltissimi anni (25) ed è tutt’ora non del tutto risolto, in quanto il contesto multipatologico e disfunzionale può e deve mutare il tipo di approccio clinico e l’atteggiamento terapeutico di fronte ai parametri pressori (26).
Ipertensione e morbilità e mortalità cardiovascolare
Dal punto di vista generale il “peso” dell’ipertensione sulla morbilità e mortalità cardiovascolare è abbastanza definito e gli Autori concordano su una curva a “J” del rischio per gli anziani: quindi aumento di mortalità e morbosità cardiovascolare per Pressione Arteriosa (PA) sistolica sia alta sia bassa. In effetti 11 su 11 studi esaminati mostrano questa curva in rapporto all’infarto del miocardio, anche se non per l’ictus (27). Ma quanto pesa l’età per questo rapporto? In passato si sono prodotti dati controversi, perché alcuni studi avevano dimostrato che il trattamento dell’ipertensione negli anziani riduceva la mortalità specifica ad esempio per ictus, ma non diminuiva la mortalità generale (28, 29).
Anche le successive meta-analisi degli studi riguardanti il trattamento anti-ipertensivo, confermavano questo dato (30). In anni più recenti lo studio HYVET ha portato dati a favore del trattamento negli ultra 80enni con 160 o più di PA sistolica (31). Lo studio ha coinvolto 3.845 pazienti. I risultati mostrano una riduzione del 30% nel tasso di ictus cerebri fatale e non fatale (p=0.06), una riduzione del 39% nella mortalità da ictus (p=0.05), riduzione del 21% della mortalità da ogni causa (p=0.02), riduzione del 23% della mortalità cardiaca (p=0.06) e riduzione del 64% dello scompenso cardiaco (p<0.001).
I risultati tuttavia sono da considerare con qualche cautela, perché la popolazione dello studio mostrava una comorbosità assai minore della popolazione di riferimento ed era anche un po’ più giovane. Non è noto quanti soggetti siano stati selezionati e quanti no, mentre il beneficio statistico comportava un beneficio clinico limitato perché occorreva trattare 189 persone per ogni persona preservata. Inoltre il target di trattamento era 150 mmHg, quindi un po’ più alto di quanto consigliano in genere le linee guida; il trattamento era con Indapamide, non certo il farmaco più usato e che veniva considerato un diuretico, pur avendo un meccanismo di azione abbastanza complesso.
Inoltre lo studio è stato interrotto precocemente, quindi il periodo di osservazione è stato molto limitato (32). Tuttavia, pur con tutti i limiti, è uno studio importante: in una revisione successiva, che ha introdotto anche l’HYVET fra i trials considerati, la mortalità generale risultava minore nei trattati. Gli Autori dell’articolo concludono che rimane aperta le questione del trattamento per i 90enni, per i ricoverati in residenza e per gli anziani con deterioramento cognitivo e demenza (33).
Ipertensione e cognitività: il fattore età
Parecchi anni fa i dati del Kungsholmen study avevano posto seri dubbi sul ruolo unico e deleterio dell’aumento di pressione con l’età: al di sotto dei 130 mmHg di PA sistolica si evidenziava un rischio significativo di deterioramento cognitivo, mentre per valori di PA sistolica sopra i 180 mmHg il rischio non era statisticamente significativo (34). I fattori di rischio cardiovascolari giocano sicuramente un ruolo nella patogenesi della demenza, (35) ma non mancano autorevoli dubbi sulla reale portata di queste associazioni (36).
Dagli studi di popolazione su larga scala emergono risultati contrastanti, anche se in generale si conferma la relazione a “J” già osservata per le malattie cardiovascolari, e prevale quindi il fatto che sia la PA alta sia la PA bassa sono associate a più alta probabilità di avere deterioramento cognitivo e demenza. Questo risulta confermato in diversi studi che prendono in considerazioni anche età diverse. In una review di 28 studi trasversali e 22 longitudinali si conclude che la relazione con le funzioni cognitive rimane controversa. Infatti gli studi trasversali revisionati mettono in evidenza una relazione mista con il deterioramento cognitivo associato sia a pressione arteriosa alta sia bassa, ma molti studi non mostrano nessun tipo di relazione (37).
L’età gioca però un ruolo importante. Se dati precedenti avevano mostrato che l’ipertensione in età adulta costituiva un fattore di rischio per la demenza (38), altri dati mostrano che la PA sistolica nelle donne che sviluppano demenza nel tempo aumenta di meno rispetto a quelle che non mostrano perdita cognitiva. La pressione diastolica diminuisce nel tempo, ma nelle donne che non sviluppano demenza diminuisce di meno (39). Anche nello studio di Baltimora l’associazione fra ipertensione e funzioni cognitive viene confermata come non lineare e modificata da età, scolarità e terapia anti-ipertensiva sia negli studi trasversali che nei dati longitudinali (40).
Un altro studio, sempre pubblicato nel 2005, ha dato un contributo fondamentale alla comprensione del rapporto fra ipertensione e funzione cognitiva negli anziani, distinguendo fra chi era iperteso dall’età adulta rispetto a chi sviluppava aumento di pressione solo in età avanzata. I risultati hanno mostrato chiaramente che il loro significato era opposto: l’ipertensione dell’adulto è un fattore di rischio per la perdita cognitiva, mentre l’aumento in età anziana è protettivo (41). In anni più recenti una meta-analisi, che ha preso in considerazione 18 studi, ha misurato una relazione inversa, cioè protettiva fra ipertensione in età avanzata e Alzheimer (42). Sarebbe quindi logico aspettarsi che la PA alta nelle età molto avanzate si associ a migliori prestazioni cognitive: così è infatti, ed è stato dimostrato dallo studio dei centenari australiani (43). A conferma, lo studio The Atherosclerosis Risk in Communities, uno studio prospettico di 20 anni su più di 13.000 persone in partenza e quasi 7000 alla conclusione, dimostra con numeri importanti come l’ipertensione nell’età adulta sia un fattore di rischio di declino cognitivo, mentre non lo è l’ipertensione in età anziana (44).
Una simile prospezione sembra valere anche per bassi valori di pressione diastolica o media (45), mentre negli anziani l’instabilità – indipendentemente dal valore medio dei valori pressori, misurati ogni 3 mesi, si abbina ad attenzione meno vivace, velocità di processazione cognitiva più lenta, e ridotta memoria visiva (46). Una review recente conclude che non vi sono evidenze sufficienti che il trattamento dell’ipertensione in età avanzata protegga le funzioni cognitive, ma anche per gli altri possibili benefici occorre cautela (47). Sul trattamento dell’ipertensione negli anziani con demenza vi è la revisione sistematica pubblicata da Welsh nel 2014. Lo studio ha mostrato come in generale le persone con demenza sono trattate non diversamente dagli altri anziani, anche se i rischi potenziali sono maggiori.
Ulteriori studi sono necessari per formulare linee guida dedicate al trattamento delle persone con demenza (48). Per citare studi ancora più recenti, Mossello et al. hanno pubblicato nel 2015 uno studio su 172 persone con MCI e demenza in relazione ai livelli di pressione arteriosa. Non solo il terzile più basso di PA (128 o meno) rispetto all’intermedio (129-144) e al più alto (> 145) mostrava declino maggiore al MMSE, ma vi era anche un’interazione significativa con il trattamento. La conclusione è che bassi valori di PA si associano a maggior declino cognitivo e che l’abbassamento della PA è dannoso negli anziani con deterioramento cognitivo (49). Nonostante tutti questi studi e altri ancora, il dibattito non è concluso: ancor oggi ci si pone la domanda sul significato della relazione fra PA e malattia di Alzheimer, anche se in termini sempre meno meccanici e sempre più critici verso la linearità di rapporto fra aumento di pressione e incidenza di demenza (50).
Significato dell’ipertensione negli anziani ricoverati
Ai quesiti rimasti aperti dopo HYVET, ha cercato di rispondere un altro studio di Mossello et al. sul ruolo del monitoraggio pressorio nei residenti delle strutture residenziali. Attuando il monitoraggio pressorio e seguendo per un anno 100 residenti si conclude che nessun parametro pressorio è correlato con la sopravvivenza (51). Sul tema dell’ipertensione nelle strutture residenziali una meta-analisi ha analizzato 16 studi condotti nelle Nursing Homes degli Stati Uniti nella quale si osserva che aumenta nel tempo il numero dei farmaci ipotensivi prescritti, ma non migliora il controllo della pressione arteriosa, né si osservano benefici negli indicatori funzionali (48).
Per l’ipertensione si può quindi concludere che l’età di esordio rappresenta un fattore decisivo per definire la sua portata come fattore di rischio: nell’età adulta pesa negativamente sull’evoluzione delle funzioni cognitive, mentre non è dimostrato questo ruolo nell’età anziana, fino ad invertire l’associazione nei grandi vecchi.
Conclusioni
L’ambiguità dei fattori di rischio tradizionali, che durante l’invecchiamento possono assumere significati polivalenti, ci richiama alla possibile estensione del concetto di “invecchiamento di successo”. Nella newsletter del mese di maggio 2015 dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (www.psicogeriatria.it/pubblicazioni/?t=newsletter), il Prof. Marco Trabucchi ha paventato il timore che questo termine induca a comportamenti discriminatori tra chi invecchia bene e chi invece costituirebbe un “carico” per la collettività: “se ti ammali da vecchio è perché non ti sei comportato bene in età matura …”.
Magari questa preoccupazione può venire stemperata se pensiamo che, a distanza di oltre 50 anni da quando Havigurst coniò nel 1961 il termine, dell’invecchiamento di successo sono note più di 100 accezioni (52, 53). Se è possibile invecchiare con successo anche in presenza di malattia ed invalidità, conviene abbandonare in gerontologia clinica una visione angusta dei “fattori di rischio” derivati dalla medicina delle persone giovani ed adulte, per aprirsi ad equilibri nuovi, lontani dalla normalità, magari più delicati, ma anche più arditi.
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