Il Quotidiano Sanità ha recentemente diffuso la sintesi, relativa alle dimensioni attuali e alle prospettive del fenomeno delle patologie croniche in Italia, del “Rapporto Osservasalute 2018. Stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane” – coordinato da Alessandro Solipaca e Walter Ricciardi, pubblicato sul sito dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Gli italiani affetti da almeno una patologia cronica erano, nel 2017, 24 milioni, quasi il 40% della popolazione italiana; più della metà di loro – 12,6 milioni – ha due o più patologie croniche. Ambedue le cifre, secondo le proiezioni dei ricercatori dell’Osservatorio sulla Salute, sono destinate a crescere nel 2028 rispettivamente a 25 ed a 14 milioni. L’ipertensione è la patologia cronica più frequente (ne sono affetti quasi 11 milioni di italiani), seguita dall’artrosi/artrite (9,7 milioni), dalle malattie allergiche (6,4 milioni), dall’osteoporosi (4,8 milioni), dalla bronchite cronica (3,5 milioni) e dal diabete mellito (3,4 milioni) (figura 1).
Per rispondere alla domanda posta dalla malattia cronica, l’Italia spende già oggi 66,7 miliardi di Euro, che aumenteranno, sulla base delle proiezioni demografiche fornite dall’Istat, fino a 70,7 miliardi nel 2028. L’impatto principale sulla spesa sanitaria – secondo i dati ricavati dal database del centro di ricerca Health Search (HS) istituito nel 1998 dalla Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMMG)1– spetta allo scompenso cardiaco ed alle cardiopatie ischemiche, seguiti dalla BPCO (Bronco Pneumopatia Cronica Ostruttiva), dal diabete mellito e dall’ictus.
Il diverso impatto della cronicità: differenze di età, di genere, di condizioni socio-economiche
La prevalenza delle patologie croniche aumenta ovviamente con l’età. Se, come abbiamo visto, il 40% della popolazione italiana è affetta da almeno 1 malattia cronica ed il 21% da almeno 2, tali percentuali salgono rispettivamente all’86% ed al 66% dopo i 75 anni: un aumento progressivo con l’età cui sfuggono – delle malattie croniche più frequenti – solo le malattie allergiche e l’asma bronchiale, che segnano una più elevata prevalenza nei primi decenni della vita.
Per quanto riguarda le differenze di genere, solo nei primi anni della vita, al di sotto dei 18 anni, la prevalenza delle malattie croniche è più elevata nei maschi, grazie alla maggiore presenza di malattie allergiche; in tutte le altre fasce d’età, le donne sono più frequentemente affette da tali patologie. A fronte del 37% degli uomini, il 42,6% della popolazione femminile italiana è affetta da almeno una malattia cronica; il 24,5% delle donne presenta 2 o più patologie croniche rispetto al 17% degli uomini.
E’ interessante notare come rispetto ad alcune patologie che per tutto l’arco della vita prevalgono nel sesso femminile (l’artrosi e l’osteoporosi, che interessano rispettivamente il 20,9% ed il 13,2% delle donne rispetto all’11,1% ed al 2,3% degli uomini), rimane più elevata negli uomini rispetto alle donne la prevalenza delle sole cardiopatie e, in misura minore, del diabete mellito. Con l’età si accentuano le differenze tra i due sessi, a svantaggio per lo più delle donne (salvo che per cardiopatie e diabete mellito, in cui aumenta lo svantaggio a carico degli uomini), mentre si verifica una riduzione delle differenze tra i due sessi per quanto riguarda l’ipertensione – in età adulta più frequente negli uomini – e, secondo il database dell’Health Search, lo scompenso cardiaco. La più elevata prevalenza nelle donne della polipatologia cronica, così come di malattie – l’artrosi e l’osteoporosi – ad elevato impatto sull’autonomia motoria e funzionale in genere, spiega il più elevato tasso di disabilità e di dipendenza che, come vedremo in seguito, caratterizza in età avanzata la popolazione femminile rispetto a quella maschile.
Il livello di istruzione (generalmente espresso come numero di anni di scolarità) è utilizzato negli studi epidemiologici come un proxy delle complessive condizioni socio-economiche della popolazione studiata. Generalmente infatti più elevati livelli di istruzione correlano con migliori condizioni di reddito, con attività lavorative meno usuranti sul piano fisico e cognitivamente più stimolanti, con situazioni abitative più adeguate e con una maggiore health literacy, che consente una migliore consapevolezza dei determinanti della salute e una più cosciente partecipazione alla gestione delle proprie condizioni di salute e di malattia. Il tasso di scolarità correla pertanto con pressochè tutte le patologie acute e croniche, con i livelli di autonomia, con la stessa speranza di vita. La prevalenza delle malattie croniche in Italia non sfugge a questa “regola”: la percentuale di persone con almeno una patologia cronica aumenta di quasi 15 punti percentuali nella fascia di età compresa tra i 45 ed i 64 anni (da 41,3% a 56%) e di 9 punti (da 74,3% a 83,2%) negli ultrasessantacinquenni, se si confrontano i laureati con le persone in possesso al massimo della licenza elementare, mentre le percentuali di persone con 2 o più malattie croniche raddoppia nella fascia 45-64 anni (da 16,2% a 32,9%) e passa dal 42,4% al 63,4% ai di sopra dei 65 anni (figura 2).
Il livello di istruzione influenza anche il grado di autonomia delle persone anziane. La percentuale di anziani che presenta gravi difficoltà nelle attività di base della vita quotidiana risulta 3 volte più elevata nelle persone con il livello più basso di scolarità rispetto alle persone laureate sia nella media dei Paesi europei (12,0% vs 3,8%) che in Italia (13,0% vs 4,1%): una differenza che si accentua per le donne, soprattutto nel nostro Paese (16,1% vs 3,0%).
Anche i dati relativi alla presenza di patologie croniche per condizione lavorativa – elaborati sui dati forniti dall’Indagine Istat del 2017 relativa agli “Aspetti della vita quotidiana” – segnalano una più elevata prevalenza delle malattie croniche, soprattutto multiple, tra le persone disoccupate e i lavoratori inseriti in un raggruppamento contenente “lavoratori in proprio, coadiuvanti familiari, co.co.co”.
La cronicità in Italia e le differenze territoriali
Non è facile delineare un quadro univoco della differente prevalenza delle patologie croniche nelle regioni italiane. Se in Liguria, probabilmente in ragione della più elevata età media dei suoi abitanti, si riscontra la più alta percentuale di abitanti affetti da almeno una malattia cronica (45,1%, rispetto alla media nazionale del 39,9%), ai primi posti troviamo alcune regioni del Sud Italia (Calabria, Basilicata, Sardegna, Molise), ma anche l’Umbria, mentre al di sotto della media nazionale troviamo la Valle d’Aosta, la Provincia Autonoma di Bolzano (che presenta la prevalenza più bassa per tutte le patologie) e sia pur di poco le altre regioni del Nord-est (Trentino, Veneto, Friuli Venezia Giulia), ma anche Lazio, Puglia e Campania.
I dati sulla distribuzione territoriale delle condizioni di disabilità nelle diverse regioni, elaborati a partire dai risultati dell’Indagine europea sulla salute relativa al 2015, coincidono solo in parte con quelli riferiti alle patologie croniche. Se la Provincia Autonoma di Bolzano (con Trento) si conferma ai livelli più bassi per le limitazioni dell’autonomia motoria (camminare in piano e fare le scale) – ma non per il deficit uditivo, la percentuale di persone con limitazioni nelle attività quotidiane risulta in Liguria inferiore per tutte le limitazioni alla media nazionale (a comprova della dimensione multifattoriale della disabilità?). Complessivamente, prendendo in considerazione sia le limitazioni visive, uditive e motorie che limitano l’autonomia nella vita quotidiana sia la difficoltà, riferita dagli intervistati, a svolgere “attività di cura della persona”, le percentuali di persone che ne sono interessate sono comunque più elevate nelle regioni del Sud rispetto al Nord ed al Centro, sia nella fascia di età tra i 14 ed i 64 anni che tra gli ultrasessantacinquenni.
E’ difficile non riportare questi dati, che segnalano peggiori condizioni di salute e di autonomia nelle regioni meridionali, alle più precarie condizioni socio-economiche ed alle minori performance dei servizi socio-assistenziali e dei sistemi sanitari che caratterizzano questa parte del nostro Paese. Così come a minori opportunità di accesso ai servizi sociali e sanitari, oltre che a condizioni socio-economiche più precarie e a più bassi tassi di scolarità, potrebbe essere riferita la più elevata quota di cronicità riscontrata nei piccoli Comuni (al di sotto dei 2.000 abitanti).
Stato di salute e malattie croniche nel confronto europeo
L’Italia, ricorda il Rapporto Osservasalute, è tra i Paesi più longevi in Europa e nel mondo, con una speranza di vita (Life Expectancy – LE) alla nascita (dati 2015) di 80,3 anni per gli uomini e di 84,9 anni per le donne, a fronte di una media dei Paesi dell’Unione Europea (UE) di 77,9 anni per gli uomini e di 83,3 anni per le donne . Anche rispetto agli anni di vita attesa, all’età di 65 anni gli uomini e le donne italiane vivono in media 1 anno in più del valore medio europeo (rispettivamente, 18,9 anni vs 17,9 anni e 22,2 anni vs 21,2 anni). Ad una speranza di vita superiore alla media europea corrisponde peraltro per l’Italia una speranza di vita senza limitazioni (Healthy Life Years – HLY) ) inferiore alla media europea: se per il primo parametro l’Italia è al secondo posto in Europa per gli uomini ed al terzo posto per le donne, per gli HLY scende rispettivamente all’undicesimo ed al quindicesimo posto (rispettivamente appena sopra e sotto la media europea).
Dei 19,4 anni che gli uomini italiani si aspettano di vivere a 65 anni solo 10,4, il 53,6%, non saranno accompagnati da alcuna limitazione: una percentuale vicina a quella dell’Europa a 28 (il 53,8%), ma molto inferiore a quella della Germania (il 63,6%) e soprattutto della Svezia (il 79,1%); per le donne italiane la quota di vita attesa a 65 anni in piena autonomia è ancora più ridotta: 10,1 anni su 22,9, il 44,1%, contro il 46,8% della media europea, il 58,2% della Germania ed il 77,2% della Svezia (figura 3)2.
Questi dati si confermano se si prende in considerazione la salute percepita e si sommano le persone che dichiarano di stare male o molto male. E la presenza in Italia di una quota di ultraottantenni superiore alla media europea (il 6,5% contro il 5,3%) spiega solo in parte questo divario nei livelli di autonomia.
Prendendo poi in considerazione la prevalenza delle patologie croniche nella popolazione di età 15 anni e più, l’Italia presenta prevalenze analoghe alla media dell’UE a 283. Se però si suddividono i dati per grandi classi di età (da 15 a 64 anni, da 65 a 74 e al di sopra dei 75), per quasi tutte le patologie la prevalenza è più bassa in Italia fino all’età di 65 anni, mentre oltre questa età, ed in particolare negli ultra75enni (anche in virtù della già citata maggior quota di ultra 80enni nel nostro Paese), molte malattie (in particolare BPCO, depressione, ipertensione, diabete mellito ed infarto del miocardio) sono più diffuse nel nostro Paese rispetto alla media europea.
Un quadro analogo emerge dal confronto tra l’Italia e gli altri Paesi europei per quanto riguarda le limitazioni sensoriali e motorie. In tutti i Paesi tali limitazioni aumentano con l’età e sono più significative nelle donne rispetto agli uomini. In Italia la percentuale di persone che soffrono di tali limitazioni è molto vicina al valore medio europeo se si considera tutta la popolazione al di sopra dei 15 anni; al contrario, il peggioramento nella popolazione anziana (nelle due fasce di età tra i 65 e i 74 ed oltre i 75 anni) è più accentuato nel nostro Paese rispetto alla media europea. Allo stesso modo, il divario a svantaggio del genere femminile si presenta nettamente superiore nel nostro Paese, soprattutto al di sopra dei 75 anni. Un simile andamento si osserva, come peraltro atteso, per il grado di autonomia degli anziani nella vita quotidiana: se nella fascia di età 65-74 anni la prevalenza di grave compromissione dell’autonomia nelle attività di base quotidiane è in linea con la media dei Paesi dell’UE, dai 75 anni in su tale compromissione è significativamente più elevata per gli uomini e soprattutto per le donne italiane.
Le sfide della malattia cronica
L’irrompere delle patologie croniche nel quadro epidemiologico della popolazione mondiale ed il loro affermarsi come il principale problema per i sistemi sanitari di tutto il pianeta rappresenta tuttora (nonostante la letteratura scientifica e le istituzioni sanitarie internazionali ne avessero da molti anni sottolineato l’urgenza) una sfida molto importante:
- per i cittadini che ne sono affetti, che tendono ancora a riconoscere solo negli interventi della medicina e nel progresso scientifico e tecnologico la possibilità di modificare l’evoluzione della propria malattia e fanno fatica ad assumere un ruolo più cosciente ed attivo nella prevenzione e nella tutela quotidiana delle proprie condizioni di salute;
- per il modello di medicina tuttora prevalente, nato e consolidatosi in risposta alla malattia acuta e fondato su modelli epistemologici oltre che operativi (l’intensività e la tempestività della risposta, la specializzazione, la centralità dell’ospedale e la sua resistenza a dialogare con il “mondo esterno”) difficilmente trasferibile alla presa in carico della persona affetta da malattia cronica – che richiede al contrario modelli basati sull’approccio proattivo, sulla definizione e la costante verifica di progetti “longitudinali”, sulla centralità delle cure primarie, sul riconoscimento della molteplicità dei fattori determinanti l’equilibrio salute-malattia e sulla valorizzazione dell’integrazione multiprofessionale a livello territoriale;
- per i medici, ancora in difficoltà nell’affiancare al metodo clinico tradizionale, innervato dal crescente utilizzo della tecnologia, un approccio basato sulla valutazione multidimensionale, sulla condivisione con altre figure professionali sanitarie e sociali del progetto di cura, sulla ricerca e la promozione di nuovi possibili livelli di equilibrio funzionale e di autonomia personale;
- per i sistemi di welfare e per la loro sostenibilità, messa a dura prova dall’invecchiamento della popolazione e dal correlato progressivo aumento delle patologie croniche, “problemi di salute che richiedono un trattamento continuo durante un periodo di tempo da anni a decadi” (OMS) e che comportano a livello mondiale un impegno crescente di risorse sanitarie, sociali ed economiche.
Nel dicembre 2015 la Giunta Regionale Lombarda ha varato gli “Indirizzi per la presa in carico della cronicità e della fragilità in Regione Lombardia”. Poco meno di un anno dopo l’Intesa Stato-Regioni ha approvato – in attuazione del “Patto per la Salute per gli anni 2014-2016” – il Piano Nazionale della Cronicità, raccogliendo le indicazioni dei Piani d’azione dell’OMS e dell’Unione Europea.
Ambedue i documenti – così come la letteratura scientifica ed istituzionale internazionale – sottolinenano la peculiarità della malattia cronica nei confronti del “modello” di malattia acuta e sollecitano “un cambio di paradigma”, “una nuova cultura” che deve coinvolgere il sistema, i servizi, i professionisti e gli stessi cittadini che ne sono affetti (che per le caratteristiche della patologia cronica e la sua “diversità” vorrei dire ontologica dalla malattia acuta risulta difficile, almeno per una fase non breve della sua evoluzione, definire “ammalati”). L’auspicato cambio di paradigma resta peraltro per buona parte solo un obiettivo, mentre la nuova cultura di approccio alla sfida posta dalla cronicità fatica ancora ad imporsi sia ai decisori politici che agli attori principali, professionisti della salute e cittadini.
In particolare, il modello di presa in carico della cronicità avviato dalla Regione Lombardia – peraltro tuttora ampiamente incompiuto – con la sostanziale cancellazione dei distretti socio-sanitari e l’ulteriore penalizzazione del ruolo dei Comuni ha perso per strada proprio quella dimensione territoriale che sola può essere garanzia di integrazione socio-sanitaria e di programmazione condivisa di politiche di promozione della salute (che non possono ovviamente essere solo sanitarie, ma devono coinvolgere gli enti locali e le molteplici articolazioni della comunità). In questo contesto, il “Piano Assistenziale Individuale (PAI)” redatto dal MMG non va oltre la programmazione degli interventi diagnostici previsti dai PDTA, mentre resta ancora in buona parte incompiuto quell’investimento sulle cure domiciliari e sulla Long-Term Care necessario per superare il gap che separa la Lombardia dalle realtà europee con cui è chiamata a confrontarsi.
L’approccio clinico alla cronicità
Già si è accennato alla difficoltà della medicina nell’adeguare l’approccio clinico alla malattia cronica. E’ utile in proposito richiamare la distinzione operativa proposta dal Piano Cronicità della Regione Lombardia tra persone affette da malattie croniche non complicate, malattie croniche complicate e malattie croniche complesse4. Tra le prime troviamo la maggior parte delle persone con monopatologia cronica, spesso in età presenile, ed almeno una quota dei cittadini multimorbidi, “che richiedono solo supporto all’auto-cura (self-management), monitoraggio frequente o interventi di promozione della salute o di prevenzione secondaria”.
Alla categoria delle malattie croniche complicate appartengono singole patologie già complicate o la maggior parte delle situazioni “con più condizioni morbose concomitanti, che richiedono … presa in carico e continuità delle cure, cioè … una gestione sinergica e integrata … attraverso il raccordo continuo tra più professionisti del livello specialistico e delle cure primarie (PDTA)”. Se il modello di approccio clinico alla singola malattia cronica, pur all’interno di una presa in carico obbligatoriamente multidimensionale (indispensabile per intervenire, con la partecipazione attiva della persona, sui molteplici fattori che intervengono sulla genesi e sull’evouzione della malattia) può agevolmente far riferimento all’evidence based medicine ed alle linee guida che da essa discendono, più ardua si presenta la gestione della multi-cronicità.
E’ ben noto infatti che l’applicazione acritica alle singole patologie di interventi terapeutici pur basati sull’evidenza può, soprattutto in presenza di un numero elevato di malattie croniche (situazione del resto tutt’altro che rara, in particolare nelle persone anziane), esporre il paziente ai rischi anche seri della polifarmacoterapia: rischi che, nell’attuale carenza di linee guida sulla multimorbilità, possono essere contenuti solo grazie alla capacità di prevedere le complesse interazioni tra le diverse condizioni morbose ed i diversi farmaci e di individuare criticamente la gerarchia degli interventi da attivare.
La necessità di tale approccio – ispirato di fatto ai modelli culturali ed operativi della moderna geriatria – è ancora più evidente nel caso delle malattie croniche complesse, situazioni che possono comportare una marcata riduzione delle riserve funzionali di molteplici sistemi, tali da compromettere le capacità omeostatiche dell’individuo (fragilità), fino alla perdita dell’autosufficienza e che richiedono tanto la continuità tra cure ospedaliere e domiciliari quanto una forte integrazione tra servizi ed operatori dell’area sanitaria, sociosanitaria e sociale. Proprio il percorso che dalla (poli)patologia cronica conduce alla fragilità ed alla non autosufficienza rappresenta d’altra parte la vera sfida della medicina moderna, chiamata a confrontarsi con l’invecchiamento della popolazione. Si tratta di un percorso sul quale agiscono, nel corso di tutta l’esistenza della persona, una molteplicità di fattori – socio-culturali, ambientali, psicologici, funzionali – protettivi e di rischio, capaci di orientare ancor più dei fattori genetici la direzione della traiettoria di vita.
Se un approccio clinico “critico”, capace di coniugare la medicina dell’evidenza con la medicina narrativa e la ri-valutazione della relazione medico-paziente, appare necessario nella gestione della persona affetta da multipatologia cronica, l’approccio precocemente globale, multidimensionale e perciò stesso aperto all’integrazione multidisciplinare, a condizioni cliniche, funzionali ed esistenziali caratterizzate dalla complessità dei determinanti in campo e dalla precarietà degli equilibri che faticosamente l’organismo – e la persona – costruiscono nel tempo, è ancor più indispensabile per prevenirne o rallentarne il percorso verso la fragilià e la dipendenza. Un percorso tutt’altro che obbligato e, come dimostra la letteratura, in buona misura reversibile.
Dalla patologia cronica alla fragilità e dipendenza
Il Rapporto di Osservasalute sulla patologie croniche offre molteplici spunti per riflettere sulla relazione tra invecchiamento della popolazione e cronicità e sulla possibile traiettoria che dalla (poli)patologia cronica conduce alla fragilità ed alla disabilità.
In estrema sintesi possiamo sottolineare i seguenti dati, in buona parte già noti:
- l’aumento della prevalenza di malattie croniche, soprattutto multiple, e di condizioni di disabilità sensoriale e motoria nelle fasce di età tra i 65 ed i 74 anni e negli ultra75enni;
- un costante divario di genere, a svantaggio delle donne, sia nella prevalenza di situazioni di cronicità che nella dipendenza nelle ADL;
- l’impatto negativo della bassa scolarità (e di condizioni socio-economiche più sfavorevoli);
- una differente distribuzione di questi fenomeni a livello territoriale, complessivamente a svantaggio delle regioni del Sud Italia;
- un preoccupante divario rispetto alla media dei Paesi europei (ed in particolare a quelli che si caratterizzano per un welfare più evoluto) in termini di speranza di vita senza limitazioni e di aumento nelle età più avanzate di condizioni di cronicità e dipendenza (fenomeni, questi ultimi, solo in parte giustificati dalla presenza in Italia di una quota di ultraottantenni superiore alla media europea).
Il prevedibile aumento nei prossimi due decenni della percentuale di persone anziane, soprattutto dei “grandi vecchi”, autorizza gli estensori del Rapporto ad ipotizzare un aumento tanto del numero di persone affette da malattie croniche quanto della spesa per la cronicità. Ma proprio i dati offerti dal Rapporto indicano anche una molteplicità di possibili strategie – a livello politico, sociale, individuale – per contenere le conseguenze negative delle dinamiche demografiche.
Se la cultura e la pratica medica devono far propri i principi sopra ricordati per l’approccio alla patologia cronica ad evoluzione invalidante, è necessario un analogo salto culturale che aumenti nei cittadini la consapevolezza dello stretto rapporto tra gli stili di vita e la salute e la maggior parte delle malattie croniche. Non siamo all’anno zero: secondo i dati dell’Indagine Europea sulla salute (EHIS) relativi al 2017, l’Italia presenta una minore diffusione di alcuni fattori di rischio di malattia come l’obesità (è al 27° posto nella graduatoria) e l’abitudine al fumo (20° posto). Ma molto ancora rimane da fare, in particolare per la pratica di attività fisica da moderata a intensiva per almeno 150 minuti a settimana (20° posto) ed il consumo di almeno 5 porzioni giornaliere di frutta e verdura (15° posto). E ancor troppo raramente la “prescrizione” di stili di vita salutari entra a far parte del bagaglio terapeutico del medico.
Ancor più urgente appare una diversa assunzione del problema da parte dei decisori politici, per contrastare le diseguaglianze – di scolarità, di reddito, di opportunità lavorative, di accesso ai servizi sanitari e sociali – che ancora affliggono il nostro Paese e valutare tutte le scelte politiche alla luce della loro capacità di incidere sulla salute e sul benessere della popolazione e di favorire quell’active aging che l’OMS da tempo sollecita.
Come infatti ricorda l’OMS “il peso delle malattie non trasmissibili rappresenta una delle maggiori sfide dei nostri tempi. Queste malattie originano da fondamentali iniquità che riguardano i determinanti sociali ed economici della salute, l’accesso a servizi tempestivi di alta qualità, l’informazione sanitaria, gli ambienti di vita e altri fattori sociali. A loro volta esse generano condizioni di svantaggio” peggiorando le condizioni di salute e aumentando il rischio di povertà.
Foto di Steve Buissinne da Pixabay
Note
- Si tratta di dati ricavati da tale database – denominato Health Search-IMS Longitudinal Patient Database (HS IMS LPD) – riferiti ad oltre 1 milione di pazienti assistiti, al 31 dicembre 2016, da 800 medici di medicina generale (MMG) considerati “fornitori” di dati sufficientemente accurati (vedi il capitolo “Dimensione cronica delle patologie in Medicina Generale: le cronicità” del Rapporto Osservasalute)
- Per approfondimenti: Health at a Glance. Europe 2018 State of Health in the EU Cycle, OECD
- Diabete mellito 6,7% Italia vs 6,9% UE; ictus 1,4% vs 1,3%; ipertensione 20,6% vs 21,0%; asma 4,8% vs 5,9%), malattia coronarica o angina pectoris 2,5% vs 3,4%; depressione 5,5% vs 7,1%; bronchite cronica e BPCO 5,1% vs 4,1%; infarto del miocardio 2,0% vs 1,6%.
- Sulla base di tale distinzione la Regione Lombardia, grazie ai dati forniti dalla Banca Dati Assistiti, ha stratificato la popolazione lombarda affetta da almeno una patologia cronica (3,5 milioni, il 30% della popolazione totale), inquadrando nelle 3 categorie rispettivamente 1,9 milioni, 1,3 milioni e 150.000 cittadini lombardi