I risultati della ricerca farmacologica sui farmaci per le demenze cosiddetti “disease modifying”, non sono fino ad oggi incoraggianti, anzi. Anche i farmaci biologici, cioè i vaccini attivi e passivi, hanno successivamente dimostrato di non produrre risultati, tanto che poche speranze restano relativamente al fatto che modificazioni marginali delle molecole possano in futuro produrre i risultati attesi.
Forse anche per questo l’attenzione e le speranze per le persone con demenza si spostano sulle possibilità di intervento non farmacologico: dagli interventi ambientali -comportamentali -preventivi a quelli terapeutico-riabilitativi. Ma la demenza risente di questi aspetti ambientali e psico-sociali? Alcuni articoli hanno di recente messo in luce come le cose siano in movimento e in movimento positivo per l’epidemiologia della malattia di Alzheimer e delle altre demenze. Questa alternanza di positivo e negativo è ben rappresentata dal New England Journal of Medicine, che il 23 gennaio 2013 pubblica un pessimistico articolo – review dal significativo titolo di “The Underside of the Silver Tsunami — Older Adults and Mental Health Care” (S.J. Bartels, J. A. Naslund, N Engl J Med 2013; 368:493-496) a proposito della prospettiva mondiale delle richieste di cura dei molto anziani con problemi cognitivi, mentre alla fine dell’anno scorso, il 27 di Novembre, pubblica un editoriale di commento a cura di Larson , Yaffe e Langa, nomi importanti della epidemiologia geriatrica e psichiatrica, assai più ottimistico anche se il titolo resta prudente: “New Insights into the Dementia Epidemic” (N Engl J Med. 2013 Dec 12;369(24):2275-7). Il contenuto è meno prudente e si sbilancia decisamente di più a favore dell’ipotesi di un “effetto coorte” che ha portato e porterà alla riduzione della prevalenza e incidenza della demenza.
Questo ottimismo deriva da una serie di articoli, a partire da una ampia analisi dei dati pubblicati nel 2005 su “Advances in Gerontolgy” da Manton (Adv Gerontol 2005;16:30-37) per arrivare agli ultimi dati del 2013. Questo loro commento arriva quindi dopo che già alcuni importanti segnali di diminuzione di prevalenza delle demenze erano stati pubblicati, compreso un articolo degli stessi Langa e Larson (KM Langa, EB Larson, JH,Karlawish et al. Trends in the prevalence and mortality of cognitive impairment in the United States: is there evidence of a compression of cognitive morbidity? Alzheimers Dement 2008;4:134-144). In questo articolo, che aveva avuto una certa risonanza nel 2008, gli autori si chiedevano: ”is there evidence of a compression of cognitive morbidity?” e rispondevano positivamente alla domanda.
Confrontando la prevalenza del deterioramento cognitivo degli ultra70enni del 1993 con quella dei coetanei del 2003 si passava dal 12,2 % all’8,7%: una diminuzione quindi decisamente significativa anche come possibile impatto sociale e non solo come diminuzione “numerico – statistica”. Un caso solo statunitense, magari legato a particolari situazioni ambientali ed economico sociali di quel paese? Pare proprio di no. Una conferma importante è venuta da alcuni studi effettuati in Europa. Il Rotterdam Study a maggio 2012 su Neurology (E.M. Schrijvers, B.F. Verhaaren, P.J. Koudstaal et al Is dementia incidence declining?: Trends in dementia incidence since 1990 in the Rotterdam Study. Neurology. 2012 May 8;78(19):1456-63) confermava il dato della diminuzione, questa volta dell’incidenza e non della sola prevalenza. In effetti il lavoro pubblicato da Langa nel 2008 adombrava che la riduzione di prevalenza poteva essere attribuita più ad una minore durata della malattia nelle coorti successive piuttosto che ad una diminuzione dell’ incidenza.
Lo studio di Rotterdam indica, anche se non proprio dimostra, come anche l’ incidenza, cioè il numero di nuovi casi, stia diminuendo. Lo studio ha potuto seguire per almeno 5 anni persone inizialmente libere da demenza, confrontando due coorti indipendenti, una partita nel 1990 (oltre 5000 persone), l’altra dieci anni dopo, nel 2000 (oltre 1700 persone). Giustamente nel titolo dell’articolo si parla di trend, perché le differenze sono “borderline” non decisamente significative come quelle di prevalenza studiate da Langa nel 2008, tuttavia convergenti con esse e omogenee nelle età specifiche con un importante significato anche concettuale. L’articolo di Larsonn cita anche gli altri due studi europei pubblicati nel 2013. Uno di incidenza, svedese, pubblicato su Neurology del 14 maggio (C.Qiu, E.von Strauss, L.Backman et al Twenty-year changes in dementia occurrence suggest decreasing incidence in central Stockholm, Sweden. Neurology 2013;80:1888-1894), che esamina prevalenza e sopravvivenza delle persone con demenza fra il 1987-1989 e il 2001- 2004. La prevalenza risultava non diversa nelle due coorti, mentre la sopravvivenza aumentava così da far ipotizzare che ci fosse stata una diminuzione di incidenza, essendo l’incidenza il risultato di “prevalenza/tempo”, quindi aumentando il denominatore a costanza di numeratore diminuisce il risultato. Un’ evidenza quindi solo indiretta e con un risultato in contrasto con quello rilevato da Langa nel 2008.
L’altro studio citato è uno studio ampio condotto nel Regno Unito e apparso su Lancet dell’ottobre 2013 (F.E. Matthews, A. Arthur, L.E. Barnes et al. A two-decade comparison of prevalence of dementia in individuals aged 65 years and older from three geographical areas of England: results of the Cognitive Function and Ageing Study I and II. Lancet 2013;382:1405-1412) a firma di Matthews, ma a nome di un grande panel di collaboratori (Medical Research Council Cognitive Function and Ageing Collaboration). Si tratta di uno studio che aveva l’obiettivo di indagare se la prevalenza della demenza fosse mutata in vent’anni, basandosi su uno studio longitudinale condotto con uguali criteri di diagnosi in tre aree diverse nel Regno Unito nel 1989 – 1994 e nel 2008 – 2011 (CFAS I e CFAS II). Nel confronto fra i due periodi si è osservata una diminuzione dell’ 1,8% (odds ratio CFAS II vs CFAS I 0,7, 95% CI 0,6-0,9, p=0·003). Quindi una diminuzione robusta di prevalenza, anche considerando gli alti numeri della ricerca.
Nel commento a questo insieme di dati Larson e collaboratori giustamente sottolineano che se anche i numeri non possono essere considerati indiscutibili e conclusivi, il trend della diminuzione si può dare per accertato e sarebbe veramente importante capire quali sono stati e sono i fattori protettivi che hanno agito. Due sono infatti i fattori protettivi comuni fra tutti questi studi: la maggior scolarità e la diminuzione delle patologie vascolari, nonostante alcuni riconosciuti fattori di rischio non siano in calo (obesità e ipertensione ad esempio). Ne risulta un quadro, certo solo indicativo, ma abbastanza chiaro di quel che si può fare per garantirci nel tempo una più consistente diminuzione delle demenze: investire di più nella scuola, mantenere una buona attività sociale, fisica e mentale nel corso della vita, controllare i fattori di rischio cardiovascolari, senza farne un’ossessione.
Qualche considerazione più vicina a noi su questi dati:
- La diminuzione della prevalenza, probabile anche se non provata conseguenza della diminuzione dell’incidenza età specifica, di per sé non comporterà a breve alcuna diminuzione effettiva del bisogno di assistenza e cura dei malati di Alzheimer e altre demenze: infatti con la prevalenza parliamo di percentuali mentre i servizi si fanno sui numeri assoluti, i numeri reali. Una diminuzione dell’1,8% applicata ad una popolazione che cresce del 2% significa un aumento del numero degli assistibili dello 0,2%! Quindi per ora possiamo solo sperare in un rallentamento dell’aumento che comunque ci sarà.
- Vi è una più generale e accertata diminuzione della disabilità età specifica entro cui si inscrive la diminuzione percentuale della demenza, a riprova di un punto miliare della storia del pensiero gerontologico moderno, la teoria della “compressione della morbilità” di Fries. Per la disabilità basti citare lo storico articolo di Waidmann e Liu nel Journal of Gerontology del settembre del 2000 (TA Waidmann, K. Liu Disability trends among the elderly and implications for the future. Journal of Gerontology: Social Sciences, 2000, 55B, S298-S307), dove analizzando i dati del Medicare 1992-96 gli autori costruiscono possibili equazioni di trend che mantengono per il futuro le previsioni della diminuzione della disabilità anche correggendo per i fattori demografici e sociali. Questo a mio parere conferma anche la natura sindromica della Demenza, la sua multifattorialità, e quindi la sua connessione con una varietà di aspetti che vanno dal biologico al sociale.
- La necessità di attuare piani preventivi non si ferma solo alle età giovane e adulta. La buona notizia è che anche in età anziana non solo le buone abitudini, ma anche l’intervento di attivazione e stimolazione fisico e mentale hanno un effetto positivo dimostrato. La letteratura sulle abitudini di vita è amplissima , ma vi sono ora anche meta-analisi sull’intervento programmato che mostrano buoni risultati. Si può citare la meta-analisi di Tardif e Simard dell’agosto 2011 sull’ International Journal of Alzheimer Disease (Tardif S, Simard M.Cognitive stimulation programs in healthy elderly: a review. Int J Alzheimers Dis. 2011;2011:378934) che, analizzando 14 studi di cui 9 RCT e 7 con controllo attivo, dimostra l’efficacia sia a breve che a lungo termine degli interventi attuati.
È presto per pensare ad un vantaggio immediato da questi trend indubbiamente positivi. Ancora a lungo continuerà ad esserci bisogno di aumentare numero e efficacia dei servizi per le demenze, ma l’importanza dell’ambiente, delle abitudini di vita e degli interventi preventivi non farmacologici da questi dati risulta indubbiamente esaltata. Questa è una buona notizia, sempre che la società e le istituzioni la sappiamo cogliere come tale e che noi riusciamo a farlo capire: è per la gerontologia e la geriatria, una vera, indiscutibile, storica priorità.