1 Dicembre 2008 | Strumenti e approcci

Cosa c’è di geriatrico nella riabilitazione geriatrica? La peculiarità dell’attività riabilitativa in geriatria

attività riabilitativa in geriatria

Premessa

In Lombardia è stata istituita (DGR n. VII/19883 del 16 dicembre 2004) una tipologia riabilitativa chiaramente definita come “geriatrica” che conta 1.700 posti letto e 850 posti di day hospital. La maggioranza di questi letti si trova in istituzioni non ospedaliere, soprattutto ex IPAB oggi ASP o Fondazioni, gestite da geriatri, una situazione che la Lombardia condivide con esperienze internazionali: ad esempio, negli USA il numero degli anziani ricoverati in riabilitazione extra ospedaliera fra il 1989 e il 1996 è passato da 0,6 milioni di ricoveri a 1,1 milioni, e la spesa per il settore da 2,8 miliardi di dollari a 11,3 (Johnson et al., 2000). Molti geriatri si trovano così ad operare in campo riabilitativo, e spesso non come neofiti, ma con anni di esperienza alle spalle. Può essere perciò utile sollecitare contributi e dibattiti sul tema dal momento che, come geriatri, né pensiamo di essere onnipotenti, né pensiamo di non avere nulla da dare o da dire su questo tema.

 

La “medicina funzionale”, secondo Gadamer (Gadamer, 1994) in molti modi diversa dalla “medicina della struttura”, non può essere di proprietà esclusiva di nessuna specialità medica, anche se riconosciamo la specifica e prioritaria competenza dei colleghi fisiatri in molti campi di questa medicina. Realizzare questa integrazione di saperi, trasformare i potenziali conflitti in fruttuosa collaborazione, è un obiettivo possibile e utile per i nostri pazienti. Per questo vogliamo approfondire e aprire il nostro pensiero su ciò che riteniamo sia peculiare dell’attività riabilitativa per gli anziani. Tesi di Guaita: l’intervento riabilitativo geriatrico è vantaggioso quando riguarda i casi in cui la patologia invalidante si inscrive in un contesto di fragilità “compatibile”.

 

Punti rilevanti

L’attività di riabilitazione in campo geriatrico pone problemi peculiari, sia di tipo concettuale che di tipo pratico-metodologico, per la necessità di rispondere a una nuova qualità di bisogni che la popolazione anziana pone alla riabilitazione.

 

In sintesi queste nuove “domande” sono:

  • le diverse caratteristiche di contesto in cui si inserisce la disabilità, temporanea o permanente: riduzione della riserva funzionale di organi, apparati e funzioni, cioè la “fragilità” (Ferrucci e Marchionni, 2001);
  • la diversa capacità e attitudine del sistema sociale di riferimento: la rete (IRER, 2000);
  • la diversa motivazione psicologica al recupero funzionale, quindi desiderio di aiuto oltre che desiderio di autonomia;
  • le diverse caratteristiche del rapporto fra disabilità e malattia: la comorbosità (Ferrari et al., 2002);
  • il perdurare della malattia causa di disabilità, che quindi non è una “sequela” invalidante, ma una delle espressioni sintomatologiche della malattia/e di base (ICF, 2008);
  • le diverse caratteristiche della disabilità stessa, soprattutto la rilevanza della cosiddetta disabilità progressiva rispetto alla “disabilità catastrofica” (Ferrucci e Guralnik, 1996);
  • il problema delle funzioni psichiche, come la depressione, il delirium e la demenza (Givens et al., 2008).

 

 

Sono aspetti sostanziali che mutano il quadro dell’approccio riabilitativo, oppure, se non vengono adeguati strumenti e metodi di intervento, condannano una fetta consistente della popolazione anziana a non avere le risposte riabilitative di cui avrebbe bisogno (non accedono alla riabilitazione perché “ancora malati”, “troppo fragili”, “hanno deficit cognitivi”, ecc.).

 

La riflessione su questi aspetti porta a riformulare gli obiettivi dei reparti riabilitativi geriatrici, proponendoci tre obiettivi principali su cui misurare efficienza e efficacia della riabilitazione geriatrica:

  1. Recupero funzionale e promozione della riserva funzionale: non servono molte spiegazioni, è l’obiettivo tradizionale della riabilitazione, con una aggiunta “geriatrica” sulla riserva funzionale (diminuire cioè la fragilità), che riguarda soprattutto il day hospital.
  2. Ritorno a casa: ricostruire la possibilità di vivere al meglio nel proprio domicilio, evitando l’istituzionalizzazione. Accettare questo obiettivo significa attrezzare in modo multidisciplinare le equipe riabilitative, sia includendo figure sociali, sia sviluppando nei riabilitatori, accanto agli strumenti tradizionali di valutazione, anche la valutazione delle reti di relazioni e la valutazione dello spazio fisico e di vita della persona anziana. Significa anche accettare che il compito della riabilitazione non è solo quello di modificare in meglio la prestazione del malato, ma anche di modificare l’ambiente in funzione delle prestazioni non recuperate. Questo ha larga parte, come è facile immaginare, nel ritorno a casa dei malati con demenza (Colombo et al., 1998).
  3. Stabilizzazione clinica: è il settore più nuovo, ma anche più “debole” delle nostre valutazioni. L’“instabilità”, infatti, è un elemento poco misurato (poco misurabile?) ma cruciale ad esempio per definire lo “stress” del caregiver. Secondo dati della provincia di Milano, in una ampia ricerca sui caregiver di oltre 300 anziani disabili (Facchini, 2006) i valori medi di stress si presentano più alti non nei più disabili e dove sono necessari più interventi, ma nelle situazioni dove tale intervento non è prevedibile e programmabile. La conseguenza di ciò è che non si può più stabilire un rapporto lineare fra grado di disabilità motoria, bisogno e quantità/qualità della risposta. L’instabilità clinica per lo più viene identificata con la gravità e frequenza dei disturbi clinici, in pratica con la comorbosità o con altri criteri mutuati dalla malattia acuta (Halm et al., 2002), oppure a posteriori con gli “ACEs” (Adverse Clinical Events) (Bernardini et al., 1993) ma non vi è, a tutt’oggi, una definizione operazionale effettivamente soddisfacente.

 

Per ulteriore commento e chiarimento

Le situazioni a preminenza geriatrica sono quelle con problemi multipli, interattivi e simultanei; sono quelle in cui la prognosi quoad vitam si confonde con quella quoad valetudinem; sono quelle in cui la risoluzione dei fattori contestuali è più importante rispetto all’evento scatenante la disabilità per conseguire dei risultati funzionali.

 

Nei pazienti geriatrici l’andamento del miglioramento è globale ed estremamente interattivo: se migliora il Barthel Index migliora la CIRS (Cumulative Illness Rating Scale: una scala di comorbosità validata anche per le situazioni di cura a lungo termine) e viceversa, per cui l’intervento sulle malattie e sul recupero funzionale vanno di pari passo (Porta, 2006/2007). L’andamento delle “sindromi geriatriche”, così spesso presenti nelle fasi post acute degli anziani (incontinenza, delirium, cadute, malnutrizione, depressione, la fragilità come sindrome) è un potente fattore condizionante l’outcome riabilitativo. Il 45% dei ricoverati in riabilitazione del Medicare negli USA ha diagnosi “non usuali”, in cui le componenti internistiche e psichiche hanno una rilevanza di primo piano nel processo riabilitativo (Johnson et al., 2000).

 

I servizi riabilitativi devono quindi avere in sé la capacità di rimettere in discussione il percorso che porta dalla malattia alla perdita del benessere e dell’autonomia, non affidandosi solo “alla palestra” sulle conseguenze dei processi patologici, ma con la capacità di rimettere in discussione la stessa patologia e il suo impatto disabilitante (ri-classificazione della gravità dei disturbi e dei problemi alla luce del recupero funzionale, riduzione al minimo delle fasi di immobilizzazione, e del “tenere a letto”, rivalutazione nutrizionale degli aspetti energetico disperdenti della maggior parte degli scompensi, rivalutazione degli effetti benefici del movimento anche in fase di scompenso, terapia del dolore e di ogni altro possibile malessere magari non mortale ma certo grave per la funzione, necessità di evitare restrizioni incongrue di ogni attività, ecc.).

 

A questo proposito, può essere utile confrontare due definizioni di riabilitazione: “La riabilitazione è l’applicazione di tecniche e metodiche che, tenendo conto dello stato clinico del paziente con le sue singole o plurime componenti patologiche, sono rivolte a recuperare uno stato funzionale compromesso da un unico evento o da più eventi concomitanti ed identificabili (oppure a evocare abilità e competenze non comparse o in ritardo rispetto allo sviluppo cosiddetto fisiologico)” (DGR n. VII/19883 del 16 dicembre 2004). La riabilitazione consiste in: “…Massimizzare la capacità di mantenere ruolo e autonomia nel proprio ambiente con i limiti imposti dalla patologia, dal danno funzionale e dalle risorse disponibili… aiutare la persona ad adattarsi al meglio per ogni differenza fra capacità raggiunta e desiderata…” (Wade, 1992).

 

La relativizzazione degli obiettivi, questo “aiutare ad adattarsi” non è una scelta impotente, ma corrisponde perfettamente al ripensamento che la medicina deve fare di fronte alle situazioni che non consentono una risoluzione completa: “Qual è il significato del grande rilievo assunto dalla malattia cronica nella medicina moderna? Qui l’uomo deve evidentemente imparare ad accettare l’infermità e a vivere con il suo male, almeno nella misura in cui esso lo consente” (Gadamer, 1994). Allo stesso modo, qui, “imparare ad accettare” implica un processo attivo che deve necessariamente essere fatto di tante cose, anche se abbandona il sogno impossibile della “restituito ad integrum” e invita a scoprire o a costruire nuovi equilibri: la malattia cronica, come l’invecchiamento, ci obbliga a vedere il processo di cura all’interno del processo biologico che, come la fisica termodinamica, ha una direzione.

 

La cura non è ritorno al passato ma costruzione del miglior futuro possibile. Nel lavoro di Johnson, già citato (Johnson et al., 2000), sui risultati conseguiti negli anziani in termini funzionali, a seconda delle diagnosi si vede come diagnosi medico chirurgiche, che in altre popolazioni sarebbero da considerare “improprie”, in realtà negli anziani mostrino percentuali di recupero funzionale simili alle classiche “emiplegia” e “frattura di femore”. Ancora, in una analisi successiva si è visto come anche il deficit cognitivo non costituisce di per sé un ostacolo al recupero funzionale, caso mai condiziona una maggior lentezza nel raggiungimento degli stessi livelli di efficacia riabilitativa (Colombo et al., 2004).

 

Insomma, per molti anziani guarire dalla malattia non significa necessariamente recuperare la salute, per cui occorre che, di fronte alla disabilità da evento acuto o progressivo, non ci si rassegni ad una soluzione solo assistenziale, ma si rilanci un progetto “geriatrico” di miglioramento insieme clinico e funzionale. Il mondo della riabilitazione deve trasformare una parte consistente del suo modo di operare se vuole pagare il debito che ha contratto con la salute degli anziani, non negando l’intervento in nessuna delle fasi della storia naturale delle malattie croniche e invalidanti; la preminenza dell’intervento riabilitativo va riservata alla fase in cui è possibile un miglioramento ma, con ruolo di “seconda fila”, vanno costruiti interventi di supporto sia alla prevenzione che alla gestione protesica della disabilità cronica non recuperabile.

Bibliografia

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Facchini C. Il lavoro di cura tra condivisione e solitudine (rapporto di ricerca) Provincia di Milano, 2006.

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